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1 Agosto 2020-: Santa Maria Francesca di Gesù (1844-1904)-: Santa Maria Francesca di Gesù (1844-1904)1 Agosto 2020 - Santa Maria Francesca di Gesù Anna Maria Rubatto nacque a Carmagnola, in provincia e diocesi di Torino, il 14 febbraio 1844 e fu battezzata lo stesso giorno nella chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo. Era la penultima degli otto figli di Giovanni Tommaso Rubatto, proprietario di una stalla, e Caterina Pavesio, sarta. Marietta, come la chiamavano in famiglia, rimase orfana di padre a quattro anni. La madre si risposò, ma morì quando lei era ormai diciannovenne. La ragazza, quindi, si trasferì a Torino, in casa di sua sorella maggiore Maddalena, sposata con Giuseppe Tuninetti e senza figli; vi rimase per cinque anni. Marietta era anche molto impegnata in opere di carità: visitava ogni giorno la Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, servendo con letizia gli ammalati e aiutando con liberalità anche i poveri. Ebbe come guide spirituali l’oratoriano padre Felice Carpignano e il canonico Bartolomeo Giuganino. Fu quest’ultimo che, con tutta probabilità, la fece entrare in contatto con don Giovanni Bosco. Il futuro santo ebbe molta stima di lei e apprezzò il suo apporto negli oratori, sia come benefattrice sia come catechista. In seguito entrò a servizio della signora Marianna Scoffone, vedova Costa, come dama di compagnia, pur continuando il suo impegno caritativo. Divenne a tutti gli effetti sua figlia adottiva, tanto da ereditare una pensione vitalizia alla sua morte, dopo la quale ritornò presso sua sorella; ormai aveva trentanove anni. In estate Anna Maria si recava in villeggiatura a Loano, sulla Riviera Ligure. Mentre beneficava dei bagni di mare, cercava anche di aiutare i pescatori e gli ammalati nelle loro necessità e s’interessava dei bambini abbandonati. Ogni giorno andava nella chiesa dei Cappuccini a pregare silenziosamente davanti al Tabernacolo: «Si vede che se l’intendeva col Signore senza parlare», raccontò in seguito una testimone. Un giorno, probabilmente dell’agosto 1883, Anna Maria stava uscendo dalla chiesa dei Cappuccini di Loano, quando passò per un edificio in costruzione in quei paraggi. Un giovanissimo operaio, Francesco Panizza, venne colpito alla testa da una pietra caduta dai ponti della costruzione e perse molto sangue. La donna lo vide, lo curò e gli diede il corrispettivo di due giornate di lavoro perché andasse a casa a riposare. L’edificio era stato voluto da una signorina nubile, Maria Elice, la quale faceva parte di un gruppo di pie donne dedite, sotto la guida dei padri Cappuccini, alle opere di carità e di apostolato, destinate a diventare un nuovo Istituto religioso. Fu proprio un Cappuccino, padre Angelico da Sestri Ponente, che invitò Anna Maria a diventarne la superiora. La sua opera si diffuse molto presto non solo in Liguria, ma anche nell’America Latina. Dal 1892 madre Francesca varcò ben quattro volte l’Oceano, con lunghe soste per erigere case in Uruguay e in Argentina. Il 16 gennaio 1899 compì la sua professione perpetua, insieme ad altre nove sorelle. Nello stesso anno, accompagnò personalmente sei giovani suore alla missione di San Giuseppe della Provvidenza ad Alto Alegre, nella regione brasiliana del Maranhão, retta dai padri Cappuccini. Due anni dopo, il 22 marzo 1901, un telegramma portò una notizia dolorosa: le suore e una novizia brasiliana, quattro frati Cappuccini, due Terziari francescani e oltre 250 fedeli erano stati massacrati dagli indios. Il fatto era accaduto il 13 marzo. Madre Francesca reagì inizialmente rimpiangendo di non aver condiviso la sorte delle sue figlie, ma si sottomise presto alla volontà di Dio e incoraggiò le altre suore a fare altrettanto. Continuò quindi a viaggiare tra l’Italia e l’America del Sud, coadiuvata dalla sua vicaria madre Angelica. Nel 1902 madre Francesca partì per l’America per quella che avrebbe dovuto essere una visita di qualche mese, ma che si protrasse invece per due anni. Nel maggio 1904, mentre si trovava a Montevideo, fu costretta a letto per un’infezione interna, trascurata per essersi occupata delle varie case fondate e in fondazione: fu per tutti esempio di forza cristiana e di piena rassegnazione. Un’operazione chirurgica non valse a salvarla: così, tre giorni dopo aver ricevuto l’Unzione degli Infermi e gli ultimi sacramenti, madre Francesca morì il 6 agosto 1904, compianta specialmente dagli ammalati e dai poveri di Montevideo, oltre che dalle sue Cappuccine. La sua salma fu inizialmente sepolta nel cimitero di La Teja a Montevideo: come aveva desiderato nel suo testamento spirituale, era stata posta in mezzo ai poveri. Nel 1914 venne traslata nella chiesetta di Sant’Antonio di Padova a Montevideo, da lei stessa voluta, a sinistra dell’altare maggiore. Attualmente i suoi resti sono venerati sotto l’altare maggiore della stessa chiesa, diventata Santuario diocesano il 9 settembre 2000.
Dall’omelia di Papa Giovanni Paolo II alla Beatificazione (10 ottobre 1993)
“La Chiesa saluta te, SUOR MARIA FRANCESCA DI GESU’, Fondatrice delle Suore Terziarie Cappuccine di Loano, che hai fatto della tua esistenza un continuo servizio agli ultimi, testimoniando lo speciale amore che Dio ha per i piccoli e gli umili.
