DISCERNIMENTO AL DIACONATO

La vocazione al diaconato proviene da Dio come avvenimento di grazia che interpella il singolo e, al tempo stesso, la comunità ecclesiale alla quale la vocazione è ordinata. Il discernimento è il processo mediante il quale l’uno e l’altra vagliano i segni di una possibile chiamata e ne riconoscono l’origine. Il discernimento porta a comprendere se la chiamata è riferibile alla volontà di Dio per il cammino di santità del singolo e per il bene della comunità ecclesiale o se, al contrario, nasce da aspirazioni e motivazioni estranee al piano divino.

E’ subito evidente quanto grave sia la responsabilità del discernimento e quanto delicato il suo processo: grave la responsabilità di distinguere quanto si iscrive nel piano di Dio da quanto promana da pretese umane, delicato il processo di lettura ed interpretazione dei segni, di per sé ambigui se presi singolarmente, che vanno colti e composti con intuito, spirito di verità e fiducia.

Possiamo quindi dire che la vocazione, che è dono dello Spirito, si rende riconoscibile soltanto da chi si lascia guidare dallo Spirito di Dio.

 

  1. I soggetti del discernimento

 

Il primo soggetto del discernimento è proprio colui che si apre al dialogo con Dio e si interroga sulla prospettiva della propria vita. Egli è al tempo stesso soggetto ed oggetto del proprio discernimento. L’autodiscernimento è una componente essenziale dell’intero processo perché attinge alla sfera più intima della persona.

L’altro soggetto del discernimento è la Chiesa: sono, infatti, i ministri della Chiesa lo strumento attraverso il quale l’intervento di Dio viene riconosciuto e portato a compimento mediante l’imposizione delle mani. In ultima istanza il discernimento ecclesiale compete al Vescovo, come capo e principio di unità della Chiesa locale, tanto più che a lui spetta imporre le mani ed a lui il ministero diaconale è particolarmente correlato. Ma più in generale il discernimento e la cura delle vocazioni sono compito di tutta la Chiesa: essa, costituita nel mondo come comunità di chiamati, è a sua volta strumento della chiamata di Dio.

Nel discernimento interviene quindi, e con un ruolo di grande rilievo specie nella fase iniziale, il parroco, anche a nome della comunità che lui guida, la quale pure deve poter riconoscere nella “diaconia di fatto” di alcuni suoi membri le premesse di un possibile servizio ordinato al bene della Chiesa.

Anche il delegato episcopale e le persone che con lui collaborano alla formazione per il diaconato hanno un ruolo determinante nel processo di discernimento, in quanto chiamati a rilevare, specie nella fase iniziale, tutti gli elementi che fanno intravedere i sintomi di una possibile chiamata, per riportarli in sintesi al Vescovo.

Uno specialissimo ruolo fra i soggetti del discernimento, quando l’aspirante diacono è coniugato, spetta a sua moglie. Ella non solo ha una conoscenza del marito  intima e approfondita, ma ha anche il privilegio di condividere con lui il sacramento del Matrimonio, con il quale l’eventuale futuro sacramento dell’Ordine dovrà comporsi, essendo insita nella coniugalità la condivisione dei fini.

È importante notare alcuni aspetti di rilievo nel discernimento vocazionale:

  • la molteplicità di persone chiamate a intervenire in un processo che auspicabilmente si dovrà concludere in tempi non lunghi;
  • la varietà dei segni vocazionali che potrà emergere in rapporto alle diverse angolature attraverso le quali i vari soggetti conoscono l’interessato;
  • la diversità di criteri di giudizio, e talvolta di pregiudizio, con cui quei segni vocazionali di fatto verranno considerati.

Potrebbe nascere, da quanto appena detto, il timore che il discernimento vocazionale sia un’operazione affetta da alta aleatorietà. E così certamente sarebbe se la lettura di una vocazione fosse cosa meramente umana. Sappiamo invece che è lo Spirito di Dio che aiuta a riconoscere quanto lui stesso ha ispirato e che non potrà far mancare la sua luce a chi a lui si affida con retta intenzione.

 

  1. I segni da discernere

 

Quali i segni della chiamata al ministero diaconale?

