Il bene a volte ha un solo difetto: è difficile da raccontare. Troppo alto il rischio di scivolare nella retorica e nella banalità. «Per una volta, almeno, non dobbiamo avere paura delle parole: mia sorella ha compiuto un atto di eroismo. Il suo è stato un martirio», dice Luigi, il fratello di Eleonora Cantamessa, la ginecologa uccisa la sera di domenica 8 settembre mentre cercava di soccorrere Kumar Baldev, un indiano pestato da alcuni connazionali. A ucciderla il fratello di Baldev, Vicky Vicky, 25 anni, ora in carcere, che con l’auto è piombato addosso alla dottoressa uccidendola sul colpo. Al primo piano di piazza Cavour 4 a Trescore Balneario (Bg), dove abitava Eleonora, è un pellegrinaggio continuo di gente. Sul tavolo del soggiorno, accanto alla foto di lei che stringe nelle braccia un neonato, tanti mazzi di fiori bianchi accompagnati da bigliettini, molti dei quali inviati da sconosciuti. Un messaggio è di consolazione per i genitori: «Il mondo», c’è scritto, «vi è debitore per questo grande esempio di amore e di fede».
Arriva una delle sue pazienti-amiche: «La Ele», racconta, «era fatta così: disponibile e generosa. Se la chiamavi alle due di notte rispondeva». Squilla il telefono, è una signora di Bologna: «Vorrei venire ad abbracciarvi e avere anch’io un po’ della forza della mamma». Davvero, come ha scritto san Tommaso, il bene è diffusivum sui, è contagioso, si diffonde. «Venga, si accomodi sul balcone. A Eleonora piaceva tanto sedersi qui. Domenica pomeriggio aveva fumato la sua ultima sigaretta e avevamo chiacchierato insieme», dice la signora Mariella 65 anni, insegnante elementare in pensione. Molti suoi ex alunni vengono a darle conforto: «Coraggio, maestra». Sul tavolino, c’è ancora il posacenere. Al collo, Mariella porta una catenina d’argento con una piccola campanella: «Eleonora la indossava quando è morta. Lo sente questo suono? Me l’ha mostrata e mi ha detto: “Mamma, è il suono che serve per chiamare gli angeli. E se lo indossano donne in attesa, anche il bimbo che portano in grembo lo ascolta”. E io le ho risposto: “Ma che bisogno hai, tu, di chiamare gli angeli?”. Ora capisco, forse dovevano accompagnarla in cielo».
La serenità nel dolore è quasi un ossimoro, un controsenso. Eppure è esattamente quello che traspare dai gesti e dalle parole della signora Mariella: «Mia figlia ha dato la vita per uno che, secondo molti, non valeva niente», afferma. «Spero che chi l’ha uccisa cambi vita. È ancora giovane, ce la può fare. La possibilità di riscatto non è preclusa a nessuno». Il pensiero torna a quella sera maledetta. «Stavo recitando il rosario, poi ho avuto un presentimento. Se n’è andata mentre pregavo. Ogni sera lo faccio per i miei figli, i poveri, i tanti disperati. Chi ha ucciso Eleonora è un disgraziato come me, in fondo. Lui per il male che ha commesso, io per il dolore di questa tragedia assurda. Ha lasciato quattro figli orfani, ora bisognerà pensare anche a loro. Mia figlia nel suo ambulatorio accoglieva tutti, comprese tante donne straniere che non avevano da pagare». Affiorano tanti ricordi ora a mamma Mariella, ricordi dei tanti gesti di bontà della figlia che fino a ieri custodiva silenziosamente nel cuore e ora sente il bisogno di raccontare come segno di speranza e promessa di consolazione per sé. «Una volta», dice, «arrivò nel suo studio una donna indiana e la visitò. Era poverissima, addosso aveva solo biancheria strappata. Eleonora, con delicatezza, prese i pochi spiccioli che le diede per non umiliarla. Poi, qualche giorno dopo, trovò il modo di farle avere dei soldi per comprarsi i vestiti».