Seguendo fedelmente le orme di Francesco, l’innamorato della povertà evangelica, hai imparato non solo a servire i poveri, ma a farti povera tu stessa e hai indicato alle tue figlie spirituali questa speciale via di evangelizzazione. Con la crescita dell’Istituto, questa iniziale intuizione è diventata profondo slancio missionario che ha condotto te e la tua opera in America Latina, dove alcune tue figlie spirituali hanno suggellato col sacrificio della vita quel servizio ai poveri che costituisce il carisma affidato alla tua Congregazione a vantaggio dell’intera Chiesa. Oggi la salutiamo come la prima BEATA dell’URUGUAY. Continua la tua profetica testimonianza della carità ancora oggi nei molteplici campi di apostolato in cui opera la Congregazione, contribuendo a far giungere ad ogni uomo, in particolare ai sofferenti e agli abbandonati, l’invito universale al banchetto delle nozze celesti (cf MT 22,9)”. |
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13 Agosto 2020-: Beato Mariano Mullerat Soldevida (1897-1931)-: Beato Mariano Mullerat Soldevida (1897-1931)13 Agosto 2020 - Beato Mariano Mullerat Soldevida Mariano Mullerat Soldevila (in catalano Marià Mullerat i Soldevila) nacque a Santa Coloma de Queralt, presso Tarragona, il 24 marzo 1897. I suoi genitori, Ramon Mullerat Segura e Bonaventura Soldevila Calvís, avevano avuto molti figli, ma solo sette erano sopravvissuti; Mariano era il penultimo. Fu battezzato sei giorni dopo la nascita, il 30 marzo 1897; secondo l’uso del tempo in Spagna, ricevette la Cresima poco meno di due mesi dopo, il 17 maggio. Rimase molto presto orfano di madre. Frequentò la scuola nel suo paese natale fino a tredici anni, quando divenne allievo interno del collegio San Pietro Apostolo di Reus, retto dai religiosi Figli della Sacra Famiglia. Nei quattro anni che trascorse lì ottenne ottimi voti, come anche nell’Istituto d’Insegnamento Secondario della stessa città. Durante le vacanze, però, tornava al suo paese. Nel 1914 entrò a far parte della Guardia d’Onore al Sacro Cuore di Gesù, impegnandosi quindi, per tutta la vita, a offrire un’ora della sua giornata in riparazione alle offese contro l’Eucaristia. Inoltre, si accostava molto di frequente ai Sacramenti della Confessione e della Comunione eucaristica. Fino ai diciott’anni fu socio di un circolo giovanile di Santa Coloma de Queralt, che portava avanti gli insegnamenti politici del movimento conservatore del carlismo. Cominciò anche a promuovere quegli stessi ideali tramite alcuni articoli per la stampa. Nel 1914 s’iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Barcellona. Anche allora i suoi voti furono eccellenti, mentre la sua testimonianza di fede si faceva ancora più intensa: era ancora studente del primo anno quando difese la verginità di Maria in aperto contrasto con un professore che, invece, la negava. Nel 1918 entrò nel pensionato della facoltà, cominciando il tirocinio pratico e imparando a trattare direttamente con i malati. Sul piano accademico, continuava a dare prova di sé: sempre nel 1918, con un compagno, diede alle stampe un testo di anatomia patologica. Nell’ottobre 1921, infine, ottenne la licenza in Medicina e Chirurgia. Durante le vacanze estive, che trascorreva nel vicino paese di Arbeca, ospite di sua sorella Josepa e del marito di lei, Mariano conobbe una ragazza, Maria Dolores Sans Bové. Nelle lettere che le scrisse a partire dal novembre 1918 le manifestò i propri sentimenti e la determinazione a formare una famiglia veramente cristiana, sull’esempio della Santa Famiglia di Nazaret. Si sposarono il 14 gennaio 1922, ad Arbeca. La loro prima figlia, Maria Dolores, morì appena nata, nel gennaio 1923, lo stesso giorno in cui le fu amministrato d’urgenza il Battesimo in casa. Dopo di lei, nel 1925, nacque un’altra bambina che ricevette lo stesso nome; seguirono Josefina, nel 1929; Adela, nel 1932; Maria Montserrat, nel 1935. Mariano e sua moglie educarono le bambine secondo i principi cristiani. In casa loro vivevano i nonni materni, una bisnonna e una serva, Teresa. Ogni sera, tutti insieme, svolgevano una sorta di liturgia domestica: recitavano il Rosario, ascoltavano una breve meditazione e restavano qualche istante in silenzio. La domenica, Mariano amava arrivare molto tempo prima della Messa, per prepararsi bene e accostarsi alla Confessione. Mariano era stimatissimo come medico di famiglia, sia nel suo paese sia in quelli vicini. Riceveva tutti i giorni, in studio o, più di frequente, a domicilio. A quanti guarivano grazie alle sue cure, rispondeva immancabilmente: «Non deve ringraziare me, ma Dio; è lui che cura». Aiutava anche materialmente i suoi malati più poveri, lasciando sotto il loro cuscino i soldi necessari per le medicine. Alla preoccupazione per la salute dei corpi accompagnava quella per la salvezza delle anime: quando si trovava davanti qualche moribondo, lo preparava a ricevere gli ultimi Sacramenti. Apparteneva all’associazione degli Esercizi Spirituali Parrocchiali, che promuoveva tra i fedeli la pratica degli Esercizi secondo gli insegnamenti di sant’Ignazio di Loyola; lui stesso vi prese parte, più di una volta. S’iscrisse anche all’Apostolato della Preghiera ed era presidente del gruppo della Perseveranza nella fede. Partecipava a tutte le attività della parrocchia di San Giacomo nel suo paese. Devoto alla Vergine Maria, non si vergognava di essere l’unico uomo a partecipare alle funzioni del mese di maggio. Era anche molto vicino all’Ordine domenicano: una sua cognata era monaca Domenicana dell’Assunzione. Dal 1923 al 1926 diresse «L’Escut», un periodico che conteneva articoli su vari argomenti: agricoltura, religione, storia locale. Mariano era entusiasta per il progresso civile dei suoi concittadini e lo manifestava nei suoi articoli, nei quali trasmetteva la sua fede senza per questo imporla a nessuno. Per la stima di cui godeva presso i cittadini di Arbeca, fu da loro eletto sindaco il 29 marzo 1924, a ventisette anni, pur non appartenendo a nessun partito politico. Promosse varie opere urbanistiche, fece costruire nuove scuole e strade e aumentò i terreni coltivabili. Allo scopo di favorire la riscoperta delle tradizioni locali, aprì l’archivio municipale ai ricercatori storici e fondò una biblioteca. Tutte queste realizzazioni, unite al suo carattere simpatico, lo resero molto famoso in tutta la provincia. Mariano terminò la sua carica nel marzo 1930. Qualche mese più tardi, in Spagna, fu proclamata la seconda repubblica. Gradualmente si distaccò dall’azione politica: sentiva, infatti, che la Chiesa spagnola fosse in serio pericolo. I rischi aumentarono dopo il 1934, con la rivoluzione delle Asturie. Allo stesso modo, era consapevole che il suo essere credente lo rendeva un bersaglio per la persecuzione. Pur senza perdere la propria affabilità, entrò in un silenzio interiore, lo stesso con cui contemplò il rogo delle immagini sacre della sua chiesa parrocchiale. Alla fine accettò il consiglio di scappare a Saragozza, per salvarsi. Tuttavia, arrivato a Lerida, decise di tornare indietro: non poteva abbandonare i suoi malati. Intensificò la sua preghiera: ogni giorno, inginocchiato davanti al Crocifisso di casa sua, recitava l’orazione per la buona morte. Riuscì anche ad aiutare le suore domenicane del suo paese e, grazie ad alcuni colleghi, altre suore che si erano rifugiate in paese. Anche sua cognata suor Montserrat Sans Bové tornò a casa per cercare di scampare alla