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3 Luglio 2020-: Serva di Dio Teresa Orsini (1788-1829)-: Serva di Dio Teresa Orsini (1788-1829)3 Luglio 2020 - Serva di Dio Teresa Orsini Perfetta nobildonna romana, bella, molto bella, corteggiata, stimata, ammirata, ricca, intelligente, s’intratteneva con principi e Pontefici… ma tutto questo non è stato sufficiente alla sua anima, alla sua sete di vivere un cristianesimo vero, intenso, intriso di carità. Visse per pochi, intensi anni, ma furono sufficienti per realizzare grandi progetti. L’antico regime che governava Gravina, nel 1816 dovette lasciare i poteri, in tal modo il duca di Gravina, don Filippo Bernardo II Orsini, rinunciò a tutti i diritti feudali in quella città. Orsini comunque rimase proprietario dei numerosi e vasti possedimenti privati con il privilegio di poter proseguire a fregiarsi del titolo ereditario di Duca di Gravina. È evidente che l’infanzia di Teresa, la quale respirò le incertezze e le paure di una nobiltà che si sentiva minacciata nelle sue secolari certezze - prestigio, ricchezza, potere e legame stretto con il trono e l’altare - venne attraversata da turbolenze e tensioni politiche che non potevano non lasciare traccia nella sua percettiva sensibilità e nella sua perspicace intelligenza. Nel 1735 Teresa con i suoi congiunti giunsero a Roma, dove il nome era ormai rispettato ed onorato grazie a papa Benedetto XIII della famiglia Orsini, la quale si installò nel rione Campitelli, fra i più antichi quartieri dell’urbe e ancora oggi è presente il palazzo Orsini nei pressi del teatro Marcello, palazzo che venne costruito con una parte del materiale ricavato dallo stesso teatro. Teresa rimase orfana di padre ad appena due anni. Lei era la primogenita e sua madre Faustina era in attesa del secondo figlio. Precocemente vedova, la madre di Teresa decise, con l’accordo degli altri parenti, di affidare la piccola alle cure delle suore del monastero della Sapienza di Napoli e a 12 anni Teresa venne trasferita a Roma per terminare il corso dei suoi studi prima dalle Orsoline, poi dalle Oblate della casa di Tor de’ Specchi. Non si conosce l’anno preciso nel quale Teresa raggiunse Napoli, forse verso i cinque anni o forse anche prima, sappiamo soltanto che a Napoli risiedeva la nonna materna. In Napoli ricevette, sotto la guida delle monache della Sapienza, il sacramento della cresima: era il 15 maggio 1801, probabilmente nella cappella dell’educandato. Da questi elementi biografici possiamo comprendere come l’infanzia della principessa Teresa sia stata parecchio solitaria, privata, come si è visto, della presenza del calore familiare e proprio per tale ragione sentiva prepotente dentro di sé il desiderio di donare amore Educata nei migliori collegi di Napoli e di Roma, Teresa Orsini (Gravina, 23 marzo 1788 – Roma, 3 luglio 1829) esce dal mondo dell’istruzione per accedere ad una nuova vita, quella matrimoniale. Sposa un discendente di una famiglia principesca, Luigi Giovanni Andrea V Doria Pamphilj Landi (1779-1829). Il matrimonio viene celebrato il 2 ottobre 1808. Due anni dopo nasce Andrea (13 dicembre 1810); nel 1811 Leopolda; nel 1813 Filippo e nel 1815 Domenico. Teresa rompe l’usanza dell’epoca di affidare la prole a balie di campagna. Desidera lei, in prima persona, crescere i propri figli. Non seppe mai «economizzare» la sua persona in nessun campo. Teresa Orsini Doria Pamphilj fu sposa e madre, donna di grande Fede, di grande coraggio e di sapiente forza. Così come si relazionava con aristocratici e alti prelati, si poneva in ascolto dei più sfortunati, dei bisognosi, dei diseredati e dei malati. Si è fatta piccola per stare in mezzo a loro. Teresa andava in cerca della sofferenza per tentare di soccorrerla e per tentare di risolvere, alla radice, i problemi della malasanità romana con metodi d’avanguardia e fondando una congregazione religiosa femminile, le Suore Ospedaliere della Misericordia, molte attive ancora oggi e in tutto il mondo. Una laica, dunque, che pensava ed agiva in nome dell’Amore a Cristo e per Cristo. Impegnata a tutto tondo nella famiglia e nel sociale con indicazioni che il Concilio Vaticano II pronuncerà più di un secolo dopo. Gran parte della popolazione malata di Roma la conosceva e vedeva quella bellissima e ricchissima signora chinarsi sulle piaghe per risanarle, porgere medicinali, medicare, lenire i dolori e non soltanto quelli fisici, ma anche quelli morali e spirituali. Il suo modo di porgersi era sempre dolce e materno e a tutti portava Gesù. Quando la principessa diede vita all’Unione delle Pie Donne (gli albori delle Suore Ospedaliere della Misericordia), proprio per entrare negli ospedali romani con metodi nuovi, personale formato, con scrupolo e coscienza professionale, lo fece ai piedi della Vergine Addolorata nella chiesa di san Marcello al Corso il 16 maggio 1821. Per questo motivo, alla sua morte, volle essere rivestita dell’abito nero della Madonna dell’Addolorata. Il suo era un attivismo sereno, ma senza respiro. Il suo respiro, rotto per il troppo affaticamento, per quel suo consumarsi letteralmente d’amore, si fermò all’età di soli 41 anni. Non a caso Teresa è stata definita «martire della carità». Fra i bisbigli e i sussurri che si alzarono al corteo funebre (tutta Roma, ricca e povera partecipò alle esequie di questa nobildonna considerata «Madre») qualcuno la paragonò a santa Francesca Romana, altri a sant’Angela Merici… Il 13 novembre 1998 il cardinale Camillo Ruini aprì il processo diocesano della Serva di Dio Teresa Orsini sposata Doria Pamphilj Landi e disse in quell’occasione: «Teresa poteva ben vantare l’avvenenza fisica. Ma una bellezza ancora più grande era quella che promanava dalle sue qualità morali» e, in una Roma carente di servizi sanitari e case di accoglienza per i più indigenti, la Serva di Dio «non esitò con il consenso del marito a mettere a disposizione i suoi beni. E pur nella dedizione ai più poveri, non trascurò la famiglia e l’educazione dei figlioli», ma «la carità e il servizio instancabile agli altri non potevano che minare la sua salute». -: Venerabile Antonietta Meo (1930-1937)-: Venerabile Antonietta Meo (1930-1937)3 Luglio 2020 - Venerabile Antonietta Meo I capelli neri tagliati a caschetto, gli occhi vispi e fondi che danno luce a un viso pensoso e bello. La bambina che occhieggia dalla fotografia è Antonietta Meo, “Nennolina” per i familiari e per i suoi numerosi amici sparsi nel mondo, i quali attendono che la Santa Sede - al termine del complesso iter introdotto vari anni fa presso il Vicariato di Roma - si pronunci favorevolmente sulla santità di questa giovanissima serva di Dio elevandola alla gloria degli altari. Nennolina diventerebbe in questo modo la più giovane santa, non martire, della storia della Chiesa. Quasi a suggellare, per così dire, la profezia formulata un giorno da san Pio X: “Io vi dico che vi saranno dei santi fra i bambini!”. Nennolina ha lasciato un diario e più di cento letterine rivolte a Gesù, Maria e Dio Padre che rivelano una vita di unione mistica davvero straordinaria. Il “sistema” teologico che traspare dai suoi scritti, vergati con mano infantile e nella grafia semplice e spesso incerta dei bambini, è di una bellezza sorprendente, tanto da essere attualmente al vaglio degli studiosi. Qualcuno vorrebbe addirittura che venisse proclamata Dottore della Chiesa. Ma chi era Nennolina? E qual è la sua storia? Antonietta Meo viene alla luce a Roma il 15 dicembre 1930, in una famiglia di solidi principi morali e religiosi. In casa si recitava ogni giorno il rosario, la frequenza alla Messa era quotidiana. I suoi genitori erano molto devoti alla Madonna, avevano persino fatto il viaggio di nozze al Santuario di Pompei. Prima ancora di apprendere a leggere e scrivere, Nennolina impara dalla madre a scrivere, in stampatello, i nomi di Gesù e Maria. Per il resto è una bambina come tutte le altre, vivace e birichina, dalla risposta sempre pronta, un vero “peperino”. “Nennolina era una bambina vivace, sempre allegra, con una gran voglia di saltare. Amava molto cantare, tanto che ancora oggi mi sembra di sentire la sua voce aleggiare da una stanza all’altra di casa…”, ricorda la sorella Margherita, oggi quasi ottantenne. Era finita un giorno lunga in terra sbattendo il ginocchio su un sasso, nel giardino dell’asilo. Ma il dolore non si decideva a passare. I medici dapprima non comprendono il suo male, poi sarà troppo tardi: la diagnosi è “osteosarcoma”. Si deve amputare la gamba, tutti sono sconvolti, tranne lei. È la primavera del 1936. Nennolina, dopo l’intervento, mette una pesante protesi ortopedica e continua la sua solita vita di bimba. Ogni sera prende l’abitudine di scrivere una lettera che poi ripone sotto il crocefisso con ai piedi Gesù Bambino. “Cara Madonnina, tu sei tanto buona, prendi il mio cuore e portalo a Gesù”. Le sue letterine a Maria traboccano di emozione e di affetto. La Madonna è per lei la mammina di Gesù, a cui egli da piccolo obbediva ed anche lei vuole imitarlo. A Maria si rivolge con confidenza filiale assoluta. Pur con i suoi pochi anni, comprende che Ella ha sofferto con Gesù e per Gesù e scrive: “Caro Gesù…Tu che hai sofferto tanto sulla croce, io voglio fare tanti fioretti e voglio restare sempre sul Calvario vicino vicino a Te e alla Tua Mammina”(28 gennaio 1937). Durante i suoi frequenti ricoveri ospedalieri, Nennolina si fa condurre ogni giorno davanti all’edicola della Madonna. “Non rientravamo mai dalle nostre passeggiate - ricorda la madre -, se prima non ritornavamo a salutare la Madonna e a deporre ai piedi della sua statua il nostro omaggio floreale. Erano fiori campestri che io raccoglievo negli argini dei viali e fra gli erbaggi dell’orto dietro indicazioni di Nennolina che, con i suoi occhi di lince dalla sua sedia a ruote, scopriva da lontano, e accoglieva poi, allegra nelle sue braccia. Dopo l’offerta dei fiori, congiunte le mani, recitava le preghierine. Infine, mandando un bacio, salutava graziosamente, con la manina, al suo solito modo: Ciao, Madonnina cara!”. A sei anni domanda di poter ricevere la prima Comunione. Il male intanto si fa sempre più violento, ma lei non si lamenta mai. Nell’ultima letterina, del 2 giugno, dettata alla madre accanto al suo letto, scriveva: “Caro Gesù, di’ alla Madonnina che l’amo tanto e voglio starle vicina…”. Dopo lunghe ed atroci sofferenze, si spegne a sette anni non ancora compiuti il 3 luglio 1937. Era un sabato. Maria l’aveva esaudita. E’ stata dichiarata "Venerabile" da Papa Benedetto XVI in data 17 dicembre 2007. |
4 Luglio 2020-: San Piergiorgio Frassati (1901-1925)-: San Piergiorgio Frassati (1901-1925)4 Luglio 2020 - San Piergiorgio Frassati L’ingegnere Pier Giorgio Frassati, la cui laurea post mortem è stata consegnata nel 2001, fu autodidatta della fede perché, pur crescendo in un ambiente avulso dalla presenza di Dio, sostanzialmente sterile e materialista, ha lasciato emergere nella luce la sua oceanica anima. Cresciuto in una famiglia alto borghese e poco unita, attenta più all’apparenza che all’essere, all’avere più che ai sentimenti, Pier Giorgio Frassati, che portò la tempesta nella sua casa (la santità è sempre “rivoluzionaria”), rappresenta il figlio dei nostri giorni: cresciuto nel benessere e nella superficiale attenzione ai valori della vita e ai principi evangelici. Invece di adeguarsi a quello stereotipo di esistenza sterile, lui si oppone e pur continuando, a differenza di un san Francesco d’Assisi, a vivere fra le pesanti mura domestiche, segue ugualmente un cammino di perfetta carità. La sua breve, ma intensa esistenza, fu la realizzazione, nel quotidiano, dello straordinario nell’ordinario. Ogni suo atto era svolto con la volontà del missionario, dell’evangelizzatore che grida con gioia al mondo il prodigio della salvezza e molti specchiandosi nel suo sorriso e nei suoi occhi scrutavano la propria anima, non a caso alcuni suoi cari amici scelsero la strada del sacerdozio. In occasione della sua beatificazione, avvenuta il 20 maggio 1990, il «Times» di Londra gli dedicò un articolo in prima pagina. Ma perché tanto interesse per questo ragazzo ricco, bello, intelligente, dalla vita normale, che non ha fondato né istituti, né scuole, né congregazioni religiose? Pier Giorgio nasce a Torino il 6 aprile 1901. Cresce in una città di inizio secolo piena di ricordi storici e sabaudi; da poco è stata defraudata del suo titolo di capitale, qualche torinese si è addirittura suicidato per questo, eppure è piena di vitalità, di voglia di produrre e di pensare: da un lato troviamo l’industria, in particolare quella automobilistica e dall’altro intellettuali che fanno della città un laboratorio di idee. Nel campo della moda Torino ha poco da invidiare a Parigi e i teatri di prosa e di varietà sono numerosissimi. La Chiesa locale vanta di fronte al mondo la sua santità sociale (Giuseppe Cafasso, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Francesco Faà di Bruno, i marchesi di Barolo…), ma possiede anche personalità del suo tempo cariche di energia evangelica come Giuseppe Allamano, fondatore delle Missioni della Consolata, Adolfo Barberis, fondatore del Famulato cristiano (per la moralizzazione del servizio domestico). In questa Torino dove