La testimonianza di Mariella si alterna a quelle delle persone che arrivano. Ognuno, oltre al cordoglio, ha un ricordo buono di Eleonora da portare: un gesto, una carezza, una parola d’affetto. Continua la mamma: «Una volta, anni fa, stavamo partendo per le vacanze ed Eleonora tornò indietro per dare i soldi a una ragazza di strada che doveva darli al suo aguzzino per evitare di essere picchiata. È la prima volta che racconto queste cose, non l’ho mai fatto prima. Ma ora cosa resta? La speranza che mia figlia sia un angelo tra gli altri angeli e che il bene che ha fatto, la sua generosità discreta, non vengano dimenticati. Sono andata in Tv, ho rilasciato interviste proprio per questo».
Papà Silvano è uomo di poche parole: «Odio? Ma che odio?», chiede quando si parla dell’assassino di sua figlia. Preferisce ricordare i momenti di vacanza passati insieme a Eleonora: «L’estate scorsa a Creta, due anni fa nel Salento. A lei piaceva molto il mare».
Sul tavolo del soggiorno, accanto ai lumini e alla foto sorridente di Eleonora, c’è il Vangelo. È aperto sulla pagina della parabola del Buon Samaritano. Gesù la raccontò per rispondere a quel tale che gli aveva chiesto: «Chi è il mio prossimo?». A don Ettore Galbusera, che l’ha letta durante i funerali, sono bastate poche parole: «Per quanto sia difficile parlare dato il dolore del momento, oggi per me è più semplice. Questa è un’omelia già pronunciata, che ha pronunciato la stessa Eleonora, in una notte qualsiasi».
«Il Buon Samaritano», spiega la signora Mariella, «ha pagato per curare l’uomo ferito in mezzo alla strada, mia figlia ha pagato con la vita. Come Cristo. È morta in mezzo a quei disgraziati animati solo dalla furia cieca dell’odio e della violenza». Luigi prende in mano il cellulare di Eleonora, il vetro dello schermo è rotto ma funziona ancora. In memoria, c’è ancora l’ultima telefonata al 112. «È morta così», spiega, «con una mano teneva quella del ferito, con l’altra chiamava per coordinare i soccorsi». Luca, l’amico che l’accompagnava quella sera, le aveva detto che scendere era pericoloso. «Fermati», le aveva detto con tono perentorio Eleonora. «C’è un ferito a terra, sono un medico, non posso passare oltre». Non ha fatto nemmeno in tempo a fermare l’auto che lei si era già precipitata in strada. «State calmi, sono un medico», gridava. «Io non avrei avuto il coraggio di farlo», chiosa la madre. L’insegnamento di Eleonora, quello di non voltarsi mai dall’altra parte, ora continuerà attraverso una Fondazione per aiutare chi ha difficoltà ad avere un figlio. «È un modo concreto per favorire le nascite», spiega il fratello Luigi, «la nostra idea è quella di sostenere le cure di queste donne presso strutture mediche specializzate. Speriamo di partire già dal prossimo anno».
Anche i rappresentanti della comunità indiana di Milano e Bergamo si sono stretti attorno alla famiglia. «Nella vita», ha scritto Eleonora in una lettera, «non si può sempre correre. Ogni tanto bisogna fermarsi».
Quando si entra in una chiesa o cappella delle Missionarie della Carità, non si può non notare il crocefisso che sovrasta l’altare, al fianco del quale si trova la scritta: «I thirst» («Ho sete»): qui sta la sintesi della vita e delle opere di Santa Teresa di Calcutta, canonizzata il 4 settembre scorso da Papa Francesco in piazza San Pietro, alla presenza di 120 mila fedeli e pellegrini.
Donna di fede, di speranza, di carità, di indicibile coraggio, Madre Teresa aveva una spiritualità cristocentrica ed eucaristica. Usava dire: «Io non posso immaginare neanche un istante della mia vita senza Gesù. Il premio più grande per me è amare Gesù e servirlo nei poveri». Questa suora, dall’abito indiano e dai sandali francescani, estranea a nessuno, credenti, non credenti, cattolici, non cattolici, si fece apprezzare e stimare in India, dove i seguaci di Cristo sono la minoranza.