La chiamata vocazionale genera disposizioni d’animo, pensieri, progetti, intenzioni ed azioni che si manifestano in segni concreti, sia pure con modalità variegate. Focalizziamo l’attenzione sui possibili segni attraverso i quali si esprime una vocazione diaconale.

  • Il servizio. L’ispirazione di fondo è mettere le proprie risorse e il proprio tempo a servizio degli altri, a partire da familiari e amici, ma includendo, in cerchi via via più larghi, tutti coloro che rientrano in un rapporto di prossimità, dal quale nessuno ha motivo di rimanere escluso. Questo atteggiamento riguarda non singoli aspetti, ma tutto ciò che serve alla crescita spirituale, e prima ancora umana, di ogni persona e si manifesta con generosa disponibilità e con continuità.

Questo spirito di servizio non può non rendersi visibile in atteggiamenti e gesti concreti, in segni appunto da cogliere e discernere per rendersi conto se sono ascrivibili a una chiamata al servizio diaconale.

  • Il senso ecclesiale. La Chiesa deve essere vista con affetto filiale, come madre nella fede, come arca di salvezza, come ambiente rigenerante, come propria famiglia, con pieno senso d’appartenenza. Questo non vuol dire non potere mettere in evidenza lati deboli e incongruenze o stigmatizzare fariseismi e controtestimonianze di singoli fedeli o di gruppi, ma nel far questo dovrà essere evidente il desiderio di una maggiore perfezione e la disponibilità a impegnarsi a sostenere le debolezze altrui.

Un tale senso ecclesiale si manifesta in comportamenti di partecipazione, attaccamento, condivisione, apostolato, impegno e affettuosa obbedienza verso coloro che nella Chiesa hanno responsabilità pastorali. Ma molta attenzione dovrà essere fatta ad alcuni possibili indizi, purtroppo alquanto ricorrenti fra gli assidui frequentatori di sacrestie, che certamente non collimano con la vocazione al diaconato: il volersi mettere in luce, il credere che il proprio gruppo o movimento sia modello autentico di Chiesa, l’indulgere a critiche non sempre bonarie su altri fedeli, il cercare la propria affermazione perseguendo il diaconato come status sociale.

  • La capacità di relazione. Fondata su una naturale disposizione all’ascolto, al dialogo, alla comunicazione, si dovrà riconoscere la dote di ispirare fiducia, di proporsi in modo delicato, di porsi sul medesimo piano dell’altro, di accedere con naturalezza ad un livello non superficiale di conoscenza, di cogliere il senso di quanto l’altro intende esprimere, di non fermarsi di fronte alle iniziali difficoltà. Questa apertura alla relazione è una dote di grande importanza per il ruolo di animazione che il diacono dovrà assumere nei confronti dei fedeli e per il suo configurarsi come “cerniera di comunione” nella comunità in cui vive. Cose che certo non risulterebbero connaturali ad una persona che, al contrario, si presentasse come introversa, timida, tendenzialmente solitaria, taciturna o manifestasse atteggiamenti rigidi o incutesse qualche soggezione nell’avvicinarla.

La capacità di relazione dovrà riguardare sia il rapporto con singole persone, sia quello con una comunità riunita, alla quale l’aspirante dovrà potersi rivolgere con semplicità e naturalezza, superando l’eventuale iniziale imbarazzo di parlare in pubblico. Il diacono infatti avrà certamente molte occasioni, durante il proprio ministero, di rivolgersi a una molteplicità di persone riunite, vuoi in contesto liturgico, vuoi in incontri con altre finalità.

  • Lo spirito di preghiera. Attraverso la preghiera si esprime il dialogo di lode, di meraviglia, di gratitudine, di confidenza, di domanda, di affidamento dell’uomo a Dio. E il diacono è proprio un animatore di preghiera nei vari contesti in cui viene a trovarsi: quello familiare  come quello dei gruppi ecclesiali, quello della cerchia di amici come quello dei colleghi di lavoro. Chi è chiamato al diaconato dovrà quindi sentire una naturale disposizione alla preghiera, il desiderio di trovare la verità del proprio essere nel rivolgersi a Dio in atteggiamento di ascolto e dialogo.