persecuzione. Spesso lo udì affermare che, se fosse stato ucciso, avrebbe perdonato i propri persecutori. Il 10 e il 12 agosto fu costretto dai miliziani a firmare alcuni documenti, con cui veniva espropriato dei fondi economici che aveva versato per la propria pensione. Il 13 agosto, invece, altri miliziani si presentarono a casa sua. Entrati, cominciarono il saccheggio, gettando dalla finestra tutte le immagini sacre che riuscirono a trovare. Prima di uscire di casa, Mariano baciò un grande Crocifisso cui teneva molto: l’aveva comprato rinunciando, per qualche tempo, a fumare tabacco. Fece poi lo stesso con la figlia più piccola, che era in braccio a sua madre. Rivolto alla moglie, infine, disse: «Dolores, perdonali tutti, come anch’io li perdono». Fu quindi portato nella caserma della Guardia Civile (la polizia spagnola), dov’erano detenuti altri cinque abitanti di Arbeca. Anche lì, Mariano prestò i suoi servizi medici: prima a un miliziano che si era ferito per sbaglio con la propria arma da fuoco, poi a una donna che era venuta a chiedergli di prescrivere una medicina a suo figlio, gravemente ammalato. Il padre di quel ragazzo, peraltro, era tra i persecutori. I sei prigionieri vennero quindi fatti salire su un camion. A quel punto, Mariano invitò gli altri a recitare l’Atto di dolore. Annotò poi i nomi di alcune persone che avrebbe dovuto visitare e chiese di consegnare la lista a Francisco Galceran, anche lui medico in paese. Il mezzo si fermò a “El Pla”, una località nei pressi di una cava di sabbia a tre chilometri dal paese. Mariano, sceso dal camion, invitò di nuovo gli altri a pregare e a perdonare quanti stavano per ucciderli. Un giovane, Antoni Martí Tilló, che tornava dal servizio militare, l’udì ripetere le ultime parole di Gesù in croce: «Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito». Aveva appena finito di parlare, quando uno dei persecutori lo colpì al viso con una zappa, facendogli perdere alcuni denti. Verso le due del mattino, i condannati vennero colpiti con armi da fuoco. I corpi furono cosparsi di benzina e bruciati, ma non tutti erano già morti. Mariano aveva trentanove anni. Il grande Crocifisso che lui aveva baciato prima di andarsene rischiò di essere distrutto quando, poche ore dopo la sua morte, i miliziani tornarono a casa sua. Il nonno era disposto a consegnarlo, ma la figlia maggiore, Maria Dolores, si oppose vivamente: l’oggetto fu quindi risparmiato. Il mattino dopo, la domestica di casa Mullerat e le vedove degli uccisi riuscirono a recuperare gli effetti personali del dottore: un crocifisso bruciato, la chiave di casa e alcuni strumenti medici. I resti dei loro congiunti vennero deposti in un monumento che fu inaugurato quattro anni dopo l’accaduto, il 13 agosto 1940. Il nulla osta per l’avvio della causa di beatificazione di Mariano è stato emesso dalla Santa Sede il 13 febbraio 2003. Il processo diocesano, svolto a Tarragona dal 9 luglio 2003 al 26 aprile 2004, è stato convalidato il 9 aprile 2007. La fase romana della causa è stata seguita dalla Postulazione Generale dei Domenicani, in nome del legame speciale che univa il Servo di Dio al loro Ordine. I Consultori storici della Congregazione delle Cause dei Santi si sono quindi riuniti l’8 aprile 2014. In seguito alla presentazione della “Positio super martyrio” e all’esame da parte dei Consultori teologi e dei cardinali e dei vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi, è stato riconosciuto che davvero Mariano era morto in odio alla fede. Il decreto promulgato il 7 novembre 2018 da papa Francesco lo sanciva ufficialmente. La beatificazione del dottor Mullerat si è quindi svolta il 23 marzo 2019 nella cattedrale di Tarragona. A presiedere il rito, come inviato del Santo Padre, è stato il cardinal Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. La sua memoria liturgica, per la diocesi di Tarragona, è stata fissata al 13 agosto, giorno della sua nascita al Cielo. (traduzione dell’originale in catalano) Signore Gesù Cristo, per l’amore che ti ha portato il tuo servo, il beato Mariano, e per la sua fedeltà fino alla morte in un martirio glorioso, concedimi il perdono e la pace del cuore, lenisci le ferite della mia vita e per la sua intercessione concedimi la grazia che ti domando, se è conforme alla tua volontà. Amen.
Preghiera per domandare la grazia della guarigione di un malato (traduzione dell’originale in catalano) Ti affidiamo, Padre, tuo figlio/tua figlia N. Per intercessione del beato Mariano, martire di Cristo, apostolo di carità e medico disponibile, confortalo nelle sue sofferenze e donagli, se è tua volontà, la salute del corpo e dello spirito. Per Cristo, tuo Figlio, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Preghiera dei medici per domandare l’intercessione dei Beato Mariano Mullerat (traduzione dell’originale in catalano) Signore Gesù, ti affido il mio servizio di medico. Fa’ che io visiti e badi ai miei pazienti con amore, pazienza e sapienza affinché impari a fare la diagnosi del corpo e dell’anima. Concedimi, per la generosità del buon medico martire, il beato dottor Mariano Mullerat, di aiutare a trattare i miei pazienti e le loro famiglie con bontà, delicatezza e amore, comunicando sempre consolazione e speranza. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. |
14 Agosto 2020 | 15 Agosto 2020 |
16 Agosto 2020-: San Rocco (1295-1327)-: San Rocco (1295-1327)16 Agosto 2020 - San Rocco Nonostante la grande popolarità di San Rocco, le notizie sulla sua vita sono molto frammentarie per poter comporre una biografia in piena regola, comunque è possibile, grazie ai molti studi fatti, tracciare a grandi linee un profilo del nostro Santo, elaborando una serie di notizie essenziali sulla sua breve esistenza terrena. Tra le varie “correzioni” che sono state proposte alle date tradizionali (1295-1327), si è gradatamente imposta quella che oggi sembra la più consolidata: il Santo è nato a Montpellier fra il 1345 e il 1350 ed è morto a Voghera fra il 1376 ed il 1379 molto giovane a non più di trentadue anni di età. Secondo tutte le biografie i genitori Jean e Libère De La Croix erano una coppia di esemplari virtù cristiane, ricchi e benestanti ma dediti ad opere di carità. Rattristati dalla mancanza di un figlio rivolsero continue preghiere alla Vergine Maria dell’antica Chiesa di Notre-Dame des Tables fino ad ottenere la grazia richiesta. Secondo la pia devozione il neonato, a cui fu dato il nome di Rocco (da Rog o Rotch), nacque con una croce vermiglia impressa sul petto. Intorno ai vent’anni di età perse entrambi i genitori e decise di seguire Cristo fino in fondo: vendette tutti i suoi beni, si affiliò al Terz’ordine francescano e, indossato l’abito del pellegrino, fece voto di recarsi a Roma a pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo. Bastone, mantello, cappello, borraccia e conchiglia sono i suoi ornamenti; la preghiera e la carità la sua forza; Gesù Cristo il suo gaudio e la sua santità. Non è possibile ricostruire il percorso prescelto per arrivare dalla Francia nel nostro Paese: forse attraverso le Alpi per poi dirigersi verso l’Emilia e l’Umbria, o lungo la Costa Azzurra per scendere dalla Liguria il litorale tirrenico. Certo è che nel luglio 1367 era ad Acquapendente, una cittadina in provincia di Viterbo, dove ignorando i consigli della gente in fuga per la peste, il nostro Santo chiese di prestare servizio nel locale ospedale mettendosi al servizio di