Nata il 26 agosto 1910 a Skopje (Macedonia) da benestante famiglia albanese, Agnes crebbe in una tribolata e dolorosa terra, dove convivevano cristiani, musulmani, ortodossi; proprio per tale ragione non le fu difficile operare in India, uno Stato dalle lontane tradizioni di tollenza-intolleranza religiosa, a seconda dei periodi storici. Madre Teresa definiva così la sua identità: «Di sangue sono albanese. Ho la cittadinanza indiana. Sono una monaca cattolica. Per vocazione appartengo al mondo intero. Nel cuore sono totalmente di Gesù».
Buona parte della popolazione albanese, di origine illirica, nonostante abbia subito la sopraffazione ottomana, è riuscita a sopravvivere con le sue tradizioni e con la sua profonda fede, che affonda le radici in san Paolo: «Tanto che da Gerusalemme e paesi circonvicini, fino alla Dalmazia ho portato a compimento la missione di predicare il Vangelo di Cristo» (Rm 15,19). Cultura, lingua e letteratura dell’Albania hanno resistito proprio grazie al Cristianesimo. Tuttavia la ferocia del dittatore comunista Enver Hoxha vieterà, con decreto statale (13 novembre 1967), qualsiasi religione, distruggendo da subito 268 chiese.
Fino all’avvento del tiranno, la famiglia di Madre Teresa elargiva carità e bene comune a piene mani. Preghiera e Santo Rosario erano il collante della famiglia. Rivolgendosi ai lettori della rivista «Drita», nel giugno del 1979, Madre Teresa disse ad un mondo occidentale sempre più secolarizzato e materialista: «Quando penso a mia mamma e a mio papà, mi viene sempre in mente quando alla sera eravamo tutti insieme a pregare […] Vi posso dare un solo consiglio: che al più presto torniate a pregare insieme, perché la famiglia che non prega insieme non può vivere insieme».
A 18 anni Agnes entra nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto: partita nel 1928 per l’Irlanda, un anno dopo è già in India. Nel 1931 emette i primi voti, prendendo il nuovo nome di suor Maria Teresa del Bambin Gesù, perché molto devota della mistica carmelitana santa Teresina di Lisieux. Più tardi, come il carmelitano san Giovanni della Croce, sperimenterà la «notte oscura», quando la sua mistica anima proverà il silenzio del Signore.
Per circa vent’anni insegnò storia e geografia alle giovani di famiglie facoltose frequentanti il collegio delle Suore di Loreto a Entally (zona orientale di Calcutta). Poi arrivò la vocazione nella vocazione: era il 10 settembre 1946 quando avvertì, mentre si recava in treno ad un corso di esercizi spirituali a Darjeeling, la voce di Cristo che la chiamava a vivere in mezzo agli ultimi degli ultimi. Lei stessa, che desiderò vivere come autentica sposa di Cristo, riporterà le parole della «Voce» nella sua corrispondenza con i superiori: «Voglio Missionarie indiane Suore della Carità, che siano il mio fuoco d’amore fra i più poveri, gli ammalati, i moribondi, i bambini di strada. Sono i poveri che devi condurre a Me, e le sorelle che offrissero la loro vita come vittime del Mio amore porterebbero a Me queste anime».
Lascia, non senza difficoltà, il prestigioso convento dopo quasi vent’anni di permanenza e da sola si incammina, con un sari bianco (colore del lutto in India) bordato di azzurro (colore mariano), per gli slums di Calcutta in cerca dei dimenticati, dei paria, dei moribondi, che arriva a raccogliere, circondati dai topi, persino nelle fogne. A poco a pocosi aggregano alcune sue ex-allieve e altre ragazze ancora, per poi giungere al riconoscimento diocesano della sua congregazione: 7 ottobre 1950. E mentre, anno dopo anno, l’Istituto delle Suore della Carità cresce in tutto il mondo, la famiglia Bojaxhiu viene espropriata di tutti i suoi beni dal governo di Hoxha, e, rea del suo credo religioso, viene aspramente perseguitata. Dirà Madre Teresa, alla quale sarà vietato di rivedere i suoi cari: «La sofferenza ci aiuta a unirci al Signore, alle sue sofferenze» in un’azione redentiva.
Parole toccanti e forti userà in riferimento al valore della famiglia, primo ambiente, nell’età contemporanea, di povertà: «Qualche volta dovremmo farci alcune domande per sapere orientare meglio le nostre azioni […] Conosco per prima cosa, i poveri della mia famiglia, della mia casa, quelli che vivono vicino a me: persone che sono povere, però non per mancanza di pane?».