Segni di questo saranno la semplicità, immediatezza e freschezza nel partecipare alla preghiera della comunità con modi, espressioni ed intenzioni che nascono dalla realtà delle situazioni e dei momenti celebrativi.

  • La capacità di guidare. Se da un lato chi inizia il cammino formativo verso il diaconato dovrà avere una sincera docilità e disponibilità alla collaborazione, dall’altro non dovrà mancare di maturità di giudizio, di attenzione a cogliere le esigenze che nascono dalle diverse situazioni, di inventiva per immaginare azioni efficaci, di spirito d’iniziativa, di capacità di coinvolgere altre persone e di stimolarle verso itinerari di crescita e di impegno. La docilità nel lasciarsi guidare non deve escludere la capacità, a sua volta, di animare spiritualmente altre persone, di guidarle in modo personale, originale e stimolante, senza cioè necessariamente ripercorrere il già fatto, ma trovando nella novità del vivere l’originalità della proposta. Si deve quindi riconoscere in chi si avvia verso il diaconato una traccia di quello spirito d’iniziativa che non potrà mancare al futuro diacono: questi dovrà avere capacità progettuale e di guida, nell’ambito – certo – del piano pastorale della comunità in cui è inserito, non essendo né un “battitore libero” né un mero esecutore di azioni che gli piovono dall’alto.

I segni del servizio, dell’ecclesialità, della capacità di relazione, dello spirito di preghiera e della capacità di guidare dei quali si è parlato sono i principali tratti caratteristici da riconoscere e discernere ai fini della chiamata al diaconato. Ad essi si aggiungono altri requisiti che il Codice di Diritto Canonico, al canone 1029, riporta come segue: “Siano promossi agli ordini soltanto quelli che, per prudente giudizio del Vescovo proprio o del Superiore maggiore competente, tenuto conto di tutte le circostanze, hanno fede integra, sono mossi da retta intenzione, posseggono la scienza debita, godono buona stima, sono di integri costumi e di provate virtù e sono dotati di tutte quelle altre qualità fisiche e psichiche congruenti con l’ordine che deve essere ricevuto”.

Il momento più delicato del discernimento consiste poi nel passare da questi segni e requisiti alla verità delle motivazioni che li sottendono.

 

  1. Criteri di discernimento

 

Per l’ammissione al cammino di formazione al diaconato, il discernimento verte principalmente sulle motivazioni della prospettiva vocazionale, sulle attitudini e potenzialità del soggetto che ad essa si orienta e su eventuali circostanze che potrebbero condizionare o precludere il suo cammino.

Sarà di grande importanza la possibilità di stabilire un dialogo profondo e sincero, attraverso il quale formarsi una visione a tutto tondo del soggetto, da suffragare anche con valutazioni e informazioni di quanti lo conoscono bene nei vari ambienti in cui vive: oltre all’ambiente parrocchiale o di comunità, anche quello familiare e – possibilmente – lavorativo.

È necessario isolare eventuali motivazioni inadeguate o non corrette, quali la prospettiva di migliorare il proprio status sociale o la possibilità di mettere più liberamente a frutto le proprie doti o la fuga da situazioni (familiari o lavorative) che creano insoddisfazione o il bisogno di trovare un modello di vita che offra certezze. Si noterà che queste sono motivazioni essenzialmente egocentriche anche se spesso si presentano ammantate da una giustificazione religiosa; esse, inoltre, a volte non emergono alla consapevolezza del soggetto e rimangono a livello inconscio, anche se possono essere percepite da un attento osservatore esterno.

Riguardo alle attitudini e potenzialità del soggetto, il discernimento consiste nel verificare che siano presenti, o almeno siano in fase di sviluppo, quelle doti che ci si aspetta di trovare mature in un diacono e quelle competenze che ne possono rendere più incisivo il ministero. Gli Orientamenti e norme della Conferenza Episcopale Italiana su I diaconi permanenti nella Chiesa in Italia sottolineano che devono essere riscontrate virtù umane quali l’equilibrio, la prudenza, il senso di responsabilità, la capacità di dialogo, una sincera docilità e disponibilità alla collaborazione.