tutti. Tracciando il segno di croce sui malati, invocando la Trinità di Dio per la guarigione degli appestati, San Rocco diventò lo strumento di Dio per operare miracolose guarigioni. Ad Acquapendente San Rocco si fermò per circa tre mesi fino al diradarsi dell’epidemia, per poi dirigersi verso l’Emilia Romagna dove il morbo infuriava con maggiore violenza, al fine di poter prestare il proprio soccorso alle sventurate vittime della peste. L’arrivo a Roma è databile fra il 1367 e l’inizio del 1368, quando Papa Urbano V è da poco ritornato da Avignone. E’ del tutto probabile che il nostro Santo si sia recato all’ospedale del Santo Spirito, ed è qui che sarebbe avvenuto il più famoso miracolo di San Rocco: la guarigione di un cardinale, liberato dalla peste dopo aver tracciato sulla sua fronte il segno di Croce. Fu proprio questo cardinale a presentare San Rocco al pontefice: l’incontro con il Papa fu il momento culminante del soggiorno romano di San Rocco. La partenza da Roma avvenne tra il 1370 ed il 1371. Varie tradizioni segnalano la presenza del Santo a Rimini, Forlì, Cesena, Parma, Bologna. Certo è che nel luglio 1371 è a Piacenza presso l’ospedale di Nostra Signora di Betlemme. Qui proseguì la sua opera di conforto e di assistenza ai malati, finché scoprì di essere stato colpito dalla peste. Di sua iniziativa o forse scacciato dalla gente si allontana dalla città e si rifugia in un bosco vicino Sarmato, in una capanna vicino al fiume Trebbia. Qui un cane lo trova e lo salva dalla morte per fame portandogli ogni giorno un tozzo di pane, finché il suo ricco padrone seguendolo scopre il rifugio del Santo. Il Dio potente e misericordioso non permette che il giovane pellegrino morisse di peste perché doveva curare e lenire le sofferenze del suo popolo. Intanto in tutti i posti dove Rocco era passato e aveva guarito col segno di croce, il suo nome diventava famoso. Tutti raccontano del giovane pellegrino che porta la carità di Cristo e la potenza miracolosa di Dio. Dopo la guarigione San Rocco riprende il viaggio per tornare in patria. Le antiche ipotesi che riguardano gli ultimi anni della vita del Santo non sono verificabili. La leggenda ritiene che San Rocco sia morto a Montpellier, dove era ritornato o ad Angera sul Lago Maggiore. E’ invece certo che si sia trovato, sulla via del ritorno a casa, implicato nelle complicate vicende politiche del tempo: San Rocco è arrestato come persona sospetta e condotto a Voghera davanti al governatore. Interrogato, per adempiere il voto non volle rivelare il suo nome dicendo solo di essere “un umile servitore di Gesù Cristo”. Gettato in prigione, vi trascorse cinque anni, vivendo questa nuova dura prova come un “purgatorio” per l’espiazione dei peccati. Quando la morte era ormai vicina, chiese al carceriere di condurgli un sacerdote; si verificarono allora alcuni eventi prodigiosi, che indussero i presenti ad avvisare il Governatore. Le voci si sparsero in fretta, ma quando la porta della cella venne riaperta, San Rocco era già morto: era il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 ed il 1379. Prima di spirare, il Santo aveva ottenuto da Dio il dono di diventare l’intercessore di tutti i malati di peste che avessero invocato il suo nome, nome che venne scoperto dall’anziana madre del Governatore o dalla sua nutrice, che dal particolare della croce vermiglia sul petto, riconobbe in lui il Rocco di Montpellier. San Rocco fu sepolto con tutti gli onori. Sulla sua tomba a Voghera cominciò subito a fiorire il culto al giovane Rocco, pellegrino di Montpellier, amico degli ultimi, degli appestati e dei poveri. Il Concilio di Costanza nel 1414 lo invocò santo per la liberazione dall'epidemia di peste ivi propagatasi durante i lavori conciliari. Dal 1999 è attiva presso la Chiesa di San Rocco in Roma, dove per volontà di Papa Clemente VIII dal 1575 è custodita una Insigne Reliquia del Braccio destro di San Rocco, l’Associazione Europea Amici di San Rocco, con lo scopo di diffondere il culto e la devozione verso il Santo della carità attraverso l’esempio concreto di amore verso i malati ed i bisognosi. Oltre a quello romano, altri centri rocchiani sono: - l'Arciconfraternita Scuola Grande di Venezia, che ne custodisce il corpo - il santuario di San Rocco della sua città natale di Montpellier - l'Association Internationale che ha sede sempre in Montpellier e che aggrega e collega le diverse associazioni nazionali - l'Associazione Nazionale San Rocco Italia che ha sede a Sarmato (PC), dove avvenne l'incontro col cane
Preghiera
“Rocco, pellegrino laico in Europa, contagiato, incarcerato, tu che hai guarito i corpi e hai portato gli uomini a Dio, intercedi per noi e salvaci dalle miserie del corpo e dell’anima”. |
17 Agosto 2020 | 18 Agosto 2020 |
19 Agosto 2020-: Giulia Gabrieli, Serva di Dio (1997-2011)-: Giulia Gabrieli, Serva di Dio (1997-2011)19 Agosto 2020 - Giulia Gabrieli Questa è la storia di Giulia Gabrieli, 14 anni, malata di tumore. Sappiate fin da subito che Giulia ce l'ha fatta. È vero, non è guarita: è morta la sera del 19 agosto, a casa sua, nel quartiere di San Tomaso de' Calvi, a Bergamo, proprio mentre alla Gmg di Madrid si concludeva la Via Crucis dei giovani. Eppure ce l'ha fatta. Ha trasformato i suoi due anni di malattia in un inno alla vita, in un crescendo spirituale che l'ha portata a dialogare con la sua morte: «Io ora so che la mia storia può finire solo in due modi: o, grazie a un miracolo, con la completa guarigione, che io chiedo al Signore perché ho tanti progetti da realizzare. E li vorrei realizzare proprio io. Oppure incontro al Signore, che è una bellissima cosa. Sono entrambi due bei finali. L'importante è che, come dice la beata Chiara Luce, sia fatta la volontà di Dio». Giulia era fatta così: diceva queste cose enormi, che a noi adulti tremolanti sembrano impronunciabili, con la lievità dei suoi 14 anni. Eppure era una ragazza normale. Anzi, rivendicava spesso la sua normalità: era bella, solare, genuinamente teatrale, amava viaggiare, vestirsi bene e adorava lo shopping. Un'esplosione di raffinata vitalità, che la malattia, misteriosamente, non ha stroncato, ma amplificato. Il talento della scrittura Aveva il talento della scrittura (due volte premiata al concorso letterario «I racconti del parco»). Amava inventarsi storie fantastiche, avventurose. Per questo paragonava la sua malattia a un'avventura. E rifletteva: «Il fatto è che la gente ha paura della malattia, della sofferenza. Ci sono molti malati che restano soli, tutti i loro amici spariscono, spaventati. Non bisogna avere paura! Se gli altri ci stanno vicino, ci vengono accanto, ci mettono una mano sulla spalla e ci dicono "Dai che ce la fai!", è quello che ci dà la forza di andare avanti. Se questo non succede ti chiedi: perché vanno così lontano? Se hanno paura, allora devo temere anch'io… Perché dovrei lottare per la guarigione se nessuno mi sta accanto?». Non solo conosceva perfettamente la sua malattia, ma aveva imparato a distinguere ogni farmaco, ogni risvolto tecnico delle chemioterapie. Con la sua amabile ma dirompente personalità non lesinava consigli (eufemismo, sarebbe meglio dire direttive) a medici e infermieri dell'oncologia pediatrica di Bergamo. In più ci aggiungeva la sua decisiva flebo di allegria: «Se trovi la forza per pensare: eh va be', vado in ospedale, faccio una chemio e poi torno a casa, è tutta un'altra cosa. Certo anch'io quando sto male mi chiedo: perché è successo