santità, anticlericalismo e dure lotte operaie convivono, si trasferiscono dal biellese i coniugi Alfredo Frassati e Adelaide Ametis. Il padre di Pier Giorgio è proprietario del quotidiano «La Stampa», nonché stretto amico del primo ministro Giovanni Giolitti. Nel 1913 diventerà senatore e più tardi ambasciatore a Berlino. I gravosi impegni gli impediscono di seguire l’educazione di Pier Giorgio e di Luciana, nata nel 1902. Spetta alla madre l’educazione dei figli. Adelaide è pittrice, legata ai precetti religiosi, senza troppi approfondimenti spirituali. Pier Giorgio matura personalmente la sua sete di Dio e diventa autodidatta del Vangelo. Disse nel giorno della beatificazione Giovanni Paolo II, grande ammiratore di Pier Giorgio, che lo definì il ragazzo delle otto beatitudini: «Ad uno sguardo superficiale, lo stile di Pier Giorgio Frassati, un giovane moderno pieno di vita, non presenta granché di straordinario… In lui la fede e gli avvenimenti quotidiani si fondono armonicamente, tanto che l’adesione al Vangelo si traduce in attenzione ai poveri e ai bisognosi». L’entrata all’Istituto Sociale dei padri Gesuiti è un momento decisivo. Padre Lombardi gli consiglia la comunione quotidiana, con la grande disapprovazione materna, e d’ora in poi l’eucaristia sarà il centro della sua vita. A 17 anni entra a far parte della Conferenza di San Vincenzo, assumendo così un impegno costante di carità. «Lui, che era così allegrone, quando parlava di cose spirituali, diventava un altro. Tanto è vero che quando veniva in camera mia, era come se entrasse il sole!», racconterà più tardi padre Lombardi. In casa Pier Giorgio non viene compreso: non si capisce perché preferisca recitare il rosario quotidianamente in una casa dove non si prega, perché non ambisca ad occupare un posto di rilievo nella società come invece suo padre ha sempre fatto raggiungendo il successo. È il giovane che invece di studiare, come i suoi genitori vorrebbero per raggiungere presto la laurea in ingegneria, «bighellona» con gli amici della San Vincenzo, della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, nel convento dei padri domenicani, nelle sacrestie delle chiese per servire messa, «perdendo» continuamente tempo prezioso e invece di pensare ai doveri di un rampollo del suo rango si occupa di preghiere, di celebrazioni eucaristiche, di letture spirituali e come non bastasse alla legazione italiana di Berlino, dove suo padre è ambasciatore, ruba i fiori nelle sale di rappresentanza per portarli sulle tombe della povera gente. Scrive suo padre nel febbraio del 1922: «Agendo sempre senza riflessione nelle cose che per te dovrebbero essere importantissime (come, nel caso speciale, era il non dimenticare il libro che ti doveva servire per il prossimo esame) diventerai un uomo inutile agli altri e a te stesso». Destinato a ben altri orizzonti rispetto a quelli della scalata sociale, Pier Giorgio, «l’uomo inutile», ritagliava spazi di eternità. E ancora nel 1922 il beato legge duri biasimi paterni: «Bisogna che ti persuada, caro Giorgio, che la vita bisogna prenderla sul serio, e che così come tu fai, non va né per te, né per i tuoi, i quali ti vogliono bene e sono molto amareggiati per tutte queste cose che succedono troppo spesso e si ripetono sempre monotone e dolorose. Ho poca speranza che tu cambi, eppure sarebbe strettamente necessario cambiare subito: prendere le cose con metodo, pensare sempre con serietà a quello che devi fare, avere un po’di perseveranza. Non vivere alla giornata, senza pensiero come uno scervellato qualunque. Se vuoi un po’ di bene ai tuoi devi maturare. Io sono molto, ma molto di cattivo umore». Per un uomo d’azione e di pervicace pragmatismo come il senatore Frassati è incomprensibile un figlio come il suo, votato alla preghiera, alla trascendenza, alla lotta per le idee di giustizia in nome del Vangelo. Padre e figlio avevano vite completamente diverse, ma entrambe frenetiche, l’una indirizzata al lavoro e all’amministrazione del patrimonio familiare, l’altra per operare nel nome di Dio con amore e carità. Nel sangue scorreva sangue biellese e come il padre in Pier Giorgio spiccavano dignità, intraprendenza, coerenza, eticità, schiettezza, rettitudine, coerenza e caparbietà. Già negli anni della giovinezza Alfredo era attraversato da moti di inquietudine spirituale: continuamente spinto a nuovi traguardi di successo, ma costantemente insoddisfatto a causa di una fede soffocata che sarà liberata lentamente, con un personale e sorprendente avvicinamento agli uomini di Chiesa a partire dal 4 luglio 1925 con la tragica morte del figlio. Pier Giorgio s’innamora delle lettere di san Paolo, le legge e le rilegge anche per strada o sul tram e a 21 anni entra nel Terz’ordine di San Domenico. Un posto tutto particolare nella sua vita lo occupa l’amicizia. Negli anni del Politecnico (Ingegneria meccanica con specializzazione mineraria) dà vita ad un gruppo di ragazzi e ragazze che vivono con serenità e rispetto il valore dell’amicizia: «La Società dei tipi loschi». Ogni membro, «lestofanti» e «lestofantesse», prendono un nome, Pier Giorgio sceglie «Robespierre». Voglia di vivere e spirito goliardico aleggia fra gli amici di Frassati per poter «servire Dio in perfetta letizia». L’impegno sociale e politico, contro il Regime fascista, lo schiera tra le fila del Partito Popolare italiano, fondato da don Luigi Sturzo nel 1919. Il suo impegno politico e sociale fu una diretta conseguenza del suo modo di sentirsi cristiano: non gli era sufficiente aiutare i poveri, andare nelle loro misere soffitte, nei tuguri dove la malattia e la fame si confondevano nel dolore, non gli bastava portare ai diseredati una parola di conforto, carbone, viveri, medicinali e denari, voleva dare una soluzione a quei problemi di miseria e di abbandono e la politica gli parve la via idonea per fare pressione là dove si decideva la giustizia. Durissima fu la sua lotta contro il fascismo, una realtà che respirò anche a casa sua: il padre venne anche perseguitato per la battaglia, condotta sulle colonne del suo giornale, contro il Regime. Benché molto legato alla sorella Luciana, Pier Giorgio scelse tutt’altra strada: lei il mondo prestigioso e affascinante della diplomazia; lui i poveri e gli infelici. Luciana, l’unica persona di casa con la quale poteva confidarsi, scriverà anni dopo di aver difeso spesso il candore del fratello dalle incomprensioni del mondo e della sua stessa famiglia, dove il rapporto fra madre e padre si era andato frantumando di anno in anno fino a sgretolarsi. Le conferenze di San Vincenzo furono il massimo campo di azione per Pier Giorgio: fu in esse che poté esprimere concretamente la sua carità per i poveri, gli orfani, i senza lavoro, i senza tetto. A quel tempo molti ragazzi e ragazze si recavano nelle soffitte della Torino povera a portare la loro assistenza. Ciò che distingueva Pier Giorgio dagli altri era il modo e lo status a cui apparteneva: il figlio del senatore del Regno si abbassava ad avvicinare gli umili, gli ultimi e ciò si compiva non come atto paternalistico dall’alto in basso, ma per condivisione e partecipazione viva e attiva ai drammi del sociale. Sollecitava spesso i suoi compagni d’Università e dell’Azione Cattolica ad iscriversi alla San Vincenzo. Diceva loro: «La San Vincenzo è un’istituzione semplice adatta agli studenti perché non implica impegni, unico e solo quello di trovarsi un giorno della settimana in una determinata sede e poi visitare due o tre famiglie ogni settimana. Vedrete, vi richiederà poco tempo, eppure quanto bene possiamo fare a noi stessi… L’assistere quotidianamente alla fede con cui le famiglie spesso sopportano i più atroci dolori, il sacrificio perenne che essi fanno e che tutto questo fanno per l’Amore di Dio ci fa tante volte rivolgere questa domanda: “Io che ho avuto da Dio tante cose sono sempre rimasto così neghittoso, così cattivo, mentre loro, che non sono stati privilegiati come me, sono infinitamente migliori di me…”». Alcuni amici lo chiamavano «il facchino degli sfruttati» e certi inventarono per lui una sigla speciale: «FIT», «Frassati Impresa Trasporti». Nelle soffitte del centro, ma anche in povere case della periferia, portava infatti di tutto: generi alimentari, legna, carbone, vestiti, mobili… Amante della montagna, Pier Giorgio trova nell’alpinismo la manifestazione palpabile del suo cammino ascetico «verso l’alto», verso la fede più pura. Scriveva nel 1925 all’amico Bonini: «Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la Verità, non è vivere, ma vivacchiare». Crede nell’associazionismo cattolico e nel 1922 entra nell’Azione cattolica il cui motto è: preghiera, azione, sacrificio. Pur non ottenendo brillanti risultati universitari, Pier Giorgio è vicino al traguardo della laurea e con essa la realizzazione del suo grande desiderio: lavorare con i minatori per condividere il loro lavoro duro e pesante. Ma tutti i suoi sogni si frantumano uno ad uno. È confuso, soprattutto perché non comprende il disegno di Dio su di lui. Aveva pensato di farsi sacerdote, ma, oltre alla famiglia contraria a quell’idea «malsana», in Germania, quando di tanto in tanto raggiungeva il padre ambasciatore a Berlino (1921-1922), lui stesso era mutato perché aveva conosciuto il padre domenicano Karl Sonnenschein, chiamato il «san Francesco tedesco», pastore dei cattolici italiani residenti a Berlino e guida spirituale degli studenti. Il religioso, noto per la sua grande umiltà e grande carità, instaurò un ottimo rapporto di stima e simpatia con il giovane torinese, invitandolo a partecipare alle riunioni dei circoli misti, composti cioè sia da studenti sia da operai. Pier Giorgio avrebbe voluto imitare, in qualità di sacerdote, proprio padre Sonneschein, ma comprese che in Italia un apostolato sacerdotale di questo tipo non sarebbe stato accolto. Nell’ultimo anno della sua vita Pier Giorgio s’innamorò di una ragazza, Laura Hidalgo (1898-1976), rimasta orfana giovane, laureata in matematica e considerata da casa Frassati socialmente non all’altezza del nome di Pier Giorgio. Quell’esperienza segnò fortemente il beato, non chiamato al matrimonio, ma al laicato cristiano fra la gente e i poveri. «Sei un bigotto?», gli chiesero un giorno in Università, così come venivano scherniti i cattolici dai massonico-liberali, dai social-comunisti e dai fascisti. La sua risposta fu netta: «No. Sono rimasto cristiano». A giugno del 1925 il padre gli domanda di entrare ne «La Stampa» e dunque di rinunciare alle sue aspirazioni professionali, lavorare fra i minatori. Il senatore, che provava sempre una certa soggezione di fronte al figlio, non ebbe il coraggio di parlargli direttamente, così Alfredo Frassati chiese all’amico Giuseppe Cassone, cronista de La Stampa, di farlo al suo posto. Lo stesso Cassone testimonierà: «Un giorno che egli [Pier Giorgio] era venuto a trovarmi in ufficio colsi l’occasione. Gli parlai come si parla a un figlio assennato e caro. Mi ascoltò in silenzio puntandomi, scrutatori e sereni, quei suoi begli occhi di fanciullo, poi mi domandò: “Cassone, crede proprio che venendo io qui a La Stampa il babbo sarà contento?”. Dissi di sì. Egli non esitò più: “Dica al babbo che accetto”. Lo considerai un grande sacrificio per lui, e commosso, l’abbracciai». La sua proverbiale allegria lo abbandona nell’ultima parte della sua esistenza, quando appare quasi presago della fine prematura; anche il suo aspetto fisico muta e i lineamenti perdono i tratti adolescenziali. Viene meno dunque quel suo spirito perennemente sereno a motivo di una serie di condizionamenti che sembrano soffocarlo: l’amore per Laura Hidalgo, la volontà paterna di integrarlo nell’amministrazione de La Stampa, il timore dolorosissimo di una possibile separazione fra gli amati genitori, la cui convivenza è sempre più difficile. Un giorno, ad un amico che gli aveva domandato che cosa avrebbe voluto fare dopo gli studi, lui rispose: «Non lo so: sacerdote no, perché è una missione troppo grande e non ne sono degno; il matrimonio no. L’unica soluzione sarebbe quella che il Signore mi prendesse con sé». È tempo ormai «di raccogliere ciò che ho seminato». La morte lo rapisce, rapidissima. Viene colpito dalla poliomielite fulminante. Sei giorni appena per corrodere quel fisico sano e forte di 24 anni. E ancora una volta la famiglia non lo comprende: tutti sono attenti all’agonia dell’anziana nonna Ametis, non accorgendosi della gravità del suo male. Non un lamento uscirà dalla sua bocca, non una richiesta. «Il giorno della mia morte sarà il più bello della mia vita» aveva detto ad un amico. Quel giorno arrivò il 4 luglio 1925. Le grandi incomprensioni svaniscono: Alfredo Frassati è di fronte alla bara del figlio “ribelle”, alla quale rendono omaggio, con suo sconcerto, migliaia e migliaia di persone e di poveri della Torino semplice e umile. Tutti presenti non per i meriti del nome Frassati, ma per Pier Giorgio, solo per ciò che lui e lui solo ha rappresentato e qualcuno scoprirà dopo che quel giovane pronto a soccorrere tutti era il figlio del senatore e direttore de La Stampa. Proprio da qui Alfredo inizia a scoprire l’identità di Pier Giorgio, la sua grandezza umana e spirituale. E il lungo tempo della prova condurrà lui, non credente, alla conversione.