Quanto poi alle eventuali circostanze che potrebbero condizionare o precludere l’itinerario formativo verso il diaconato, occorre anzitutto guardare al contesto nel quale affiora la candidatura: questa, infatti, dovrebbe essere originata dalla comunità d’appartenenza, sia essa una parrocchia, un gruppo o un movimento ecclesiale, e non da iniziativa autonoma. L’autocandidatura, in quanto sintomo di carente senso ecclesiale e di motivazioni immature, va scoraggiata e indirizzata verso una comunità nella quale inserirsi per cominciare a svolgere quella “diaconia di fatto” che potrà poi dar luogo ad una convinta presentazione del parroco o del presbitero responsabile.

Nel caso in cui l’aspirante provenga da movimenti ecclesiali è opportuno che, pur continuando a farne parte, lasci eventuali incarichi direttivi, perché sia subito chiaro che egli è chiamato a essere diacono della Chiesa locale, non del singolo movimento.

Deve anche essere verificata un’effettiva disponibilità di tempo, non nel senso che l’aspirante debba avere ampi margini di tempo libero, ma che abbia la possibilità e manifesti l’intento di rinunciare ad alcune delle attività che lo occupano o di subordinarle all’impegno formativo che gli si apre davanti.

Occorre anche verificare se vi sono problemi per il lavoro svolto, rendendosi conto se la sua natura o l’inquadramento gerarchico possano determinare situazioni di conflitto di coscienza. Si pensi al caso di un avvocato che si occupi di cause di divorzio o di un infermiere in un reparto dove si praticano aborti o di un addetto a servizi segreti o di un tecnico in un’azienda che produce materiale bellico.

Devono inoltre essere evitate posizioni che possano far apparire l’aspirante come persona di parte, ad esempio nel caso di militanza in partiti politici o espressioni sindacali. Egli infatti è chiamato a favorire sempre, anche come cittadino, l’unità ed evitare, per quanto possibile, di essere occasione di disunione e di conflitto.

Altra circostanza di grande rilievo è la buona fama che deve essere riconosciuta all’aspirante dall’ambiente in cui vive e opera. Si noti in proposito che anche se fossero equivoci, maldicenze o calunnie ad offuscare ingiustamente la buona fama, è il dato oggettivo della sua assenza a condizionare l’avvio del cammino di formazione al diaconato.

Per i coniugati occorre fare attenzione a che siano promossi al diaconato quanti, già da molti anni vivendo in matrimonio, abbiano dimostrato di saper dirigere la propria casa e che la moglie manifesti non solo il consenso, ma anche la disponibilità a condividere il ministero del marito.

Nel discernimento vocazionale di un celibe è invece importante capire le ragioni in base alle quali si orienta verso il diaconato piuttosto che verso il presbiterato. Questo potrebbe dipendere da motivazioni sociologiche, quali il lavoro ed il ruolo sociale, ma non dovrebbero mancare le motivazioni propriamente pastorali, cioè un’attitudine diversa nel testimoniare e diffondere la fede.

Altro aspetto di cui tener conto sono le possibili conseguenze di eventuali esperienze negative vissute nel passato (vicende sentimentali che hanno lasciato il segno, assunzione di sostanze stupefacenti, alcoolismo, vizio del gioco o altro), per evitare, anche mediante particolari attenzioni durante il tempo di formazione, che possano in qualche modo condizionare il futuro ministero.

In conclusione, nel discernimento delle motivazioni vocazionali, delle attitudini e di eventuali circostanze condizionanti, è necessario fare riferimento ai seguenti criteri:

  • globalità del giudizio, che consiste nel puntare su una valutazione a tutto tondo del soggetto, non tralasciando alcun aspetto della sua personalità;
  • composizione di molteplici valutazioni, che si concretizza nel raccogliere e mettere insieme elementi di giudizio espressi da diverse persone che hanno consuetudine di rapporti con l’interessato negli ambienti familiare, ecclesiale, lavorativo;
  • oggettività, che impone di basarsi, per quanto possibile, su dati riscontrabili e non su impressioni.

In ogni caso, il Concilio Ecumenico Vaticano II raccomanda di avere sempre, nel discernimento, serenità e fermezza d’animo (cf. OT, n.6), avendo come unico riferimento la vocazione del singolo e astraendo da considerazioni sulle necessità pastorali e sulla carenza di operatori.