proprio a me? Poi però quando sto meglio dico: "Massì, dai, è passato". Ci rido anche sopra...». La malattia va sdrammatizzata La malattia va sdrammatizzata, diceva sempre Giulia. E ci riusciva così bene che pochi giorni prima di morire ha costretto uno dei suoi medici, in visita a casa sua, a mimare «quella volta in cui sono svenuta e tu mi ha presa al volo». Lui ha dovuto mimare e farsi pure fotografare. Quel drammatico pomeriggio è finito con una risata collettiva. Già, i suoi «supereroi». Giulia aveva un rapporto personale, speciale, perfino confidenziale con ciascuno di loro. Li adorava, ampiamente ricambiata. E si arrabbiava moltissimo quando in Tv sentiva parlare di «malasanità». «Se ci fate caso non c'è molta differenza tra un supereroe e un medico. I supereroi salvano tutti i giorni la vita a delle persone, anche sconosciute. E lo stesso si può dire dei medici: solo che anziché usare le tele di ragno come Spiderman o le ali come Batman, usano le medicine. E poi, dal punto di vista umano, sono davvero imbattibili». Potete quindi immaginare con quale peso sul cuore i suoi supereroi le dovettero comunicare un giorno della «recidiva». Il tumore, un sarcoma tra i più aggressivi, tenacemente combattuto per un anno e ridotto in un angolo, si era ripresentato. Più forte di prima. C'era da ricominciare tutto da capo. Nello studio, i medici schierati avevano le lacrime agli occhi, che non sarà professionale ma è dannatamente umano. Non riuscivano a rompere il ghiaccio. Allora Giulia, che come al solito aveva già capito tutto, con uno di quei suoi gesti spontanei e regali, si è alzata e li ha abbracciati uno per uno (e chi l'ha conosciuta sa cosa erano i suoi abbracci...). Poi ha detto: «Ce l'ho fatta una volta ad affrontare le chemio, posso farcela anche la seconda. Forza, ripartiamo da capo». Insomma, li ha consolati, capite? Eppure, insisto, Giulia era una ragazza normale. Per esempio, come tutti i suoi coetanei, amava la musica. E in modo speciale un grande classico di Claudio Baglioni, nella versione cantata da Laura Pausini: «Strada facendo». «Strada facendo vedrai che non sei più da solo... mi trasmette proprio un grande slancio: dai che ce la fai! Strada facendo troverai anche tu un gancio in mezzo al cielo... Sì, mi dà leggerezza, una grande speranza». Strada facendo Giulia si è imbattuta nella storia di Chiara Luce Badano, morta nel 1990, a diciotto anni, per un tumore osseo e proclamata beata il 25 settembre 2010. E Dio solo sa quanto è stato provvidenziale questo incontro: «Lei è morta, però ha saputo vivere questa esperienza in modo così luminoso e solare, abbandonandosi alla volontà del Signore. Voglio imparare a seguirla, a fare quello che lei è riuscita a fare nonostante la malattia. La malattia non è stata un modo per allontanarsi dal Signore, ma per avvicinarsi a Lui...». La gioia. Tenete bene a mente questa parola, perché in questa incredibile ma realissima storia sembra la più fuori posto e invece, alla fine, diventerà la parola chiave. Ma prima c'è da dire di un'altra grande passione di questa ragazza normale: la Madonna. Abbracciata in modo singolare in un primo viaggio a Medjugorje. E poi in un secondo più recente, chiesto per i suoi 14 anni, come regalo di compleanno, al seguito un pullman di 50 persone tra amici e parenti. Ha spiegato un giorno, in una testimonianza pubblica – non volava una mosca –, davanti a decine di ragazzi: «Non c'è una parola che possa descrivere Medjugorje: posso solo dirvi che l'amore della Madonna è talmente grande, è talmente forte che esplode in preghiera, conversioni, amore verso il prossimo». Va da sé che la devozione mariana si porta dietro un'altra passione: quella per il Rosario, recitato tutte le sere. Inusuale per una ragazzina? Può darsi. Ma Giulia ti sorprendeva sempre. Era sempre un passo avanti. E così, proprio nelle settimane di sofferenza più acuta, ha composto di suo pugno una «coroncina di puro ringraziamento». Diceva: «Nelle nostre preghiere, nelle nostre litanie, chiediamo sempre qualcosa per noi o per gli altri. Mai che ci si limiti a dire grazie, senza chiedere nulla in cambio». Questa formula non esisteva. Lei l'ha inventata e scritta. L'esame da 10 e lode Ma intanto la ragazza normale desiderava fortissimamente continuare a fare le cose normali della sua età. Per esempio l'esame di terza media. E trovando chissà dove le energie, sostenuta dalle insegnanti della scuola in ospedale (che lei amava profondamente e voleva fosse meglio conosciuta e valorizzata) e dalle prof della sua scuola media Savoia, anche questa volta ce l'ha fatta. A dispetto dei dati clinici e della sua prognosi, che la dava già per morta. Allo scritto di italiano un tema magistrale, ispirato al diario di un soldato al fronte. All'orale, con tutta la commissione d'esame riunita nel salotto di casa, la tesina sugli orrori delle guerre e della Shoah, con tanto di acutissima analisi critica del Guernica di Picasso. Il tutto unito da un filo vibrante: la trasposizione della sua sofferenza. Un'esposizione di mezz'ora filata, chiusa da un'irrituale ma quantomai appropriata standing ovation. Risultato: 10 e lode. Al suo fianco l'amica del cuore che singolarmente – ma non casualmente secondo Giulia – si chiama anche lei Chiara («È da sempre la mia migliore amica, lei è tutto per me»). Con la malattia, cresceva in lei l'urgenza di dare una testimonianza ai giovani, soprattutto a quelli che pensano di fare a meno di Dio, «impegnati in una frenetica caccia al tesoro, ma senza tesoro». Erano giorni di preghiera intensissima, di sofferenze offerte in particolare ai non credenti. Perché «ognuno ha un Dio e Dio c'è per tutti». Ecco l'idea di una video-testimonianza. Ancora volta ce l'ha fatta: l'intervista diventerà presto un dvd. Giulia, del resto, va detto con la dovuta cautela e senza enfasi, ma va detto, cambiava spesso le (moltissime) persone che incontrava. Chi entrava in casa sua, in quel bunker di serenità, ma anche di riservatezza e accoglienza che è la sua famiglia – a partire da mamma Sara, da papà Antonio e dal piccolo, formidabile Davide (9 anni) – si portava un carico di angoscia e usciva molto più leggero. Giulia, infine, credeva nei miracoli. Ma le grazie le chiedeva per gli altri, non per se stessa: in particolare i bambini malati conosciuti all'ospedale. Soltanto alla fine, quando il suo giogo era a tratti insopportabile e tutte le armi dei supereroi erano drammaticamente spuntate, ha iniziato a chiedere per sé. Ma solo «se è la volontà del Signore». Quale sia stata la volontà del Signore già lo sapete. La mattina del 19 agosto, a Madrid, il suo vescovo Francesco, che con lei aveva intessuto un dialogo fitto e confidenziale, ha raccontato la storia di Giulia ai mille e più ragazzi bergamaschi della Gmg. Non sapeva che si fosse aggravata così tanto. Poi la sera la Via Crucis, nella notte la notizia che era «andata incontro al Signore». Il giorno dopo, sabato, ha celebrato per lei la Messa con i giovani. E la mattina del lunedì, di ritorno da Madrid, qualche ora prima dei funerali, raccolto in preghiera con la famiglia, ha invitato a «correggere» così l'eterno riposo: «L'eterna gioia donale Signore, splenda a lei la luce perpetua. Amen». Con questa parola, gioia, di colpo così adeguata, finisce (o forse inizia), la storia di Giulia Gabrieli, la ragazza malata di tumore. Che è morta. Ma ce l'ha fatta. E giudicate voi, credenti o meno che siate, se tutto questo non è un miracolo.