Pensieri “Sei un bigotto?”, gli chiesero un giorno in Università, così come venivano scherniti i cattolici dai massonico-liberali, dai social-comunisti e dai fascisti. La sua risposta fu netta: “No. Sono rimasto cristiano”. “Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà la forza sarò sempre allegro. Ogni cattolico non può non essere allegro; la tristezza deve essere bandita dagli animi dei cattolici”. |
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13 Luglio 2020-: Santa Clelia Barbieri (1847-1870)-: Santa Clelia Barbieri (1847-1870)13 Luglio 2020 - Santa Clelia Barbieri Clelia Barbieri nacque il 13 febbraio 1847 nella contrada volgarmente chiamata le "Budrie", appartenente civilmente al comune di S. Giovanni in Persiceto (BO), ecclesiasticamente alla Archidiocesi di Bologna, da Giuseppe Barbieri e Giacinta Nannetti. I genitori erano di censo diverso: Giuseppe Barbieri proveniva dalla famiglia quasi più povera delle " Budrie ", mentre Giacinta dalla famiglia più in vista; lui garzone dello zio di Giacinta, medico condotto del luogo, lei la figlia di Pietro Nannetti benestante. Per il matrimonio contro corrente, Giacinta benestante sposò la povertà di un bracciante e da una casa agiata passò ad abitare nella umilissima casetta di Sante Barbieri, papà di Giuseppe; tuttavia si costituì una famiglia cementata sulla roccia della fede e della pratica cristiana. Al battesimo amministratole lo stesso giorno della nascita, per espresso volere della mamma, la neonata ricevette i nomi di Clelia, Rachele, Maria. La mamma insegnò precocemente alla piccola Clelia ad amare Dio fino a farle desiderare di essere santa. Un giorno Clelia le domandò: " Mamma, come posso essere santa "? Per tempo la Clelia imparò pure l'arte del cucire, di filare e tessere la canapa, il prodotto caratteristico della campagna persicetese. All'età di 8 anni, durante l'epidemia colerica del 1855 Clelia perdette il babbo. Con la morte del babbo, per generosità dello zio medico, la mamma, Clelia e la piccola sorellina Ernestina passarono ad abitare in una casa più accogliente vicino alla chiesa parrocchiale. Per Clelia le giornate divennero più santificate. Chiunque avesse voluto incontrarla poteva trovarla immancabilmente o a casa, a filare o cucire, o in chiesa a pregare. Sebbene era nell'uso del tempo accostarsi per la prima volta alla Comunione quasi adulti, Clelia per la sua precoce preparazione catechistica e spirituale vi fu ammessa il 17 giugno 1858, a soli undici anni. Fu un giorno decisivo per il suo futuro, perché visse la sua prima esperienza mistica: contrizione eccezionale dei peccati propri e altrui. Premette su di lei l'angoscia del peccato che crocifigge Gesù e addolora la Madonna. Dal giorno della prima Comunione, il Crocifisso e la Madonna Addolorata ispireranno la sua spiritualità. In pari tempo ebbe una intuizione interiore del suo futuro nella duplice linea contemplativa e attiva. In adorazione dinanzi al Tabernacolo appariva come una statua immobile, assorta in preghiera; a casa era la compagna maggiore delle ragazze costrette al lavoro. Con maturità precoce all'età trovava nel lavoro il suo primo modo di rapporto con le ragazze, poiché alle " Budrie " il lavorare, specialmente la canapa, era l'unica fonte per tirare avanti la vita. Ma Clelia vi aggiungeva qualcosa che nell'ambiente era particolarmente suo: lavorare con gioia, con amore, pregando, pensando a Dio e addirittura parlando di Dio. Clelia non è Marta che si affaccenda tutta presa dal servizio per le cose del mondo, tuttavia si prodiga compiutamente, appassionatamente al servizio delle creature più amate da Gesù, i poveri, tanto che le sue tenere mani portano i segni della più dura fatica. Clelia non è Maria che tutto lascia, esclude e abbandona per immobilizzarsi estatica nel gesto di devozione e di amore. Eppure non ha altro pensiero, non ha altri affetti e si muove e cammina immersa in Lui, come una sonnambula. Dopo il ritiro delle ragazze nella " Casa del maestro " cominciarono fatti straordinari, come altrettanti attestati della Provvidenza a favore della piccola comunità che altrimenti non avrebbe potuto perseverare. Essi venivano propiziati dalle sofferenze fisiche e morali di Clelia nella notte oscura dello spirito e nelle umiliazioni più incomprensibili da parte di persone che avrebbero dovuto invece comprenderla. La sua fede però era sempre proverbiale come pure il suo raccoglimento nella preghiera. Nel ritiro delle " Budrie " si respirava un clima di fede, una vera fame e sete di Dio, un istinto missionario pieno di creatività e di fantasia, affatto poggiato sopra i mezzi organizzativi che mancavano. Clelia ne era l'anima. Il gruppo iniziale lievitò e attorno a esso anche il numero dei poveri, dei malati, dei ragazzi e ragazze da catechizzare e istruire. A poco a poco la gente vide Clelia in un ruolo di guida, di maestra nella fede. Cominciarono così, nonostante i suoi 22 anni, a chiamarla " Madre ". La chiameranno così fino alla morte che avverrà prestissimo. La tisi che l'accompagnava subdolamente, esplose violenta appena due anni dopo la fondazione. Clelia morì profetizzando a colei che la sostituirà: " Io me ne vado ma non vi abbandonerò mai ... Vedi, quando là in quel campo d'erba medica accanto alla chiesa, sorgerà la nuova casa, io non ci sarò più... Crescerete di numero e vi espanderete per il piano e per il monte a lavorare la vigna del Signore. Verrà giorno che qui alle " Budrie " accorrerà tanta gente, con carrozze e cavalli... ". E aggiunse: " Me ne vado in paradiso e tutte le sorelle che moriranno nella nostra famiglia avranno la vita eterna ... ". La morte la colse nella soddisfazione di andare incontro allo Sposo verginale, il 13 luglio 1870. La profezia di Clelia in morte si è avverata. La Congregazione delle Suore Minime dell'Addolorata si è sviluppata e si sviluppa. E' diffusa in Italia, in India, in Tanzania. Oggi le suore nell'imitazione della Beata Clelia, in umiltà nel proficuo loro lavoro assistenziale sono intorno alle trecento, divise in 35 case. Con i suoi 23 anni, al giorno della morte, Clelia Barbieri può dirsi la fondatrice più giovane della Chiesa.
PREGHIERA (Preghiera composta dal cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna)
Signore Iddio, Padre nostro clementissimo, nella tua bontà guardasti con singolare predilezione alla Santa Clelia e con l'abbondanza delle tue grazie e dei carismi dello Spirito Santo la preparasti ad essere, semplice e giovanissima vergine, la madre spirituale di una ampia famiglia di Figlie, che in umiltà e sacrificio servissero a Gesù nelle persone dei fratelli più umili e sofferenti. Noi ti benediciamo, Padre Santo, per questa effusione della tua generosità; per l'intercessione di Madre Clelia ti chiediamo ... e quello spirito di carità e di servizio, che il Signore Gesù lasciò a noi come oggetto del suo nuovo comandamento e segno indubbio della nostra genuina adesione al Vangelo. Esaudisci, o Padre, l'umile nostra preghiera, che ti porgiamo per mezzo di Cristo, Figlio Tuo e Signore nostro, nello Spirito Santo. Amen.