La «piccola matita di Dio», per usare la sua autodefinizione, è più volte intervenuta pubblicamente e con forza, anche di fronte a uomini politici e di Stato sulla condanna dell’aborto e dei metodi di contraccezione artificiali. Ha «fatto sentire la sua voce ai potenti della terra» ha detto, infatti, Papa Francesco nell’omelia della canonizzazione. Come non ricordare, allora, il memorabile discorso che tenne alla consegna del Premio Nobel per la Pace del 17 ottobre 1979 ad Oslo? Affermando di accettare il Premio esclusivamente a nome dei poveri, sorprese tutti per l’attacco durissimo all’aborto, che presentò come la principale minaccia alla pace nel mondo. Le sue parole risuonano più attuali che mai: «Sento che oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa (…). Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te e a te di uccidere me». Sosteneva che la vita del bambino non nato è un dono di Dio, il maggior dono che Dio possa fare alla famiglia. «Oggi ci sono molti Paesi che permettono l’aborto, la sterilizzazione e altri mezzi per evitare o distruggere la vita fin dal suo inizio. Questo è un segno ovvio che tali Paesi sono i più poveri tra i poveri, poiché non hanno il coraggio di accettare nemmeno una vita in più. La vita del bambino non ancora nato, come la vita dei poveri che troviamo per le strade di Calcutta, di Roma o di altre parti del mondo, la vita dei bambini e degli adulti è sempre la stessa vita. È la nostra vita. È il dono che viene da Dio. […] Ogni esistenza è la vita di Dio in noi. Anche il bambino non nato ha la vita divina in sé». Ancora alla cerimonia dei premi Nobel, alla domanda che le venne posta: «Che cosa possiamo fare per promuovere la pace mondiale?», ella rispose senza esitare: «Andate a casa e amate le vostre famiglie». Si addormentò nel Signore il 5 settembre (giorno della sua memoria liturgica) 1997 con un rosario fra le mani. Questa «goccia di acqua pulita», questa Marta e Maria inscindibili, ha lasciato in eredità un paio di sandali, due sari, una borsa di tela, due-tre quaderni di appunti, un libro di preghiere, un rosario, un golf di lana e…una miniera spirituale di inestimabile valore, alla quale attingere a profusione in questi nostri confusi giorni, spesso dimentichi della presenza di Dio.
Omelia di Papa Francesco per la Canonizzazione – 4 Settembre 2016
“Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. Si è impegnata in difesa della vita proclamando incessantemente che «chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo, il più misero». Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! - della povertà creata da loro stessi. La misericordia è stata per lei il “sale” che dava sapore a ogni sua opera, e la “luce” che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure lacrime per piangere la loro povertà e sofferenza.
La sua missione nelle periferie delle città e nelle periferie esistenziali permane ai nostri giorni come testimonianza eloquente della vicinanza di Dio ai più poveri tra i poveri. Oggi consegno questa emblematica figura di donna e di consacrata a tutto il mondo del volontariato: lei sia il vostro modello di santità! Penso che, forse, avremo un po’ di difficoltà nel chiamarla Santa Teresa: la sua santità è tanto vicina a noi, tanto tenera e feconda che spontaneamente continueremo a dirle “Madre Teresa”. Questa instancabile operatrice di misericordia ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione. Madre Teresa amava dire: «Forse non parlo la loro lingua, ma posso sorridere». Portiamo nel cuore il suo sorriso e doniamolo a quanti incontriamo nel nostro cammino, specialmente a quanti soffrono. Apriremo così orizzonti di gioia e di speranza a tanta umanità sfiduciata e bisognosa di comprensione e di tenerezza.
Madre Teresa di Calcutta
Come si ama Dio
Tutti desideriamo amare Dio. Ma come si fa?
Gesù si convertì in pane di vita per saziare la nostra fame.
Quindi si fece ignudo, sfrattato, abbandonato, lebbroso, drogato, prostituta, di modo che tutti noi, tanto voi come io, potessimo saziare la sua fame con il nostro amore.
Sicuramente non vi capiterà di vedere nei vostri paesi malati rosi da vermi,
ma ci sono vermi che tarlano i cuori.