Preghiera |
20 Agosto 2020 | 21 Agosto 2020 | 22 Agosto 2020 | 23 Agosto 2020 |
24 Agosto 2020-: Santa Giovanna Antida Thouret (1765-1826)-: Santa Giovanna Antida Thouret (1765-1826)24 Agosto 2020 - Santa Giovanna Antida Thouret
Nacque presso Besanzone in Francia il 27 novembre del 1765. Di povera famiglia era dedita alla vita faticosa dei campi. La piccola Giovanna, debole e tutt’altro che bella, sembrava destinata a una breve vita piena di sofferenze. Era di animo delicatissimo, di singolare gentilezza, sempre improntata a una dolce melanconia. A 16 anni rimase orfana della mamma, e fu tanto il suo dolore che sembrava doverla seguire nella tomba. Ma la sua tenera devozione alla Madonna la consolò e salvò. La fanciullezza e la giovinezza di Giovanna furono impiegate assiduamente nelle cure domestiche e nei lavori di campagna. Dopo la morte della mamma ne aveva prese le veci. Nonostante la sua giovane età e la debolezza di salute ogni forza le veniva dalla preghiera e dai Sacramenti. Sentendosi chiamata allo stato religioso, dopo ripetute preghiere e lacrime per vincere l’opposizione del padre, che tanto l’amava, potè entrare nel convento delle Figlie della Carità (Vincenzine) in Parigi. Aveva 22 anni. In breve si ammalò, e temendo di essere rimandata a casa, pregò tanto la Madonna che ottenne sicura guarigione. Fatta novizia non cessarono per lei le lusinghe di persone del mondo per ritrarla dalla via intrapresa, ma Giovanna resistette. Allo scoppio della rivoluzione francese, la povera suora, a 28 anni, si trovò ricacciata nel mondo e lontana dalla casa paterna. Si pose in cammino e dopo lungo viaggio giunse presso i parenti dove sfidando i pericoli della rivoluzione si diede alla cura di ragazzine e di infermi. Seguì l’abate Receveur a Friburgo e poi in Germania, ma dopo pochi mesi ritornava in Svizzera in abito di povera donna. Nel 1797 si portò a Besanzone dove aprì una scuola per le giovani, senza mai lasciare la cura degli infermi. Ma i rivoluzionari che l’avevano minacciata la morte, la relegarono per un anno presso una povera donna. Nel 1799 rientrò in Besanzone, aprì un’altra scuola con farmacia, che formò il primo nucleo delle suore della Carità. Ben presto le compagne e discepole di Giovanna Antida aumentarono e la nuova congregazione si estese in Francia, Svizzera, Savoia e a Napoli. Ma una dolorosa prova venne ad amareggiare la fondatrice. Le comunità di Besanzone e limitrofe non volendo accettare la disposizione pontificia che stabiliva ogni comunità sotto la giurisdizione del vescovo del proprio territorio, rifiutarono di accogliere la loro Madre e Fondatrice recatasi là per pacificarle. Ella si trattenne per due anni a Parigi poi ritornò, ma di nuovo fu rigettata. Addolorata solo per l’ostinata opposizione al decreto del Santo Padre, si ritirò umilmente in disparte lasciando che in tutto si compisse la volontà di Dio. A Napoli passò l’ultima parte della sua vita esplicando una grande attività a incremento della sua congregazione. Il 24 agosto 1826 spirava col sorriso sulle labbra, benedicendo le figlie che la circondavano. Fu canonizzata da Pio XI nel 1934. Viene commemorata nel Martyrologium Romanum al 24 agosto mentre la sua Congregazione la celebra il 23 maggio.
Preghiera O Santa Giovanna Antida Santa Giovanna Antida,
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25 Agosto 2020-: Beato Luigi Bordino (1922-1977)-: Beato Luigi Bordino (1922-1977)25 Agosto 2020 - Beato Luigi Bordino Preghiera
“Lo spirito si fa carne e operò tra di noi”. Dio ti fece carne perché Lui potesse operare tra di noi.
Tu sei stato la carezza di Dio: per l’uomo.13 Agosto 2018 Col tuo donarti totalmente a Lui senza riserve, con umiltà e devozione, schivavi le lusinghe del mondo. Col tuo immergerti nella preghiera assaporavi l’umanità di Cristo nutrendoti del su corpo nella messa quotidiana ti rafforzavi del suo spirito. Nel instancabile servizio dei poveri dove in loro vedevi il Cristo sofferente che curavi con amore. Nell’umiltà che ti caratterizzò davanti a Dio e l’uomo. La tua fede, speranza e carità era la tua strada, cosa c’era infondo ad essa: c’era una croce del infinito amore di Cristo sofferente per i nostri peccati. La tua testimonianza convertiva l’uomo peccatore. Tu fosti la rete che Dio pescatore getta per raccoglie a se i suoi figli purificati dal peccato, tramite la preghiera e le opere di carità. La tua sofferenza la donavi a Dio in remissione dei peccati contro di Lui e per le anime purganti. Ti sei affidato alla vergine Maria con la promessa di soldato e di consacrato, la pregavi “Vergine Maria madre di Gesù fateci santi” la mamma tua di cui prendesti l’appellativo fr Luigi della consolata, ti esaudì. |
26 Agosto 2020 | 27 Agosto 2020 | 28 Agosto 2020 | 29 Agosto 2020 | 30 Agosto 2020 |
31 Agosto 2020 | 1 Settembre 2020 | 2 Settembre 2020 | 3 Settembre 2020 | 4 Settembre 2020 |
5 Settembre 2020-: Eleonora Cantamessa (1969-2013) Testimone-: Eleonora Cantamessa (1969-2013) Testimone5 Settembre 2020 - Il bene a volte ha un solo difetto: è difficile da raccontare. Troppo alto il rischio di scivolare nella retorica e nella banalità. «Per una volta, almeno, non dobbiamo avere paura delle parole: mia sorella ha compiuto un atto di eroismo. Il suo è stato un martirio», dice Luigi, il fratello di Eleonora Cantamessa, la ginecologa uccisa la sera di domenica 8 settembre mentre cercava di soccorrere Kumar Baldev, un indiano pestato da alcuni connazionali. A ucciderla il fratello di Baldev, Vicky Vicky, 25 anni, ora in carcere, che con l’auto è piombato addosso alla dottoressa uccidendola sul colpo. Al primo piano di piazza Cavour 4 a Trescore Balneario (Bg), dove abitava Eleonora, è un pellegrinaggio continuo di gente. Sul tavolo del soggiorno, accanto alla foto di lei che stringe nelle braccia un neonato, tanti mazzi di fiori bianchi accompagnati da bigliettini, molti dei quali inviati da sconosciuti. Un messaggio è di consolazione per i genitori: «Il mondo», c’è scritto, «vi è debitore per questo grande esempio di amore e di fede». Arriva una delle sue pazienti-amiche: «La Ele», racconta, «era fatta così: disponibile e generosa. Se la chiamavi alle due di notte rispondeva». Squilla il telefono, è una signora di Bologna: «Vorrei venire ad abbracciarvi e avere anch’io un po’ della forza della mamma». Davvero, come ha scritto san Tommaso, il bene è diffusivum sui, è contagioso, si diffonde. «Venga, si accomodi sul balcone. A Eleonora piaceva tanto sedersi qui. Domenica pomeriggio aveva fumato la sua ultima sigaretta e avevamo chiacchierato insieme», dice la signora Mariella 65 anni, insegnante elementare in pensione. Molti suoi ex alunni vengono a darle conforto: «Coraggio, maestra». Sul tavolino, c’è ancora il posacenere. Al collo, Mariella porta una catenina d’argento con una piccola campanella: «Eleonora la indossava quando è morta. Lo sente questo suono? Me l’ha mostrata e mi ha detto: “Mamma, è il suono che serve per chiamare gli angeli. E se lo indossano donne in attesa, anche il bimbo che portano in grembo lo ascolta”. E io le ho risposto: “Ma che bisogno hai, tu, di chiamare gli angeli?”