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14 Luglio 2020-: San Camillo De Lellis (1550-1614)-: San Camillo De Lellis (1550-1614)14 Luglio 2020 - San Camillo De Lellis Era il secondo figlio, atteso per molto tempo, dei nobili Giovanni de Lellis e Camilla de Compellis: Camillo, un gigante di forza, di coraggio, di carità, di dolcezza. In effetti tutta la vita di Camillo fu straordinaria. Egli nacque il 25 maggio 1550 a Bucchianico di Chieti nell’Abruzzo; nel mese dì marzo di quello stesso anno moriva a Granada Giovanni di Dio, un altro grande santo della sanità. Fu battezzato col nome di Camillo in ossequio alla madre, nome che significa “ministro del sacrificio”. Camillo fu un fanciullo vivace e irrequieto, imparò a leggere ed a scrivere e poi via, allorché a tredici anni gli morì la madre, nei tumulti di una vita vagabonda. Al seguito del padre, militare di carriera negli eserciti spagnoli, cominciò a frequentare le compagnie dei soldati, imparandone linguaggio e passatempi, fra i quali il gioco delle carte e dei dadi. Preparatosi anche nel mestiere, mentre si stava arruolando nell’esercito della “Lega santa”, improvvisamente gli morì il padre Giovanni, col quale doveva imbarcarsi. All’evento luttuoso seguì la comparsa di una dolorosa ulcera purulenta, forse da osteomielite, alla caviglia destra. Ciò costrinse Camillo a recarsi a Roma per il suo trattamento all’ospedale San Giacomo degli Incurabili. Parzialmente guarito, Camillo pensò che gli conveniva proprio fare il militare mercenario e con la seconda Lega fu mandato, al soldo della Spagna, prima in Dalmazia e poi a Tunisi. Fu congedato nel 1574, perse ogni suo avere al gioco e fu accolto dai Cappuccini di San Giovanni Rotondo non lontano da Manfredonia a fare il manovale, dopo avere girato qua e là in cerca di elemosina. Le buone parole di un frate di quel convento e la grazia del Signore trasformavano il cuore e la vita di quello sbandato ormai quasi venticinquenne e nel febbraio 1575 avvenne la conversione. La piaga, che intanto si andava estendendo alla gamba, lo riportò al San Giacomo di Roma, dove, con ben altro spirito rispetto al primo ricovero, cominciò, più che a pensare a se stesso, a rendersi conto dello stato di abbandono e di miseria in cui si trovavano i malati, alla mercé di un personale indifferente ed insufficiente. Si mise a servire i suoi compagni sofferenti e lo faceva in maniera così delicata e diligente che gli amministratori lo promossero responsabile del personale e dei servizi dell’ospedale. Ma non riuscendo a cambiare la situazione generale, Camillo ebbe l’ispirazione, una volta dimesso, di convocare un gruppo di amici che, consacratisi a Cristo Crocifisso, si dedicassero totalmente alle prestazioni verso gli ammalati. Essi formeranno più avanti la Compagnia dei Ministri degli Infermi che Sisto V, papa dal 1585 al 1590, approvava nel 1586, con il permesso ad ognuno di portare l’abito nero come i Chierici Regolari, ma con il privilegio di una croce di panno rosso sul petto, come espressione della Redenzione operata dal dono del Preziosissimo Sangue di Cristo. Intanto Camillo trovava il tempo per studiare e nel 1584 veniva ordinato sacerdote a S. Giovanni in Laterano. In quel tempo esisteva a Roma il grande ospedale o arcispedale di Santo Spirito, che Innocenzo III, papa dal 1198 al 1216, aveva fondato nel 1204 come Hospitium Apostolorum e che proprio Sisto V aveva provveduto a rinnovare ed a ingrandire. Qui prese ben presto servizio Camillo coi suoi compagni e per ventotto anni egli ebbe ogni attenzione per quei malati, nei quali spesso contemplava misticamente Gesù Cristo stesso. Egli riuscì anche ad esigere che le corsie fossero ben arieggiate, che ordine e pulizia fossero costanti, che i pazienti ricevessero pasti salutari e che i malati affetti da malattie contagiose fossero posti in quarantena. Nel frattempo papa Gregorio XIV elevava la Compagnia ad Ordine religioso e l’8 dicembre 1591 il sacerdote, con venticinque compagni, fece la prima professione dei voti, aggiungendo ai tre abituali di povertà, castità e obbedienza, il quarto voto, vale a dire quello di “perpetua assistenza corporale e spirituale ai malati, ancorché appestati”. Nella pratica della carità i Ministri degli Infermi, che diventeranno poi i Camilliani, stabilirono il seguente paradigma: il corpo prima dell’anima, il corpo per l’anima, l’uno e l’altra per Iddio. Per un certo tempo il sacerdote Camillo governò personalmente l’Ordine, fondando Case in parecchie città d’Italia, ma nel 1607 vi rinunciò per qualche dissenso sorto tra i confratelli e riprese a tempo pieno l’assistenza ai malati, ai poveri, ai diseredati. L’ulcera della caviglia non l’abbandonò mai e, dopo la comparsa di patologia renale e gastrica, egli moriva il 14 luglio 1614. I suoi resti mortali restano sepolti nella piccola chiesa di Santa Maria Maddalena a Roma. Don Camillo de Lellis da Bucchianico venne beatificato nel 1742 e proclamato santo quattro anni dopo da Papa Benedetto XIV. Leone XIII lo dichiarò, nel 1886, patrono degli infermi e degli ospedali, Pio XI lo proclamò patrono degli infermieri nel 1930 e Paolo VI, qualche decennio più tardi, protettore particolare della sanità militare italiana. La sua festa liturgica ricorre il 14 luglio. L’Ordine dei Camilliani ha avuto un progressivo sviluppo lungo gli abbondanti quattro secoli che costituiscono la sua storia, fatti salvi alcuni momenti difficili nel Settecento e nell’Ottocento. Nel tempo si sono formate comunità di religiose e poi le Ministre degli Infermi ed ancora sono sorti in varie parti del mondo gruppi di laici, uomini e donne, che hanno fatto proprio il carisma e la missione di San Camillo: tutti insieme, Ordine in testa, costituiscono “La Famiglia Camilliana”.
ORDINI ET MODI CHE SI HANNO DA TENERE NELLI HOSPITALI IN SERVIRE LI POVERI INFERMI XXVII Prima ognuno domandi gratia al Signore che gli dia un affetto materno verso il suo prossimo acciò possiamo servirli con ogni charità così dell'anima, come del corpo, perché desideriamo con la gratia di Dio servir a tutti gl'infermi con quell'affetto che suol una amorevol Madre al suo unico figliuolo infermo. XXVIII Perché le cure, maneggi delle cose temporali impediscon lo Spirito 6 et charità verso il prossimo, pero ognuno si guarderà di non lasciarsi indur da nissuno ad haver' simili maneggi in detti Hospitali come sono maneggi di danari e d'altre robbe, havere cura al governo della [p. 7] casa et maneggiare entrate di Hospitale. Pertanto ogn'uno si guarderà con ogni diligentia di non fare contro detto ordine, et se alcuno presumerà di fare o vero procurare il contrario per se ò vero per altri subito s'intenda quel tale esser fuora della Compagnia ancorché fusse il Superiore di tutti. XXIX Si usi diligentia di trovarsi quando li Medici fanno la visita 7 poter poi cibarli all'hora, e con li cibi che haveranno ordinato massime quelli che staranno più aggravati, et anco per pigliare informatione di altre cose per servitio dell'infermi. XXX Quando mangiano detti Infermi ognuno habbia cura d'aiutar alli più gravi usandoci molta diligentia in farli magnare, e poi debbia referirlo à l'infermiero, o, altro Superiore di quello che haverà magnato massime quando alcuno non havesse magnato a sufficientia. XXXI Stando presente à dett'infermi quando magnano ogn' uno cerca con charità incitarli con parole amorevoli a farli magnare accomodandoli la testa alta, et altre cose secondo che lo Spirito santo gl'insegnarà, et questo si faccia tutto con volontà delli Infermi. XXXVII Se alcuno gli sarà imposto qualch'officio particulare in servitio dell'infermi procuri con charità e diligentia possibile farlo, et obedisca non solo alli Superiori delli Hospitali come à Christo ma ancora a tutti li Offitiali et servitori di quello per amor di Dio. XXXVIII Quando si faranno li servitij communi ognuno procuri di fare il debito suo, et non restar di farlo salvo che per occupatione che gli sarà imposta dal Superiore ò vero per indispositione corporale, et altri impedimenti, ma altri fratelli che si trovaranno à far detti servitij chi vedrà che alcuni manchano, non ardiscano di mormorare, ma si persuada piu presto chè quelli siano occupati in altre cose, è, così habbino legitima scusa, XXXIX Ognuno con ogni diligentia possibile si guarderà di non trattar' li poveri infermi con mali portamenti, cioè usandoci male parole, et altre cose simili, ma piu presto trattare con mansuetudine et charità, et haver riguardo alle parole che il Signore ha detto, Quello che avete fatto à uno di questi minimi [p. 10] l'havete fatto a me, però ognuno risguardi al povero come à la persona del Signore. XL Tutto quel tempo ch'avanza da servitij communi, et particolari ognuno che non sarà impedito procuri se non in tutto almeno in parte spenderlo fra li poveri infermi con aiutarli in qualche cosa della quale haveranno bisogno nel corpo et nell'anima ricordandogli qualche cosa spirituale insegnandoli il Pater noster, Ave Maria, Credo, et altre cose appartenenti alla salute, et principalmente havendo cura di dar qualche ricordo di ben morire a quelli che saranno vicini alla morte, XLI Circa la diligentia et cura che si ha da tenere de l'anima dell'infermi la prima sarà questa, Ognuno procuri quando visita qualch'infermo saper da lui se è ben confessato, cioè con le circunstantie necessarie alla buona confessione et quelli che si trovarà che non saranno ben confessati esortarli a confessarsi ben quanto prima, insegnandoli le dette circunstantie, et dandoli altri ricordi spirituali, et esortarli à far la confessione generale, et se conoscerà che ne habbiano bisogno avvertirà il Padre Confessore quanto prima con consenso però dell'infermo. XLII Quelli fratelli che si troveranno nelli Hospitali procurino diligentemente che detti Infermi quando si haveranno da communicare vadino ben preparati insegnandoli come si hanno da apparecchiare prima della Communione e come si hanno da portar poi, et più avvertischino che molti Infermi si trovano che non mandano. |
15 Luglio 2020-: P. Agostino Gemelli, Testimone (1878-1959)-: P. Agostino Gemelli, Testimone (1878-1959)15 Luglio 2020 - P. Agostino Gemelli Edoardo Gemelli nasce a Milano il 18 gennaio 1878 da famiglia non praticante e decisamente anticlericale. Cresce dunque in un ambiente agnostico, del resto comune alla borghesia dell’epoca. Nel periodo del liceo al Parini è alunno interno del convitto Longone, dove abbandona del tutto la pratica religiosa. Finito il liceo si iscrive, nel 1896, alla facoltà di Medicina presso l’Università di Pavia. Nel 1902 viene espulso per indisciplina dal collegio Ghislieri, dove era stato ammesso nel 1898. Frequentando l’Università aderisce al metodo positivistico e al materialismo, subendo il fascino del socialismo, di cui diviene un militante. Contemporaneamente inizia la ricerca scientifica, nel laboratorio del suo maestro Camillo Golgi, ordinario di patologia generale e premio Nobel per la medicina nel 1906. Qui matura la passione per le scienze biologiche e per la ricerca sperimentale. La passione per la ricerca caratterizzerà tutta la vita di Gemelli e lo porterà a cercare sempre il confronto delle idee, delle esperienze, delle concezioni, accostando senza preclusioni uomini diversamente schierati. Fra gli uomini di scienza che Edoardo inizia a frequentare già prima della laurea, conseguita nel 1902, ci sono anche sacerdoti – come il matematico e astronomo Pietro Maffi – e giovani di grande fede. Durante l’anno di volontariato come soldato di sanità nell’ospedale militare di Milano, che aveva sede nell’ex monastero benedettino di piazza Sant’Ambrogio, ritrova Ludovico Necchi. Per suo tramite inizia a frequentare un giovane sacerdote, Giandomenico Pini. Già in crisi per gli incontri pavesi, Edoardo, attraverso questi colloqui e le conversazioni con alcuni giovani francescani suoi compagni di servizio militare, riprende la pratica religiosa nell’aprile 1903. Poco dopo matura la sua vocazione e la decisione di farsi frate francescano, nonostante la forte contrarietà della famiglia. Il 23 novembre del 1903 viene ammesso all’ordine francescano e, trascorso l’anno di noviziato, prende i primi voti il 23 dicembre 1904. Edoardo diviene fra’ Agostino. Nel 1906, ancora giovane frate, Agostino Gemelli tiene una relazione al convegno della Fuci dal titolo I progressi delle scienze biologiche innanzi al pensiero cattolico, dove pone con evidenza la questione dei rapporti fra religione e scienza. Si fa strada nella mente del giovane frate l’idea che sia necessario provvedere alla formazione di un pensiero cattolico moderno, coerente con i tempi. Nel 1907 incontra il sociologo Giuseppe Toniolo (con cui è in corrispondenza), al quale prospetta il progetto di un Istituto superiore cattolico di studi filosofici. Le sue opere sono il frutto della convinzione profonda che il metodo empirico della scienza e una fede solida possono arricchirsi a vicenda nella prospettiva di uno sviluppo autenticamente umano e coerente con la grande tradizione della Chiesa. Nel 1910 fonda, con altri esponenti del mondo cattolico ambrosiano, l’associazione Pro cultura, per «affermare nel campo del pensiero e della scienza la perenne vitalità del cattolicesimo». Ha contatti internazionali, volgendosi sempre più decisamente verso il campo della psicologia sperimentale. Nel 1914 consegue la libera docenza in Psicologia sperimentale, insegnamento che impartisce all’Università di Torino, nell’Accademia scientifico-letteraria di Milano e, dal 1921, nell’Università Cattolica. Nel 1914, scoppiata la guerra, fonda la rivista Vita e Pensiero, un vero laboratorio di idee che troveranno corpo e attuazione nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, al cui progetto lavorerà attivamente alla fine del periodo bellico. Nel 1919 costituisce l’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, destinato a divenire l’ente promotore dell’Università. Con l’aiuto di Ludovico Necchi, di Armida Barelli, presidente della Gioventù femminile di Azione Cattolica, di Filippo Meda e di Ernesto Lombardo, nel 1921 padre Gemelli ottiene l’approvazione di Benedetto XV alla realizzazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che inaugurerà il 7 dicembre dello stesso anno, nella festività di Sant’Ambrogio, con due facoltà: Filosofia e Scienze sociali. Padre Gemelli assume la carica di Rettore, che mantiene fino alla morte. Nel 1924 arriva anche il riconoscimento statale, che abilita l’Università Cattolica del Sacro Cuore a rilasciare titoli con valore legale, favorendo quella penetrazione dei cattolici nella società che costituisce uno degli scopi di padre Gemelli. Con il riconoscimento statale si rende necessario ristrutturare l’ordinamento didattico. Nascono le facoltà di Lettere e Filosofia e di Giurisprudenza. Nel 1926 sorge la Scuola di scienze politiche, economiche e sociali che darà vita nel 1932 alla facoltà di Scienze politiche, economiche e commerciali. Sin dal 1921 padre Gemelli vuole creare nell’Università un ben attrezzato laboratorio di psicologia, per proseguire nelle ricerche che da anni svolgeva a livello internazionale. Il 26 dicembre 1940, tornando in auto da Firenze, padre Gemelli ha un grave incidente stradale da cui si riprende con fatica, costretto alle stampelle prima, alla sedia a rotelle poi. Ugualmente sa reggere con determinazione e lungimiranza l’Università Cattolica del Sacro Cuore, orientandola verso uno sviluppo che prevede la costituzione di una facoltà di Medicina e di un Policlinico, suo sogno sin dagli anni Venti. Nel 1953 padre Gemelli inaugura la sede di Piacenza con la facoltà di Agraria. Nel 1958 la facoltà di Medicina e chirurgia ottiene l’approvazione del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. La nuova facoltà sorge a Roma, a Monte Mario, per formare giovani che considerino «l’esercizio della loro professione come una nobile arte che ha per fine di alleviare le sofferenze dei fratelli in Cristo» (padre Gemelli in Vita e Pensiero, 1958). Padre Agostino Gemelli si spegne il 15 luglio 1959, senza poter vedere la realizzazione della sua ultima grande fatica per la cultura scientifica in Italia. Il suo funerale è celebrato nel Duomo di Milano dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini, con un concorso memorabile di autorità, di studiosi e di popolo.