Mi commosse moltissimo il gesto di una bambina piccola che decise di mandarmi i soldi della sua prima comunione invece di tenerseli per comprare un vestito per quella festa.
In Africa ci sono molte migliaia di persone che muoiono di fame a causa della siccità.
Mi imbattei in strada in una bambina di cinque o sei anni e le diedi un pezzo di pane.
Cominciò a mangiarlo briciola per briciola, dicendo che avrebbe avuto ancora fame, una volta terminato il pane.
Lei aveva già fatto esperienza di cosa è la fame, qualcosa che né io né voi ancora sappiamo cos'è.
Fondatore della Congregazione delle Suore Ancelle della Divina Provvidenza
«Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,40). L’invito di Cristo a trovare il suo volto in coloro che vengono socialmente catalogati tra gli ultimi diventò per il Venerabile Pasquale Uva un programma di vita. In conformità alla divina volontà del Redentore, animato dalla preghiera incessante, si prodigò con carità operosa nell’alleviare il dramma di quanti, involontariamente, erano incapaci a vivere una dignitosa esistenza umana.
Il Venerabile nacque a Bisceglie (Bari) il 10 agosto 1883, in un’agiata famiglia di agricoltori. Secondogenito di nove figli, ricevette il battesimo due giorni dopo la nascita e la cresima all’età di 3 anni. Il contesto familiare, permeato di religiosità e di operosa attenzione verso i più indigenti, segnò profondamente l’infanzia del Venerabile , il quale fin da piccolo manifestò una profonda sensibilità ed un’acuta intelligenza. Per motivi di studio, nel 1895, entrò nel seminario diocesano di Bisceglie, anche unica scuola media della cittadina. Nel 1897 passò al seminario di Benevento per i due anni di ginnasio, durante i quali maturò la vocazione al sacerdozio, che seguì con impegno e coerenza nonostante una iniziale avversione da parte dei genitori. Conseguita la licenza liceale, si trasferì a Roma presso l’Almo Collegio Capranica e frequentò i corsi teologici in Gregoriana. Ordinato sacerdote il 15 agosto 1906, conseguì il dottorato in teologia nel 1907 e in diritto canonico l’anno successivo.
Ritornato a Bisceglie, fu dapprima coadiutore nella parrocchia di Sant’Adoeno e dal novembre 1911 curato di S. Agostino di cui, nel 1919, divenne primo parroco. Le gravi situazioni di degrado umano e sociale che il Venerabile incontrò durante la sua attività, lo indussero ad avviare una serie di iniziative in favore delle categorie più indifese. A tale scopo, oltre ad incrementare e rendere più incisiva la pastorale ordinaria, istituì scuole elementari per alunni di ambo i sessi, doposcuola serale per i giovani lavoratori e scuola di ricamo e cucito per le ragazze. Cominciò così a prendere forma quell’ispirazione che don Pasquale aveva avuto da seminarista nel leggere la vita di S. Giuseppe Benedetto Cottolengo, cioè costruire una casa per gli emarginati della società. Il 3 ottobre 1921, con la posa della prima pietra di un piccolo edificio presso la chiesa di Sant’Agostino, i poveri e gli esclusi, principalmente i malati di mente, trovarono amorevole cura e adeguata assistenza. Meno di un anno dopo, il 10 agosto 1922, otto giovani catechiste si unirono al Venerabile per l’assistenza dei ricoverati, dando vita alla futura Congregazione delle Ancelle della Divina Provvidenza, che otterrà l’approvazione diocesana nel 1926 e quella pontificia nel 1944. Il Venerabile, con fede limpida e coraggiosa speranza, si chinò in modo particolare sui malati di mente e sugli emarginati, alleviando le loro sofferenze e quelle delle loro famiglie. Testimone dell’amore di Cristo, con intelligente carità e grande spirito di sacrificio seppe animare quanti lo seguirono e lo collaborarono in tutte le sue iniziative. Fronteggiò con pazienza e serenità gli ostacoli e i rifiuti, traendo alimento dall’Eucarestia quotidiana e da un’intensa vita interiore. Questa attenzione