 

4.         Le fasi del discernimento

 

Il discernimento della chiamata vocazionale non è un’operazione da svolgere in tempi brevi, una volta per tutte, ma un processo finalizzato a riconoscere con sempre maggiore chiarezza e certezza i segni di una vocazione che matura; questa, infatti, più che un dato di fatto è una realtà in divenire che coinvolge tutto l’essere e lo sviluppo della persona. Il discernimento, quindi, prosegue lungo l’intero arco di tempo che porta all’ordinazione, con un andamento nel quale possiamo individuare tre fasi di particolare rilievo:

  • la prima fase inizia con la presentazione dell’aspirante e dà luogo al suo passaggio a un periodo propedeutico di verifica dell’eventuale vocazione;
  • la seconda fase mira a raggiungere una ragionevole certezza della chiamata al ministero diaconale e porta all’ammissione fra i candidati;
  • la terza fase, riconosciuti i segni vocazionali e verificato che non sussistano circostanze ostative, si conclude con l’ordinazione.

Nella fase iniziale il soggetto interessato deve essere aiutato ad esprimere un primo autodiscernimento, dopo aver chiarito, almeno per grosse linee, il senso del ministero diaconale. Sarà molto importante in questa fase consultare il parroco, cui ordinariamente spetta il compito di presentare l’aspirante, e di ascoltare, se questi è coniugato, la moglie. Questo primo discernimento sarà molto facilitato se alle spalle dell’interessato vi è una comunità parrocchiale già sensibilizzata ai ministeri, nella quale egli possa aver iniziato a svolgere una “diaconia di fatto”.

La fase successiva è finalizzata a comprendere in modo via via più chiaro e preciso l’essere e l’operare del diacono ed a verificarne le compatibilità con le proprie motivazioni esistenziali. Il documento CEI sul diaconato in Italia suggerisce anche l’esercizio previo di una concreta responsabilità pastorale, nel quale “l’aspirante, dando buona prova delle proprie capacità e della propria dedizione, potrà misurare realisticamente la sua intenzione”.

Questa seconda fase di discernimento si conclude con un’assunzione di responsabilità da parte del soggetto interessato, che “dovrà esprimere chiaramente e per iscritto l’intenzione di impegnarsi per il servizio della chiesa particolare, significando in tal modo l’adesione a un ministero ecclesiale e la piena disponibilità al vescovo” (sempre dal documento CEI sul diaconato in Italia). D’altra parte spetta al vescovo la decisione di ammetterlo fra i candidati. Tutto ciò è espresso dal rito liturgico dell’ammissione fra i candidati, disposto dalla lettera apostolica Ad pascendum di Paolo VI, che ha carattere pubblico e solenne ed esprime un reciproco legame fra il vescovo, la Chiesa ed il candidato.

La fase conclusiva del discernimento mira a verificare i segni di una vocazione matura e ad accertare che non siano insorti elementi condizionanti o ostativi in vista di un’imminente ordinazione.

Il processo del discernimento, del quale sono state messe in evidenza le fasi più importanti in rapporto ai momenti salienti del percorso verso il sacramento dell’Ordine, attiva una presa di responsabilità pastorale non solo verso coloro dei quali è riconosciuta la vocazione, ma anche verso quelli che non presentano i segni della chiamata al ministero del servizio ecclesiale.

Costoro infatti hanno creduto di trovare una strada che, dopo un tempo a volte non breve, si manifesta inidonea o preclusa. Talvolta si rendono conto, con un corretto autodiscernimento, che è un’altra la prospettiva di vita corrispondente alle proprie più intime aspirazioni, a volte invece non comprendono le motivazioni di quella che ai loro occhi appare quasi un’esclusione. Nell’un caso come nell’altro resta a carico della comunità ecclesiale, e in particolare di quanti hanno avuto un ruolo nel percorso formativo e nel discernimento, la responsabilità pastorale di accompagnare il soggetto alla collocazione più rispondente nella comunità stessa, guidandolo anche verso l’esercizio di un idoneo ruolo ministeriale.

Questa paterna sollecitudine è assai importante per evitare delusioni e incomprensioni e per orientare verso un inserimento attivo, come laico, nella missione della Chiesa, in conformità alla propria chiamata.