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16 Luglio 2020-: Beata Guadalupe Ortiz Landazuri (1916-1975)-: Beata Guadalupe Ortiz Landazuri (1916-1975)16 Luglio 2020 - Beata Guadalupe Ortiz Guadalupe Ortiz de Landázuri Fernandez de Heredia nacque a Madrid, in Spagna, il 12 dicembre 1916. Era stata preceduta da tre fratelli maschi, l’ultimo dei quali, Francisco de Asis, morì poco prima della sua nascita, a quattordici mesi. Fu battezzata il 24 dicembre, nella chiesa parrocchiale di Sant’Ildefonso. A sette anni, il 18 maggio 1923, ricevette la Prima Comunione a Segovia, dove suo padre, Manuel Ortiz de Landázuri, era professore di topografia nell’Accademia di Artiglieria. Cominciò gli studi nella scuola «La Emulación» per figlie di artiglieri, proseguendoli presso l’istituto Nostra Signora del Pilar a Tetuán, retto dai padri Marianisti. Guadalupe si era trasferita in quella località, all’epoca capitale del protettorato spagnolo del Marocco, per via dell’impegno da militare del padre. Era l’unica allieva femmina della scuola dei Marianisti. Conquistò presto l’ammirazione dei compagni di scuola, sia perché meritò il massimo dei voti in tutte le materie, sia perché era portata, per carattere, ad affrontare con coraggio le scelte, anche le più rischiose. Quando suo padre fu destinato al Ministero dell’Esercito e promosso tenente colonnello, la famiglia si trasferì nuovamente a Madrid. Lì Guadalupe terminò le superiori presso il liceo «Miguel de Cervantes» e s’iscrisse all’Università Centrale. Al primo anno era una delle cinque allieve su sessanta iscritti in totale alla facoltà di Chimica. A vent’anni cominciò a frequentare Carlos, un collega di studi, ma non aveva fretta di sposarsi. Pensava comunque di formare una famiglia e di lavorare nell’ambito per cui stava studiando. Il 18 luglio 1936, però, dovette interrompere gli studi: in Spagna era scoppiata la guerra civile. Suo padre venne arrestato e rinchiuso nel Carcere Modelo di Madrid. Il figlio Eduardo riuscì a ottenere la grazia per lui, ma il tenente colonnello la rifiutò, per non abbandonare i soldati insieme ai quali era detenuto. Nel corso della prigionia rimase sereno e fiducioso in Dio. Nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1936 venne raggiunto da Eduardo, da Guadalupe e dalla moglie. Queste ultime erano state raggiunte dalla notizia dell’arresto mentre erano in vacanza a Fuenterrabía. La figlia lo confortò, pregando con lui e aiutandolo a prepararsi alla fucilazione, avvenuta l’indomani mattina. Dal 1937 al 1939, Guadalupe visse con la madre a Valladolid, poi, al termine del conflitto, rientrò a Madrid. Conclusi gli studi universitari nel giugno 1940, cominciò a insegnare in due scuole, il Liceo Francese e la scuola “delle Irlandesi”. Molto credente, ma non particolarmente devota, la giovane sentiva però di dover approfondire la propria fede. Una domenica del gennaio 1944, arrivò in ritardo alla Messa nella parrocchia della Concezione e si sedette negli ultimi banchi. Pur non essendo molto raccolta, avvertì una sensazione particolare, come se Dio le si fosse fatto presente. Appena uscita di chiesa, incontrò un amico, a cui disse di voler parlare con un buon sacerdote. L’uomo le diede il numero di telefono di un tale don Josemaría Escrivá, assicurandole che faceva al caso suo. Il 25 gennaio 1944, Guadalupe telefonò al sacerdote, che le diede appuntamento in un villino in via Jorge Manrique. Nel corso del colloquio, fu certa che Dio stesso le parlasse attraverso di lui. Per comprendere più chiaramente cosa fare, accettò di compiere un ritiro spirituale, dal 12 al 17 marzo, in quella stessa abitazione. Fu in quel modo che Guadalupe entrò in contatto con l’Opus Dei, una realtà che don Josemaría aveva iniziato a delineare a partire dal 2 ottobre 1928, quando comprese che tutti gli uomini potevano incontrare il Signore e farlo conoscere tramite le situazioni più comuni della vita, compreso il lavoro. Inizialmente l’Opera, come fu chiamata per brevità, era solo per gli uomini, ma l’attività con le donne cominciò il 14 febbraio 1930. Alcune di esse cominciarono a vivere in un centro dell'Opus Dei, con uno stile di vita familiare, dedicandosi in pari tempo alle proprie attività lavorative: il villino di via Manrique fu la loro prima casa. Guadalupe comprese che quella via poteva essere giusta per lei. Così, il 19 marzo 1944, chiese l’ammissione nell’Opus Dei. Sua madre comprese la sua scelta e volle accompagnarla a pregare al santuario di Nostra Signora di Guadalupe in Estremadura, per chiedere alla Madonna di benedire la sua vocazione. Suo fratello Eduardo, con la moglie Laura, si trasferì in casa della madre, per non lasciarla sola. Sempre lui accompagnò la sorella nella casa di via Manrique, dove avrebbe abitato da allora. Era il 18 maggio 1944; come Guadalupe stessa notò, erano trascorsi vent’anni dalla sua Prima Comunione. Guadalupe cominciò subito a svolgere le sue nuove attività, tra apostolato e vita di casa. Ammise di non essere affatto portata per i lavori domestici, ma s’impegnò ugualmente. Dal 16 marzo 1945 fu incaricata da don Josemaría di essere direttrice della casa di via Manrique, poi, il 16 settembre, si trasferì a Bilbao, per lavorare nell’amministrazione della residenza universitaria “Abando”. Tornata a Madrid nel 1947, il 18 maggio venne definitivamente incorporata come numeraria, ovvero rendendosi disponibile per i compiti che le venivano assegnati e per occuparsi della formazione delle altre donne che avessero desiderato unirsi all’Opus Dei, abbracciando il celibato apostolico laicale che nell’Opus Dei vivono i fedeli numerari e aggregati. Da allora in poi viaggiò in molte città della Spagna per diffondere lo stile che aveva imparato e per avviare nuove case per donne dell’Opus Dei. Era infatti stata inserita nell’Assessorato, ovvero nel governo centrale dell’Opera. In mezzo ai suoi mille impegni, Guadalupe riuscì a trovare tempo per riprendere a studiare. Nell’ottobre 1947 s’iscrisse a cinque corsi per ottenere il dottorato in Scienze Chimiche. L’anno successivo, superati quattro esami, cominciò a lavorare alla tesi. Nel frattempo, era stata nominata anche direttrice di “Zurbarán”, la prima residenza universitaria femminile, a Madrid. Fece in modo di far sentire a casa le giovani ospiti, ascoltando le loro confidenze e, con molta pazienza, le loro intemperanze. Esigeva serietà e puntualità, ma sapeva anche rallegrare le serate e ridere con le sue giovani amiche. Nell’ottobre 1949, Guadalupe rispose di sì a chi, per conto di don Josemaría, le domandò se volesse accettare di avviare l’Opus Dei in Messico insieme a Manolita Ortiz Alonso e Maria Esther Ciancas Raner. Intensificò la sua preghiera, per chiedere al Signore le grazie necessarie per il nuovo cammino che si profilava davanti a lei. Lo stesso fondatore, quando l’incontrò, commentò con una battuta: «Visto che ti chiami Guadalupe, ti tocca cominciare in Messico». Le tre donne arrivarono il 5 marzo 1950. Dopo un mese, il 1° aprile, pur essendo quasi sprovviste di mezzi economici, inaugurarono la prima residenza universitaria nel Paese, in via Copenhague a Città del Messico. Il 18 maggio fu celebrata la prima Messa nella cappella della residenza. Dato che non aveva completato gli studi per il dottorato, ma anche per immergersi ancora più a fondo nella nuova realtà, Guadalupe s’iscrisse ai corsi necessari. Il suo spirito di adattamento la condusse anche a smorzare il suo accento spagnolo, che poteva sembrare troppo aspro ai messicani, come anche a indossare gli abiti tipici. Le universitarie e le altre donne che frequentavano la residenza la trovavano simpatica per tutti i modi con cui cercava di prodigarsi per loro. Anche le donne contadine che le furono affidate dal vescovo di Tacámbaro apprezzavano la disponibilità con cui s’impegnava nei corsi di alfabetizzazione a loro dedicati. Proprio durante uno di questi incontri, nell’autunno 1952, Guadalupe sentì un forte dolore su una gamba, come la puntura di un insetto. Come se nulla fosse, schiacciò l’animale e continuò a parlare: solo alla fine svelò cosa le era successo. Prese le medicine necessarie, ma in breve le venne una forte febbre. Già a dodici anni aveva sofferto di febbri reumatiche, ma ne era uscita apparentemente guarita. Quel secondo episodio minò ulteriormente la sua salute, ma lei ridusse solo in minima parte la sua attività. Lavorò anche per la ricostruzione di Santa Maria di Montefalco, un’antica tenuta che doveva essere riconvertita in casa per ritiri e per la promozione professionale dei contadini, con tanto di fattoria-scuola. Nell’ottobre 1956, dopo cinque anni, rivide don Josemaría durante un congresso generale dell’Opus Dei. Lui le comandò di restare a Roma per collaborare alla direzione dei vari apostolati. Come sempre, accettò, sicura che Dio volesse questo da lei. Pochi mesi dopo, il 6 marzo 1957, Guadalupe si sentì male. I medici le riscontrarono una stenosi mitralica grave, peggiorata dai due episodi febbrili dell’adolescenza e di qualche anno prima. Don Josemaría accorse da lei e, visto che sembrava grave, le amministrò l’Unzione degli Infermi. Grazie alle cure, si riprese, ma dovette subire un intervento chirurgico. L’operazione di sostituzione della valvola mitralica avvenne il 19 luglio presso la clinica de la Concepción a Madrid, dov’era stata trasferita su richiesta del fratello Eduardo. L’intervento, delicato per l’epoca, riuscì bene, mentre la paziente si mostrava fiduciosa nell’aiuto dei medici e di Dio. Fu dimessa il 3 agosto, ma il 29 dicembre, a meno di un mese dal rientro a Roma, si ammalò di nuovo. Superata la crisi, tornò a Madrid il 12 maggio 1958, per un controllo. Don Josemaría, che si era sempre preoccupato delle sue condizioni, le impose di restare lì, perché il