. Ora capisco, forse dovevano accompagnarla in cielo». La serenità nel dolore è quasi un ossimoro, un controsenso. Eppure è esattamente quello che traspare dai gesti e dalle parole della signora Mariella: «Mia figlia ha dato la vita per uno che, secondo molti, non valeva niente», afferma. «Spero che chi l’ha uccisa cambi vita. È ancora giovane, ce la può fare. La possibilità di riscatto non è preclusa a nessuno». Il pensiero torna a quella sera maledetta. «Stavo recitando il rosario, poi ho avuto un presentimento. Se n’è andata mentre pregavo. Ogni sera lo faccio per i miei figli, i poveri, i tanti disperati. Chi ha ucciso Eleonora è un disgraziato come me, in fondo. Lui per il male che ha commesso, io per il dolore di questa tragedia assurda. Ha lasciato quattro figli orfani, ora bisognerà pensare anche a loro. Mia figlia nel suo ambulatorio accoglieva tutti, comprese tante donne straniere che non avevano da pagare». Affiorano tanti ricordi ora a mamma Mariella, ricordi dei tanti gesti di bontà della figlia che fino a ieri custodiva silenziosamente nel cuore e ora sente il bisogno di raccontare come segno di speranza e promessa di consolazione per sé. «Una volta», dice, «arrivò nel suo studio una donna indiana e la visitò. Era poverissima, addosso aveva solo biancheria strappata. Eleonora, con delicatezza, prese i pochi spiccioli che le diede per non umiliarla. Poi, qualche giorno dopo, trovò il modo di farle avere dei soldi per comprarsi i vestiti». La testimonianza di Mariella si alterna a quelle delle persone che arrivano. Ognuno, oltre al cordoglio, ha un ricordo buono di Eleonora da portare: un gesto, una carezza, una parola d’affetto. Continua la mamma: «Una volta, anni fa, stavamo partendo per le vacanze ed Eleonora tornò indietro per dare i soldi a una ragazza di strada che doveva darli al suo aguzzino per evitare di essere picchiata. È la prima volta che racconto queste cose, non l’ho mai fatto prima. Ma ora cosa resta? La speranza che mia figlia sia un angelo tra gli altri angeli e che il bene che ha fatto, la sua generosità discreta, non vengano dimenticati. Sono andata in Tv, ho rilasciato interviste proprio per questo». Papà Silvano è uomo di poche parole: «Odio? Ma che odio?», chiede quando si parla dell’assassino di sua figlia. Preferisce ricordare i momenti di vacanza passati insieme a Eleonora: «L’estate scorsa a Creta, due anni fa nel Salento. A lei piaceva molto il mare». Sul tavolo del soggiorno, accanto ai lumini e alla foto sorridente di Eleonora, c’è il Vangelo. È aperto sulla pagina della parabola del Buon Samaritano. Gesù la raccontò per rispondere a quel tale che gli aveva chiesto: «Chi è il mio prossimo?». A don Ettore Galbusera, che l’ha letta durante i funerali, sono bastate poche parole: «Per quanto sia difficile parlare dato il dolore del momento, oggi per me è più semplice. Questa è un’omelia già pronunciata, che ha pronunciato la stessa Eleonora, in una notte qualsiasi». «Il Buon Samaritano», spiega la signora Mariella, «ha pagato per curare l’uomo ferito in mezzo alla strada, mia figlia ha pagato con la vita. Come Cristo. È morta in mezzo a quei disgraziati animati solo dalla furia cieca dell’odio e della violenza». Luigi prende in mano il cellulare di Eleonora, il vetro dello schermo è rotto ma funziona ancora. In memoria, c’è ancora l’ultima telefonata al 112. «È morta così», spiega, «con una mano teneva quella del ferito, con l’altra chiamava per coordinare i soccorsi». Luca, l’amico che l’accompagnava quella sera, le aveva detto che scendere era pericoloso. «Fermati», le aveva detto con tono perentorio Eleonora. «C’è un ferito a terra, sono un medico, non posso passare oltre». Non ha fatto nemmeno in tempo a fermare l’auto che lei si era già precipitata in strada. «State calmi, sono un medico», gridava. «Io non avrei avuto il coraggio di farlo», chiosa la madre. L’insegnamento di Eleonora, quello di non voltarsi mai dall’altra parte, ora continuerà attraverso una Fondazione per aiutare chi ha difficoltà ad avere un figlio. «È un modo concreto per favorire le nascite», spiega il fratello Luigi, «la nostra idea è quella di sostenere le cure di queste donne presso strutture mediche specializzate. Speriamo di partire già dal prossimo anno». Anche i rappresentanti della comunità indiana di Milano e Bergamo si sono stretti attorno alla famiglia. «Nella vita», ha scritto Eleonora in una lettera, «non si può sempre correre. Ogni tanto bisogna fermarsi». https://www.famigliacristiana.it/articolo/il-buon-samaritano-ha-un-nome-eleonora.aspx -: Santa Teresa di Calcutta (1910-1997)-: Santa Teresa di Calcutta (1910-1997)5 Settembre 2020 - Quando si entra in una chiesa o cappella delle Missionarie della Carità, non si può non notare il crocefisso che sovrasta l’altare, al fianco del quale si trova la scritta: «I thirst» («Ho sete»): qui sta la sintesi della vita e delle opere di Santa Teresa di Calcutta, canonizzata il 4 settembre scorso da Papa Francesco in piazza San Pietro, alla presenza di 120 mila fedeli e pellegrini. Donna di fede, di speranza, di carità, di indicibile coraggio, Madre Teresa aveva una spiritualità cristocentrica ed eucaristica. Usava dire: «Io non posso immaginare neanche un istante della mia vita senza Gesù. Il premio più grande per me è amare Gesù e servirlo nei poveri». Questa suora, dall’abito indiano e dai sandali francescani, estranea a nessuno, credenti, non credenti, cattolici, non cattolici, si fece apprezzare e stimare in India, dove i seguaci di Cristo sono la minoranza. Nata il 26 agosto 1910 a Skopje (Macedonia) da benestante famiglia albanese, Agnes crebbe in una tribolata e dolorosa terra, dove convivevano cristiani, musulmani, ortodossi; proprio per tale ragione non le fu difficile operare in India, uno Stato dalle lontane tradizioni di tollenza-intolleranza religiosa, a seconda dei periodi storici. Madre Teresa definiva così la sua identità: «Di sangue sono albanese. Ho la cittadinanza indiana. Sono una monaca cattolica. Per vocazione appartengo al mondo intero. Nel cuore sono totalmente di Gesù». Buona parte della popolazione albanese, di origine illirica, nonostante abbia subito la sopraffazione ottomana, è riuscita a sopravvivere con le sue tradizioni e con la sua profonda fede, che affonda le radici in san Paolo: «Tanto che da Gerusalemme e paesi circonvicini, fino alla Dalmazia ho portato a compimento la missione di predicare il Vangelo di Cristo» (Rm 15,19). Cultura, lingua e letteratura dell’Albania hanno resistito proprio grazie al Cristianesimo. Tuttavia la ferocia del dittatore comunista Enver Hoxha vieterà, con decreto statale (13 novembre 1967), qualsiasi religione, distruggendo da subito 268 chiese. Fino all’avvento del tiranno, la famiglia di Madre Teresa elargiva carità e bene comune a piene mani. Preghiera e Santo Rosario erano il collante della famiglia. Rivolgendosi ai lettori della rivista «Drita», nel giugno del 1979, Madre Teresa disse ad un mondo occidentale sempre più secolarizzato e materialista: «Quando penso a mia mamma e a mio papà, mi viene sempre in mente quando alla sera eravamo tutti insieme a pregare […] Vi posso dare un solo consiglio: che al più presto torniate a pregare insieme, perché la famiglia che non prega insieme non può vivere insieme». A 18 anni Agnes entra nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto: partita nel 1928 per l’Irlanda, un anno dopo è già in India. Nel 1931 emette i primi voti, prendendo il nuovo nome di suor Maria Teresa del Bambin Gesù, perché molto devota della mistica carmelitana santa Teresina di Lisieux. Più tardi, come il carmelitano san Giovanni della Croce, sperimenterà la «notte oscura», quando la sua mistica anima proverà il silenzio del Signore. Per circa vent’anni insegnò storia e geografia alle giovani di famiglie facoltose frequentanti il collegio delle Suore di Loreto a Entally (zona orientale di Calcutta). Poi arrivò la vocazione nella vocazione: era il 10 settembre 1946 quando avvertì, mentre si recava in treno ad un corso di esercizi spirituali a Darjeeling, la voce di Cristo che la chiamava a vivere in mezzo agli ultimi degli ultimi. Lei stessa, che desiderò vivere come autentica sposa di Cristo, riporterà le parole della «Voce» nella sua corrispondenza con i superiori: «Voglio Missionarie indiane Suore della Carità, che siano il mio fuoco d’amore fra i più poveri, gli ammalati, i moribondi, i bambini di strada. Sono i poveri che devi condurre a Me, e le sorelle che offrissero la loro vita come vittime del Mio amore porterebbero a Me queste anime». Lascia, non senza difficoltà, il prestigioso convento dopo quasi vent’anni di permanenza e da sola si incammina, con un sari bianco (colore del lutto in India) bordato di azzurro (colore mariano), per gli slums di Calcutta in cerca dei dimenticati, dei paria, dei moribondi, che arriva a raccogliere, circondati dai topi, persino nelle fogne. A poco a pocosi aggregano alcune sue ex-allieve e altre ragazze ancora, per poi giungere al riconoscimento diocesano della sua congregazione: 7 ottobre 1950. E mentre, anno dopo anno, l’Istituto delle Suore della Carità cresce in tutto il mondo, la famiglia Bojaxhiu viene espropriata di tutti i suoi beni dal governo di Hoxha, e, rea del suo credo religioso, viene aspramente perseguitata. Dirà Madre Teresa, alla quale sarà vietato di rivedere i suoi cari: «La sofferenza ci aiuta a unirci al Signore, alle sue sofferenze» in un’azione redentiva. Parole toccanti e forti userà in riferimento al valore della famiglia, primo ambiente, nell’età contemporanea, di povertà: «Qualche volta dovremmo farci alcune domande per sapere orientare meglio le nostre azioni […] Conosco per prima cosa, i poveri della mia famiglia, della mia casa, quelli che vivono vicino a me: persone che sono povere, però non per mancanza di pane?». La «piccola matita di Dio», per usare la sua autodefinizione, è più volte intervenuta pubblicamente e con forza, anche di fronte a uomini politici e di Stato sulla condanna dell’aborto e dei metodi di contraccezione artificiali. Ha «fatto sentire la sua voce ai potenti della terra» ha detto, infatti, Papa Francesco nell’omelia della canonizzazione. Come non ricordare, allora, il memorabile discorso che tenne alla consegna del Premio Nobel per la Pace del 17 ottobre 1979 ad Oslo? Affermando di accettare il Premio esclusivamente a nome dei poveri, sorprese tutti per l’attacco durissimo all’aborto, che presentò come la principale minaccia alla pace nel mondo. Le sue parole risuonano più attuali che mai: «Sento che oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa (…). Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te e a te di uccidere me». Sosteneva che la vita del bambino non nato è un dono di Dio, il maggior dono che Dio possa fare alla famiglia. «Oggi ci sono molti Paesi che permettono l’aborto, la sterilizzazione e altri mezzi per evitare o distruggere la vita fin dal suo inizio. Questo è un segno ovvio che tali Paesi sono i più poveri tra i poveri, poiché non hanno il coraggio di accettare nemmeno una vita in più. La vita del bambino non ancora nato, come la vita dei poveri che troviamo per le strade di Calcutta, di Roma o di altre parti del mondo, la vita dei bambini e degli adulti è sempre la stessa vita. È la nostra vita. È il dono che viene da Dio. […] Ogni esistenza è la vita di Dio in noi. Anche il bambino non nato ha la vita divina in sé». Ancora alla cerimonia dei premi Nobel, alla domanda che le venne posta: «Che cosa possiamo fare per promuovere la pace mondiale?», ella rispose senza esitare: «Andate a casa e amate le vostre famiglie». Si addormentò nel Signore il 5 settembre (giorno della sua memoria liturgica) 1997 con un rosario fra le mani. Questa «goccia di acqua pulita», questa Marta e Maria inscindibili, ha lasciato in eredità un paio di sandali, due sari, una borsa di tela, due-tre quaderni di appunti, un libro di preghiere, un rosario, un golf di lana e…una miniera spirituale di inestimabile valore, alla quale attingere a profusione in questi nostri confusi giorni, spesso dimentichi della presenza di Dio.
Omelia di Papa Francesco per la Canonizzazione – 4 Settembre 2016
“Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. Si è impegnata in difesa della vita proclamando incessantemente che «chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo, il più misero». Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! - della povertà creata da loro stessi. La misericordia è stata per lei il “sale” che dava sapore a ogni sua opera, e la “luce” che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure lacrime per piangere la loro povertà e sofferenza. La sua missione nelle periferie delle città e nelle periferie esistenziali permane ai nostri giorni come testimonianza eloquente della vicinanza di Dio ai più poveri tra i poveri. Oggi consegno questa emblematica figura di donna e di consacrata a tutto il mondo del volontariato: lei sia il vostro modello di santità! Penso che, forse, avremo un po’ di difficoltà nel chiamarla Santa Teresa: la sua santità è tanto vicina a noi, tanto tenera e feconda che spontaneamente continueremo a dirle “Madre Teresa”. Questa instancabile operatrice di misericordia ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione. Madre Teresa amava dire: «Forse non parlo la loro lingua, ma posso sorridere». Portiamo nel cuore il suo sorriso e doniamolo a quanti incontriamo nel nostro cammino, specialmente a quanti soffrono. Apriremo così orizzonti di gioia e di speranza a tanta umanità sfiduciata e bisognosa di comprensione e di tenerezza.
Madre Teresa di Calcutta
Come si ama Dio Tutti desideriamo amare Dio. Ma come si fa? Gesù si convertì in pane di vita per saziare la nostra fame. Quindi si fece ignudo, sfrattato, abbandonato, lebbroso, drogato, prostituta, di modo che tutti noi, tanto voi come io, potessimo saziare la sua fame con il nostro amore. Sicuramente non vi capiterà di vedere nei vostri paesi malati rosi da vermi, ma ci sono vermi che tarlano i cuori. Mi commosse moltissimo il gesto di una bambina piccola che decise di mandarmi i soldi della sua prima comunione invece di tenerseli per comprare un vestito per quella festa. In Africa ci sono molte migliaia di persone che muoiono di fame a causa della siccità. Mi imbattei in strada in una bambina di cinque o sei anni e le diedi un pezzo di pane. Cominciò a mangiarlo briciola per briciola, dicendo che avrebbe avuto ancora fame, una volta terminato il pane. Lei aveva già fatto esperienza di cosa è la fame, qualcosa che né io né voi ancora sappiamo cos'è. |
6 Settembre 2020 |