verso le persone affette da malattie mentali, indusse il Venerabile a realizzare delle strutture adeguate, costruendo, nel corso degli anni, i padiglioni dell’Istituto Ortofrenico e dell’Ospedale Psichiatrico. Con la Congregazione delle Ancelle crebbero anche le strutture ospedaliere della Casa della Divina Provvidenza. Il 22 luglio del 1945 fu posta la prima pietra del complesso psichiatrico e ortofrenico in Foggia, seguita dalla costruzione degli ospedali di Potenza nel 1948 e di Guidonia (Roma) nel 1953. La salute di Don Uva, già minata dal 1952, peggiorò precipitosamente a motivo di un cancro prostatico con metastasi diffusa alla colonna vertebrale. Il 13 settembre 1955, alle ore 14.00, dopo aver ricevuto l’Unzione degli infermi e l’Eucaristia sotto forma di viatico, si spense raccomandando per l’ultima volta alle suore: «Amate gli ammalati». Il successivo 16 settembre una grande folla, partecipando ai funerali celebrati nella basilica di S. Giuseppe, da lui fatta erigere, testimoniò il compianto e l’ammirazione per le virtù che avevano illuminato la sua vita spesa in favore degli ultimi. (Dal Decreto sulle virtù di don Pasquale Uva della Congregazione per le Cause dei Santi del 10.5.2012)
Abbiamo informazioni abbondanti e di grande interesse sul culto che Cosma e Damiano hanno avuto già poco tempo dopo la morte: dedicazione di chiese e monasteri a Costantinopoli, in Asia Minore, in Bulgaria, in Grecia, a Gerusalemme. La loro fama è giunta rapida in Occidente, partendo da Roma, con l’oratorio dedicato loro da papa Simmaco (498- 514) e con la basilica voluta da Felice IV (526-530). I loro due nomi, poi, sono stati pronunciati infinite volte, sotto tutti i cieli, ogni giorno a partire dal VI secolo, nel Canone della Messa, che dopo gli Apostoli ricorda dodici martiri, chiudendo l’elenco appunto con i loro nomi: Cosma e Damiano.
Poco si sa invece della loro vita. Li ricorda il Martirologio Romano, ispirandosi a una narrazione che vuole Cosma e Damiano nati in Arabia. Sono fratelli, e cristiani. Per invito dello Spirito Santo, si dedicano alla cura dei malati, dopo aver studiato l’arte medica in Siria. Ma sono medici speciali, appunto in virtù della loro missione: non si fanno pagare. Di qui il soprannome di anàrgiri (termine greco che significa “senza argento”, “senza denaro”). Solo una volta, si narra – e contro la volontà di Cosma –, Damiano ha accettato un compenso da una donna che ha guarito: tre uova.
Questa attenzione ai malati è pure uno strumento efficacissimo di apostolato cristiano. E appunto l’opera di proselitismo costa la vita ai due fratelli, martirizzati insieme con altri cristiani. In un anno imprecisato del regno dell’imperatore Diocleziano (tra il 284 e il 305, forse nel 303), il governatore romano li sottopone a tortura e poi li fa decapitare. Questo avviene a Ciro, città vicina ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, in Turchia) dove i martiri vengono sepolti. Un’altra narrazione dice che furono uccisi a Egea di Cilicia, in Asia Minore, per ordine del governatore Lisia, e poi traslati a Ciro. Ma abbiamo la voce di Teodoreto, vescovo appunto di Ciro, uno dei grandi protagonisti delle battaglie dottrinali nel V secolo: e questa voce parla di Cosma e Damiano, "illustri atleti e generosi martiri", con ammirazione e affetto di concittadino.
Il culto per i due guaritori, passato dall’Oriente all’Europa, "si mantenne straordinariamente vivo fino a tutto il Rinascimento, dando luogo a un’iconografia tra le più ricche dell’Occidente, specie in Italia, Francia e Germania" (Maria Letizia Casanova). A più di mille anni dalla loro morte, si dà il nome di uno di loro a quello che poi i fiorentini chiameranno padre della patria: Cosimo de’ Medici il Vecchio. E la casata chiama a illustrare la vita dei due santi guaritori artisti come il Beato Angelico, Filippo Lippi e Sandro Botticelli.