clima umido di Roma non le avrebbe fatto bene. Nonostante avesse «uno straccio di cuore», come lo definì in una lettera, Guadalupe continuò a impegnarsi nelle attività apostoliche. Ottenne anche un posto come insegnante di chimica presso l’Istituto Ramiro de Maeztu, dove operò tra il 1960 e il 1962. Riuscì poi a concludere il dottorato, lavorando alla tesi anche a letto. L’8 giugno 1965 discusse la tesi sui «Refrattari isolanti nelle ceneri di residuati del riso», laureandosi col massimo dei voti. Ormai aveva quarantacinque anni e, anche per ragioni di salute, non poteva dedicarsi alla carriera universitaria. Scelse quindi di continuare con l’insegnamento: dal 1964 al 1975 fu titolare di cattedra e vicedirettrice della Scuola Femminile d’Ingegneria Industriale. Dal 1968 partecipò anche alla promozione del Centro di Studi e Ricerche in Scienze Domestiche, un’istituzione che don Josemaria volle per nobilitare anche le attività di casa, come professoressa di Fibre Tessili. Riusciva a suscitare l’interesse degli studenti, coinvolgendoli mediante gli esperimenti scientifici. Il clima attorno a lei era gradevole, perché sapeva trattare con comprensione chi le stava di fronte. Una sua exallieva, Carmen Molina, poi professoressa a sua volta nella Scuola Femminile d’Ingegneria Industriale, ha testimoniato: «Ricordo che, dopo aver riempito la lavagna di formule chimiche, si voltava verso di noi e ci parlava di tutto quello che si poteva fare combinando i vari elementi chimici, facendoci vedere che tutto era un’impressionante manifestazione della diversità della creazione; poi concludeva: pensate a come Dio fa le cose!». Guadalupe alimentava la sua attività lavorativa e apostolica con frequenti visite al Santissimo Sacramento, come hanno ricordato le compagne che vissero accanto a lei. Era molto intensa anche la sua devozione alla Vergine Maria, specie come Nostra Signora di Guadalupe, per ovvie ragioni. Nel mese di maggio, visitava molti santuari, affidando alla Madonna tutta la sua vita. S’impegnava a restare fedele alle norme del piano di vita, ovvero alle preghiere tradizionali del cristiano, vissute però con l’intento di trovare sempre Dio e di stare alla sua presenza, come insegnava don Josemaria. A lui lasciò numerose lettere, dove raccontava quello che le accadeva, esteriormente e interiormente, e domandava preghiere perché l’aiutasse a migliorare come cristiana. Nel 1972 Guadalupe compì venticinque anni dalla sua incorporazione definitiva all’Opus Dei. Due anni più tardi, sua madre Eulogia si ammalò: fu ricoverata presso la clinica dell’Università di Navarra, a Pamplona, dove lavorava il figlio Eduardo. Lei stessa, il 2 giugno 1975, entrò in clinica per un ulteriore intervento al cuore. Ventiquattro giorni più tardi, i medici decisero di operare. Dal canto suo, pur essendo a riposo, Guadalupe andava a trovare le altre degenti e sua madre; fece anche degli esperimenti nel lavandino del bagno della sua stanza. Il 26 giugno, a Roma, don Josemaría morì per un attacco cardiaco. Guadalupe, che l’aveva visto per l’ultima volta il 15 maggio precedente, intuì che era successo qualcosa di grave. Ne fu informata solo da suo fratello, il quale le prospettò due possibilità: o morire e raggiungere il “Padre”, come lo chiamavano tutti nell’Opus Dei, o che lui domandasse a Dio di farla restare in vita. L’operazione, che comportava la sostituzione della valvola mitrale e di quella aortica, insieme all’allargamento dell’anello della tricuspide, fu effettuata il 1° luglio. Prima di entrare in sala operatoria, Guadalupe fece la Comunione. Il decorso sembrò andare bene: il 4 luglio uscì dall’unità di terapia intensiva e due giorni dopo poté riprendere a camminare. Il 14 luglio, proprio quando aveva annotato di aver offerto l’operazione, il trattamento postoperatorio e tutto il resto con ottimismo e senza lamentarsi, ed era prossima alle dimissioni, peggiorò all’improvviso. Le cure successive non ebbero esito, ma lei continuò a preoccuparsi di chi le stava accanto più che di se stessa. Morì alle sei e mezza del mattino del 16 luglio. Una settimana dopo fu la volta di sua madre. Il corpo di Guadalupe fu sepolto nel cimitero di Pamplona, ma il 5 ottobre 2018 i suoi resti sono stati traslati presso il Real Oratorio del Caballero de Gracia a Madrid, la cui cura pastorale è affidata ai sacerdoti dell’Opus Dei.
Omelia della Beatificazione Abbiamo una responsabilità per il dono ricevuto: la responsabilità per la luce che ci è stata tramandata. Non possiamo soltanto appropriarci di essa e tenerla per noi stessi, ma siamo chiamati a comunicarla agli altri, a donarla; dobbiamo farla risplendere «davanti agli uomini» (v.16). Di questa verità ebbe consapevolezza la Beata Maria Guadalupe. Essa è per noi un modello di come attingere questa luce che è Cristo e di come trasmetterla ai fratelli. Ci troviamo, infatti, davanti ad una donna la cui vita è stata rischiarata solo dalla fedeltà al Vangelo. Poliedrica e perspicace, è stata luce per quanti ha incontrato nel corso della sua esistenza, attingendo coraggio e gioia di vivere dal suo abbandono in Dio, alla cui volontà aderiva giorno dopo giorno e la cui scoperta la rendeva coraggiosa testimone e annunciatrice della Parola di Dio. La sorgente della sua feconda vita cristiana era l’intima e costante unione con Cristo. Il suo dialogo con Dio, fin da giovinetta, era continuo e avveniva soprattutto mediante un’intensa vita sacramentale e prolungati tempi di raccoglimento: la Santa Messa e la confessione erano i pilastri del suo vissuto spirituale. La preghiera del rosario, recitata con grande devozione, era il segno evidente del suo profondo legame con la Madre di Dio, alla cui intercessione era solita affidarsi. Maria Guadalupe ha compiuto un cammino di orazione completo e maturo, che la portò a sperimentare in modo profondo e mistico la presenza del Signore ed il suo amore misericordioso. È infatti dalla contemplazione del mistero pasquale che scaturì la luce della verità che guidò i suoi passi. La stessa luce la rese una “lanterna” posta “sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”. -: Carlotta Nobile, Testimone (1988-2013)-: Carlotta Nobile, Testimone (1988-2013)16 Luglio 2020 - Carlotta Nobile Annunciata come «una donna eccezionale» dalla mistica centenaria Madre Raffaelina Borruto prima ancora che ne si sapesse il sesso, Carlotta Nobile (Roma, 20 dicembre 1988 – Benevento, 16 luglio 2013) fin da bambina manifestò una sensibilità profonda e tormentata, testimoniata da vari scritti: «La mia storia sarà diversa» scrisse al papà a 8 anni. Mostrò presto un singolare talento che la lanciò in una sorprendente e precoce carriera violinistica di livello nazionale, coltivata nelle maggiori accademie europee e coronata con la vittoria di vari prestigiosi concorsi. Parallelamente a ciò, pubblicò due libri e si laureò con lode in Storia dell’Arte, proseguendo gli studi a New York e a Cambridge. Severa ed esigente con se stessa, con «l’amore intorno e la disciplina dentro» -come scrisse-, durante l’adolescenza vide sbiadire la fede dell’infanzia. Nel pieno dei suoi 22 anni, arrivò però la diagnosi di un melanoma. Dopo una prima reazione di rabbia nei confronti di un destino che percepiva come ingiusto, dalla domanda «Perché a me?» passò presto al «Perché non a me?», dopo aver realizzato che quella frenetica ed inconscia ricerca di perfezione che la tormentava da anni era un’illusione e dopo aver iniziato ad amarsi in un modo nuovo rispettando i propri limiti. «Odio essere compatita» -disse- e per questo proseguì la sua carriera non rivelando quasi a nessuno la sua malattia. Bisognosa comunque di comunicare quel che provava, nell’aprile 2012 aprì il blog anonimo “Il Cancro E Poi_”, col quale infuse coraggio e speranza a migliaia di persone, invitando il prossimo a vedere il cancro non solo come un nemico, ma come un maestro: «Io non so più neanche quanti centimetri di cicatrici chirurgiche ho. -scrisse- Ma li amo tutti, uno per uno, ogni centimetro di pelle incisa che non sarà mai più risanata. Sono questi i punti di innesto delle mie ali.» Alternò la sua vita tra concerti e ospedali ed aderì ai “Donatori di Musica” per offrire note e speranza ai pazienti oncologici, senza però rivelare di essere anch’ella malata. Il 4 marzo 2013 a Milano, al risveglio da un coma, scoprì di aver ricevuto il dono di una radicale Fede in Cristo. Scrisse: «Io sono guarita nell’anima. In un istante, in un giorno qualunque, al risveglio da una crisi. Ho riaperto gli occhi ed ero un’altra. E questo è un miracolo. C’è un disegno più grande. Perché ora FINALMENTE sono sana dove non lo ero da due anni, cioè DENTRO, nell’anima!!!!». Carlotta rimase poi folgorata dall’omelia di Papa Francesco della Domenica delle Palme: «Voi giovani dovete portare la Croce con Gioia!». Il Venerdì Santo del 2013 a Roma, desiderosa di confessarsi, incontrò colui che diventerà il suo confessore, Don Giuseppe Trappolini, parroco di San Giacomo in Augusta, il quale, stupito dalla testimonianza della ragazza, ne scrisse al Pontefice. La risposta non tardò ad arrivare: il Papa telefonò in parrocchia. «Questa ragazza mi dà coraggio» disse. Proprio in quel momento Carlotta cadeva in una crisi cerebrale all’ospedale di Carrara e, dopo aver ripreso conoscenza, ebbe un’apparizione trinitaria: sdraiata sul letto nella sua stanza, vide un Triangolo di luce sulla parete. Con gioia scrisse allora al Papa: «Caro Papa Francesco, Tu mi hai cambiato la vita. Io sono onorata e fortunata di poter portare la Croce con Gioia a 24 anni. So che il cancro mi ha guarita nell'anima, sciogliendo tutti i miei grovigli interiori e regalandomi la Fede, la Fiducia, l'Abbandono e una Serenità immensi proprio nel momento di maggior gravità della mia malattia. Io confido nel Signore e, pur nel mio percorso difficile e tormentato, riconosco sempre il Suo aiuto. Caro Papa Francesco, Tu mi hai cambiato la vita. Vorrei rivolgerTi una preghiera... Avrei un desiderio immenso di conoscerTi e, anche solo per un minuto, pregare il Padre Nostro insieme a Te! "Dacci oggi il nostro pane quotidiano" e "Liberaci dal male" Amen. Affido questo mio sogno a don Giuseppe e confido in Dio! Prega per me Santo Padre. Io prego per Te ogni giorno. Carlotta». L’incontro con il Papa non potrà mai esserci: nel maggio 2013 le condizioni di Carlotta peggiorarono e allora tornò nella sua casa di Benevento, dove trascorse i suoi ultimi tre mesi. Nonostante sofferenze indicibili, davanti agli occhi sbalorditi della famiglia, visse un paradossale stato di grazia e di serenità, senza mai un lamento, nella preghiera. Il cappuccino Padre Giampiero Canelli la ascoltò nell’ultima Confessione: «Quasi fu lei ad incoraggiare me!» racconterà. Nei primi giorni di luglio, Carlotta disse al fratello: «Io ho guadagnato la Fede, non quella delle litanie o altro, ma quella dell’affidarsi al Padre». Il 14 Carlotta disse ai familiari «È finita!», ma sorrideva. Quella notte, l’ultima della sua vita, già in pieno travaglio respiratorio, il padre la sentì sussurrare ripetutamente, guardando il soffitto: «Signore, ti ringrazio. Signore, ti ringrazio. Signore, ti ringrazio». Il giorno successivo, poco prima di morire, rivolse con fatica ai suoi cari e al suo fidanzato l'ultimo saluto: «I miei tre uomini meravigliosi: papà, Alessandro e Matteo. La mia dolce mamma» e poi, accarezzando la guancia della mamma, «Cosa voglio di più?! Io sono fortunata». Carlotta morì a 24 anni allo scoccare del 16 luglio 2013, giorno della Madonna del Carmelo. La sua testimonianza, diffusasi sul web e sulle televisioni, ha fatto il giro del mondo, dagli Stati Uniti al Sud Sudan, dall’Ungheria al Messico, e continua ad aprire i cuori di tanti, in particolare giovani e malati, tanto che nel febbraio 2018 è stata inserita dalla Santa Sede tra i “Giovani Testimoni” per il Sinodo dei Vescovi. |
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20 Luglio 2020-: Beato Luigi Novarese (1914-!984)-: Beato Luigi Novarese (1914-!984)20 Luglio 2020 - Beato Luigi Novarese Luigi, cui la morte porta via il papà per polmonite quando ha appena nove mesi e che da piccolo è delicato e fragile come tre dei suoi otto fratelli, che sono morti in tenera età. Storia ordinaria di famiglia numerosa, che si ammazza di fatica e forse si trascura anche un po’. Per sua fortuna ha una mamma energica e forte, che non risparmia fatica e sacrifici per crescere i sei figli, facendo loro anche da papà, ma se le cose, economicamente parlando, cominciano a scricchiolare subito, costringendola a vendere pian piano i terreni della cascina, finiscono poi con il naufragare miseramente per colpa della malattia di Luigi, colpito a nove anni da una grave forma di tubercolosi ossea, complicata da ascessi purulenti che provocano una sofferenza ai limiti della sopportazione. La santa donna, malgrado il parere dei medici che ormai lo danno per spacciato e sfidando l’ira degli altri figli, mette in vendita anche la cascina e i rimanenti terreni per pagare le costosissime cure dell’epoca, al termine delle quali al giovanotto, ormai sui 17 anni, pronosticano appena un paio di mesi di vita. È a questo punto che nella vita di Luigi fa la sua comparsa don Filippo Rinaldi, pure lui monferrino e terzo successore di don Bosco, che lo invita a fare una novena a Maria Ausiliatrice, per ottenere una guarigione per la quale la scienza medica si è dichiarata impotente. Non una ma ben tre novene sono necessarie (oh, potenza della costanza!) per ottenere una guarigione improvvisa, completa e duratura, ottenuta la quale, oltre a portar le stampelle nella basilica di Torino come ex voto, non resta al giovanotto che mantenere la promessa, fatta durante la novena, di dedicare la sua vita ai malati. Sembrerebbe orientato a fare il medico, ma poi l’improvvisa morte di mamma gli scombina i piani e decide di entrare in seminario. Ovviamente senza un soldo, per cui il suo vescovo gli procura una borsa di studio presso l’Almo Collegio Capranica. Viene ordinato sacerdote il 17 dicembre 1938, consegue poi la licenza in Teologia, la laurea in Diritto canonico e il diploma di avvocato rotale, sempre portandosi dietro, come indelebile ricordo dei terribili anni della malattia, una gamba più corta dell’altra di 15cm, per cui deve far uso di una scarpa ortopedica. Questa sua disabilità non impedisce a Mons. Montini di chiamarlo a lavorare nella Segreteria di Stato, con lo specifico incarico di evadere la corrispondenza che arriva al Papa per i soldati al fronte. Don Luigi scopre così un’altra forma di sofferenza, quella provocata dalla guerra e dalla mancanza di cibo, e per far arrivare gli aiuti pontifici non ha davvero che l’imbarazzo della scelta. Non dimentica però i malati, e con stile innovativo rispetto al suo tempo, lotta contro l’emarginazione dei disabili. Dialoga, senza complessi, con la medicina dimostrando l’efficacia terapeutica della motivazione spirituale nella cura del malato. Fonda case di cura, centri di assistenza, corsi professionali per disabili e infermi, insegnando loro a pensare e vivere in modo nuovo la malattia. Fa maturare una nuova comprensione spirituale e pastorale del malato, che non vuole solo oggetto di carità, ma soggetto di azione nell’opera di evangelizzazione e i suoi “esercizi spirituali dei malati” diventano una grande novità nella Chiesa. Nel 1943 dà vita alla “Lega Sacerdotale Mariana”; quattro anni dopo, insieme a sorella Elvira Myriam Psorulla, crea i “Volontari della Sofferenza”; nel 1950 nascono i Silenziosi Operai della Croce, cui seguono, nel 1952, i Fratelli e le Sorelle degli Ammalati. Muore il 20 luglio 1984 e la Chiesa, dopo aver riconosciuto l’eroicità delle sue virtù e approvato un miracolo attribuito alla sua intercessione, proclamerà beato Mons. Luigi Novarese l’11 maggio 2013. Luigi, cui la morte porta via il papà per polmonite quando ha appena nove mesi e che da piccolo è delicato e fragile come tre dei suoi otto fratelli, che sono morti in tenera età. Storia ordinaria di famiglia numerosa, che si ammazza di fatica e forse si trascura anche un po’. Per sua fortuna ha una mamma energica e forte, che non risparmia fatica e sacrifici per crescere i sei figli, facendo loro anche da papà, ma se le cose, economicamente parlando, cominciano a scricchiolare subito, costringendola a vendere pian piano i terreni della cascina, finiscono poi con il naufragare miseramente per colpa della malattia di Luigi, colpito a nove anni da una grave forma di tubercolosi ossea, complicata da ascessi purulenti che provocano una sofferenza ai limiti della sopportazione. La santa donna, malgrado il parere dei medici che ormai lo danno per spacciato e sfidando l’ira degli altri figli, mette in vendita anche la cascina e i rimanenti terreni per pagare le costosissime cure dell’epoca, al termine delle quali al giovanotto, ormai sui 17 anni, pronosticano appena un paio di mesi di vita. È a questo punto che nella vita di Luigi fa la sua comparsa don Filippo Rinaldi, pure lui monferrino e terzo successore di don Bosco, che lo invita a fare una novena a Maria Ausiliatrice, per ottenere una guarigione per la quale la scienza medica si è dichiarata impotente. Non una ma ben tre novene sono necessarie (oh, potenza della costanza!) per ottenere una guarigione improvvisa, completa e duratura, ottenuta la quale, oltre a portar le stampelle nella basilica di Torino come ex voto, non resta al giovanotto che mantenere la promessa, fatta durante la novena, di dedicare la sua vita ai malati. Sembrerebbe orientato a fare il medico, ma poi l’improvvisa morte di mamma gli scombina i piani e decide di entrare in seminario. Ovviamente senza un soldo, per cui il suo vescovo gli procura una borsa di studio presso l’Almo Collegio Capranica. Viene ordinato sacerdote il 17 dicembre 1938, consegue poi la licenza in Teologia, la laurea in Diritto canonico e il diploma di avvocato rotale, sempre portandosi dietro, come indelebile ricordo dei terribili anni della malattia, una gamba più corta dell’altra di 15cm, per cui deve far uso di una scarpa ortopedica. Questa sua disabilità non impedisce a Mons. Montini di chiamarlo a lavorare nella Segreteria di Stato, con lo specifico incarico di evadere la corrispondenza che arriva al Papa per i soldati al fronte. Don Luigi scopre così un’altra forma di sofferenza, quella provocata dalla guerra e dalla mancanza di cibo, e per far arrivare gli aiuti pontifici non ha davvero che l’imbarazzo della scelta. Non dimentica però i malati, e con stile innovativo rispetto al suo tempo, lotta contro l’emarginazione dei disabili. Dialoga, senza complessi, con la medicina dimostrando l’efficacia terapeutica della motivazione spirituale nella cura del malato. Fonda case di cura, centri di assistenza, corsi professionali per disabili e infermi, insegnando loro a pensare e vivere in modo nuovo la malattia. Fa maturare una nuova comprensione spirituale e pastorale del malato, che non vuole solo oggetto di carità, ma soggetto di azione nell’opera di evangelizzazione e i suoi “esercizi spirituali dei malati” diventano una grande novità nella Chiesa. Nel 1943 dà vita alla “Lega Sacerdotale Mariana”; quattro anni dopo, insieme a sorella Elvira Myriam Psorulla, crea i “Volontari della Sofferenza”; nel 1950 nascono i Silenziosi Operai della Croce, cui seguono, nel 1952, i Fratelli e le Sorelle degli Ammalati. Muore il 20 luglio 1984 e la Chiesa, dopo aver riconosciuto l’eroicità delle sue virtù e approvato un miracolo attribuito alla sua intercessione, proclamerà beato Mons. Luigi Novarese l’11 maggio 2013.