Preghiera
O coraggiosi Martiri, conoscendo noi i singolari carismi, di cui vi arricchì il buon Gesù per il bene spirituale e temporale dei vostri fratelli, nutriamo piena fiducia di ottenere, per vostro mezzo, la grazia che vi domandiamo. Il Divino Redentore, che attraversò la Palestina beneficando tutti e sanando gli infermi, non potrà certo rigettare i nostri gemiti, se le nostre preghiere saranno avvalorate dalla vostra intercessione. Supplicate il Signore per l’ammalato che a voi raccomandiamo, e mostrate ancora una volta che siete i generosi benefattori dell’umanità sofferente. Gloria al Padre…
Il Beato Luigi Maria Monti, è una ‘splendida figura di consacrato laico, di religioso, di apostolo della carità, che l’ardente amore per la Vergine Immacolata condusse a servire in modo eroico Cristo nei giovani, nei poveri e nei sofferenti’ (Giovanni Paolo II).
Egli nacque a Bovisio Masciago, nell’alto milanese, il 24 luglio 1825. In gioventù decise di consacrarsi a Dio, e cominciò a radunare attorno a sé alcuni coetanei, artigiani e contadini, realizzando nella sua bottega di falegname un oratorio serale per formare una comunità di fede, chiamata dalla gente ‘La Compagnia dei Frati’. Essa divenne fermento spirituale per l’azione benefica che svolse in favore dei poveri e dei malati del paese. Luigi lavorò poi da apprendista falegname a Cesano Mademo (MI) ove incontrò don Luigi Dossi, che divenne sua guida per un lungo tempo della sua vita.
La ‘Compagnia’ fu denunciata alle autorità austriache, con calunnie di cospirazione politica. Il Lombardo-Veneto era allora soggetto all’Austria. Il Monti e quindici suoi compagni furono incarcerati per 72 giorni a Desio. Prosciolti per infondatezza dell’accusa, il Monti si impegnò ancor di più, come laico consacrato, a dedicare il suo tempo alla gioventù.
Nel 1852 entrò nella Congregazione dei Figli di Maria, fondata dal Beato Lodovico Pavoni per educare la gioventù bisognosa; si dedicò anche allo studio della piccola chirurgia e della farmacia e nel 1855 si mise a servizio dei malati di colera come infermiere volontario nel lazzaretto di Brescia, dando prova di eroica carità.
Nel 1857, per mandato del suo direttore spirituale si recò a Roma, nell’ospedale di Santo Spirito, per fondare una Congregazione rivolta all’assistenza ospedaliera ed all’educazione dei ragazzi bisognosi. Questa si diffuse prima in Roma e poi nell’alto Lazio: Orte, Civita Castellana, Nepi e Capranica.
Il Monti, infermiere, non smise di studiare e di apprendere l’arte medica. A completamento della sua esperienza e dei suoi studi, ottenne dall’Università di Roma il titolo accademico di “flebotomo”, con facoltà di interventi anche in campo odontoiatrico.
Nell’ospedale civile di Orte (VT), operò per circa dieci anni lasciando una testimonianza di donazione di sé e di alta professionalità, manifestando doti straordinarie di organizzatore, in favore di ogni ceto sociale.
Nel 1886 si riportò a Saronno (VA), in Lombardia, ove sviluppò la sua vocazione giovanile di educatore: accolse orfani di padre e di madre, e per essi organizzò scuole professionali. La Casa di Saronno divenne un “laboratorio educativo”, nel quale ogni ragazzo poteva crescere e sviluppare le proprie capacità, fino a raggiungere la maturità e l’autonomia personale, per ben inserirsi nella società.
Il Beato Luigi Monti spese le sue ultime energie umane e spirituali nel formare i suoi religiosi più giovani, perché acquisissero il suo spirito e le competenze atte a rispondere al bisogno profondo dell’uomo in difficoltà di sentirsi accolto e curato.
Trascorse i suoi ultimi giorni di vita a Saronno, dove si spense il 1° ottobre 1900. Qui sono conservate le sue spoglie mortali, nell’istituto che ha preso da lui il nome. Per tutta la sua vita, Luigi Monti fu religioso non sacerdote, chiamato “padre” dai suoi religiosi e dagli orfani, proprio per il grande ed accogliente senso di paternità che incarnava e rendeva visibile nella persona e nell’agire.