PERCHÉ LA SOFFERENZA? Si può far buon uso della salute e della malattia, come si può abusare dell’una e dell’altra. |
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26 Luglio 2020-: Sant'Anna (I sec. a.c.)-: Sant'Anna (I sec. a.c.)26 Luglio 2020 - Sant'Anna Nonostante che di S. Anna ci siano poche notizie e per giunta provenienti non da testi ufficiali e canonici, il suo culto è estremamente diffuso sia in Oriente che in Occidente. Quasi ogni città ha una chiesa a lei dedicata, Caserta la considera sua celeste Patrona, il nome di Anna si ripete nelle intestazioni di strade, rioni di città, cliniche e altri luoghi; alcuni Comuni portano il suo nome. La madre della Vergine, è titolare di svariati patronati quasi tutti legati a Maria; poiché portò nel suo grembo la speranza del mondo, il suo mantello è verde, per questo in Bretagna dove le sono devotissimi, è invocata per la raccolta del fieno; poiché custodì Maria come gioiello in uno scrigno, è patrona di orefici e bottai; protegge i minatori, falegnami, carpentieri, ebanisti e tornitori. Perché insegnò alla Vergine a pulire la casa, a cucire, tessere, è patrona dei fabbricanti di scope, dei tessitori, dei sarti, fabbricanti e commercianti di tele per la casa e biancheria. È soprattutto patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, è invocata nei parti difficili e contro la sterilità coniugale. Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia) e non è ricordata nei Vangeli canonici; ne parlano invece i vangeli apocrifi della Natività e dell’Infanzia, di cui il più antico è il cosiddetto “Protovangelo di san Giacomo”, scritto non oltre la metà del II secolo. Questi scritti benché non siano stati accettati formalmente dalla Chiesa e contengono anche delle eresie, hanno in definitiva influito sulla devozione e nella liturgia, perché alcune notizie riportate sono ritenute autentiche e in sintonia con la tradizione, come la Presentazione di Maria al tempio e l’Assunzione al cielo, come il nome del centurione Longino che colpì Gesù con la lancia, la storia della Veronica, ecc. Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”. Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili. L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni. Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio. Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”. Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia ‘prediletta del Signore’”. Altri vangeli apocrifi dicono che Anna avrebbe concepito la Vergine Maria in modo miracoloso durante l’assenza del marito, ma è evidente il ricalco di un altro episodio biblico, la cui protagonista porta lo stesso nome di Anna, anch’ella sterile e che sarà prodigiosamente madre di Samuele. Gioacchino portò di nuovo al tempio con la bimba, i suoi doni: dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia. L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche. I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio. Dopo i tre anni Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi, che dicono visse fino all’età di ottanta anni, inoltre si dice che Anna rimasta vedova si sposò altre due volte, avendo due figli la cui progenie è considerata, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, come la “Santa Parentela” di Gesù. Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di s. Anna. L’affermazione del culto in Occidente fu graduale e più tarda nel tempo, la sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di s. Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494). Gioacchino fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta, nel 1913 si stabilì il 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio. Artisti di tutti i tempi hanno raffigurato Anna quasi sempre in gruppo, come Anna, Gioacchino e la piccola Maria oppure seduta su una alta sedia come un’antica matrona con Maria bambina accanto, o ancora nella posa ‘trinitaria’ cioè con la Madonna e con Gesù bambino, così da indicare le tre generazioni presenti. Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo. Dalla santità del frutto, cioè di Maria, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino. Preghiera Sii benedetto, o Gesù, Figlio di Dio e della Vergine, che ti degnasti eleggerti per Madre Colei che fu il frutto del sacro coniugio di Anna e Gioacchino; per le preghiere di entrambi abbi pietà di tutti coloro che vivono nello stato coniugale, affinchè si accresca il numero dei glorificatori di Dio. Amen -: Santa Bartolomea Capitanio (1807-1833)-: Santa Bartolomea Capitanio (1807-1833)26 Luglio 2020 - Santa Bartolomea Capitanio Nacque a Lovere, in provincia di Bergamo e diocesi di Brescia, da Modesto e da Caterina Canossi, il 13 gennaio 1807. Dopo aver frequentato la scuola elementare, venne affidata, undicenne, alle Clarisse del luogo, ritornate nel proprio convento dopo la dispersione del periodo napoleonico. Nel loro educandato, grazie anche alla guida di una superiora colta e pia, suor Francesca Parpani, Bartolomea fece grandi progressi negli studi e nella via della perfezione. Conseguito il diploma di maestra assistente nel 1822, cominciò nell'istituto stesso la sua attività di insegnante con le scolarette della prima elementare. Lasciato l'educandato il 18 luglio 1824 e ritornata in seno alla famiglia, continuò la sua carriera didattica nella piccola scuola aperta l'anno seguente nella sua stessa casa in favore delle bambine povere, sperimentando ed elaborando il suo metodo, fatto di intuizione e di penetrazione delle anime delle fanciulle. Nel 1824 Bartolomea stese il primo schema del regolamento della sua vita, che ebbe in seguito ammirabili sviluppi, ed emise il voto di ubbidienza, con cui si obbligò soprattutto ad eseguire gli ordini del padre, che le aveva affidato il lavoro della bottega. Ricca di doni e naturalmente espansiva, Bartolomea non tardò a volgere la sua attenzione a un altro campo di apostolato, quello della gioventù femminile, tra la quale le idee della Rivoluzione avevano lasciato segni evidenti di rovine o almeno di disorientamento morale. Sorse così l'oratorio con cappella, regolamenti ed istruzioni e la Congregazione col titolo di Maria Bambina. Nel 1826, mentre il giubileo veniva esteso a tutta la Chiesa, ella si impose un programma di vita ascetica davvero degno, come ebbe ad esprimersi il suo direttore spirituale, Angelo Bosio, di un'anima dotata di eccezionale pietà e devozione. Oltre a ciò, la giovane Bartolomea dedicò la sua opera al piccolo ospedale per i poveri, fondato in Lovere dalle sorelle Caterina (che assunse poi in religione il nome di Vincenza) e Rosa Gerosa, dove era stata chiamata in qualità di direttrice ed economa. Ma programmi ben più vasti occupavano la sua mente. Ella vedeva al di là degli angusti confini di Lovere tante persone che avevano bisogno di assistenza religiosa, morale e fisica, e concepì l'idea di andare in loro aiuto con una grande famiglia religiosa che santificasse i suoi membri attraverso le opere di misericordia. Durante gli esercizi spirituali, fatti a Sellere nel 1829, scrisse le regole della nuova istituzione, alla quale aveva guadagnato anche l'adesione di Caterina Gerosa. Preoccupazione non lieve era la ricerca, la scelta e l'acquisto di una casa: le difficoltà erano molte e provenivano dai parenti, dalle autorità e dalla insufficienza di mezzi. Tuttavia, nel novembre 1832 si stipulò il contratto di compera della Casa Gaia, un antico edificio in abbandono, e la mattina del 21 novembre dello stesso anno, alla presenza delle due fondatrici, del parroco di Lovere, di don Bosio, di parenti ed amiche, avvenne la cerimonia delI'erezione dell'Istituto. Nella nuova casa, chiamata dal popolo "Conventino", si concentrarono le opere già iniziate da Bartolomea: la scuola gratuita per le figlie del popolo, I'orfanotrofio con dieci alunne, le riunioni festive, le pie unioni e l'assistenza a quanti cercassero aiuto morale e materiale. Il 22 giugno 1833 venne steso il Capitolo Giuridico in quattordici articoli, in cui Bartolomea e Caterina Gerosa dichiararono di unirsi in società legale, che venne riconosciuta dal governo austriaco. Solo pochi mesi, tuttavia, Bartolomea poté godere della sua fondazione: infatti, il 26 luglio 1833 la morte stroncava la sua esistenza, breve di anni, ma ricca di opere. Dichiarata venerabile da Pio IX l'8 marzo 1866, fu beatificata da Pio XI il 30 maggio 1926 e canonizzata da Pio XII il 18 maggio 1950. La sua festa si celebra il 26 luglio.
Preghiera O Beata Bartolomea, che nella vostra breve carriera mortale riusciste specchio di ogni virtù, segnatamente di angelica purezza e di generosa carità, ora che godete il premio delle vostre opere virtuose, volgete uno sguardo di compassione a me, che in voi confido. Fate vostra la mia afflizione; dite per me una parola a Maria, che fu sempre l'oggetto del vostro amore: ditele che come Signora del Cuore di Gesù, mi ottenga colla sua potente intercessione la grazia che ora tanto desidero, e l'accompagni con una benedizione che mi fortifichi in vita, mi difenda in morte e mi conduca alla beata eternità. Amen. |
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1 Agosto 2020-: Santa Maria Francesca di Gesù (1844-1904)-: Santa Maria Francesca di Gesù (1844-1904)1 Agosto 2020 - Santa Maria Francesca di Gesù Anna Maria Rubatto nacque a Carmagnola, in provincia e diocesi di Torino, il 14 febbraio 1844 e fu battezzata lo stesso giorno nella chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo. Era la penultima degli otto figli di Giovanni Tommaso Rubatto, proprietario di una stalla, e Caterina Pavesio, sarta. Marietta, come la chiamavano in famiglia, rimase orfana di padre a quattro anni. La madre si risposò, ma morì quando lei era ormai diciannovenne. La ragazza, quindi, si trasferì a Torino, in casa di sua sorella maggiore Maddalena, sposata con Giuseppe Tuninetti e senza figli; vi rimase per cinque anni. Marietta era anche molto impegnata in opere di carità: visitava ogni giorno la Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, servendo con letizia gli ammalati e aiutando con liberalità anche i poveri. Ebbe come guide spirituali l’oratoriano padre Felice Carpignano e il canonico Bartolomeo Giuganino. Fu quest’ultimo che, con tutta probabilità, la fece entrare in contatto con don Giovanni Bosco. Il futuro santo ebbe molta stima di lei e apprezzò il suo apporto negli oratori, sia come benefattrice sia come catechista. In seguito entrò a servizio della signora Marianna Scoffone, vedova Costa, come dama di compagnia, pur continuando il suo impegno caritativo. Divenne a tutti gli effetti sua figlia adottiva, tanto da ereditare una pensione vitalizia alla sua morte, dopo la quale ritornò presso sua sorella; ormai aveva trentanove anni. In estate Anna Maria si recava in villeggiatura a Loano, sulla Riviera Ligure. Mentre beneficava dei bagni di mare, cercava anche di aiutare i pescatori e gli ammalati nelle loro necessità e s’interessava dei bambini abbandonati. Ogni giorno andava nella chiesa dei Cappuccini a pregare silenziosamente davanti al Tabernacolo: «Si vede che se l’intendeva col Signore senza parlare», raccontò in seguito una testimone. Un giorno, probabilmente dell’agosto 1883, Anna Maria stava uscendo dalla chiesa dei Cappuccini di Loano, quando passò per un edificio in costruzione in quei paraggi. Un giovanissimo operaio, Francesco Panizza, venne colpito alla testa da una pietra caduta dai ponti della costruzione e perse molto sangue. La donna lo vide, lo curò e gli diede il corrispettivo di due giornate di lavoro perché andasse a casa a riposare. L’edificio era stato voluto da una signorina nubile, Maria Elice, la quale faceva parte di un gruppo di pie donne dedite, sotto la guida dei padri Cappuccini, alle opere di carità e di apostolato, destinate a diventare un nuovo Istituto religioso. Fu proprio un Cappuccino, padre Angelico da Sestri Ponente, che invitò Anna Maria a diventarne la superiora. La sua opera si diffuse molto presto non solo in Liguria, ma anche nell’America Latina. Dal 1892 madre Francesca varcò ben quattro volte l’Oceano, con lunghe soste per erigere case in Uruguay e in Argentina. Il 16 gennaio 1899 compì la sua professione perpetua, insieme ad altre nove sorelle. Nello stesso anno, accompagnò personalmente sei giovani suore alla missione di San Giuseppe della Provvidenza ad Alto Alegre, nella regione brasiliana del Maranhão, retta dai padri Cappuccini. Due anni dopo, il 22 marzo 1901, un telegramma portò una notizia dolorosa: le suore e una novizia brasiliana, quattro frati Cappuccini, due Terziari francescani e oltre 250 fedeli erano stati massacrati dagli indios. Il fatto era accaduto il 13 marzo. Madre Francesca reagì inizialmente rimpiangendo di non aver condiviso la sorte delle sue figlie, ma si sottomise presto alla volontà di Dio e incoraggiò le altre suore a fare altrettanto. Continuò quindi a viaggiare tra l’Italia e l’America del Sud, coadiuvata dalla sua vicaria madre Angelica. Nel 1902 madre Francesca partì per l’America per quella che avrebbe dovuto essere una visita di qualche mese, ma che si protrasse invece per due anni. Nel maggio 1904, mentre si trovava a Montevideo, fu costretta a letto per un’infezione interna, trascurata per essersi occupata delle varie case fondate e in fondazione: fu per tutti esempio di forza cristiana e di piena rassegnazione. Un’operazione chirurgica non valse a salvarla: così, tre giorni dopo aver ricevuto l’Unzione degli Infermi e gli ultimi sacramenti, madre Francesca morì il 6 agosto 1904, compianta specialmente dagli ammalati e dai poveri di Montevideo, oltre che dalle sue Cappuccine. La sua salma fu inizialmente sepolta nel cimitero di La Teja a Montevideo: come aveva desiderato nel suo testamento spirituale, era stata posta in mezzo ai poveri. Nel 1914 venne traslata nella chiesetta di Sant’Antonio di Padova a Montevideo, da lei stessa voluta, a sinistra dell’altare maggiore. Attualmente i suoi resti sono venerati sotto l’altare maggiore della stessa chiesa, diventata Santuario diocesano il 9 settembre 2000.
Dall’omelia di Papa Giovanni Paolo II alla Beatificazione (10 ottobre 1993)
“La Chiesa saluta te, SUOR MARIA FRANCESCA DI GESU’, Fondatrice delle Suore Terziarie Cappuccine di Loano, che hai fatto della tua esistenza un continuo servizio agli ultimi, testimoniando lo speciale amore che Dio ha per i piccoli e gli umili.
Seguendo fedelmente le orme di Francesco, l’innamorato della povertà evangelica, hai imparato non solo a servire i poveri, ma a farti povera tu stessa e hai indicato alle tue figlie spirituali questa speciale via di evangelizzazione. Con la crescita dell’Istituto, questa iniziale intuizione è diventata profondo slancio missionario che ha condotto te e la tua opera in America Latina, dove alcune tue figlie spirituali hanno suggellato col sacrificio della vita quel servizio ai poveri che costituisce il carisma affidato alla tua Congregazione a vantaggio dell’intera Chiesa. Oggi la salutiamo come la prima BEATA dell’URUGUAY. Continua la tua profetica testimonianza della carità ancora oggi nei molteplici campi di apostolato in cui opera la Congregazione, contribuendo a far giungere ad ogni uomo, in particolare ai sofferenti e agli abbandonati, l’invito universale al banchetto delle nozze celesti (cf MT 22,9)”. |
2 Agosto 2020 |