INTERVISTA  CON  PADRE  LUCA

D         Come nasce il Diaconato Romano, da quale intuizione, con quali aspettative?

 

R         La prima idea concretamente si è affacciata nel 1977 quando, con la Costituzione Apostolica “Vicariatus Urbis” di Paolo VI, nel riordinamento dei centri pastorali e degli uffici del vicariato, all’ufficio liturgico è stata affidata anche la promozione dei ministeri. Eravamo negli anni in cui, anche a livello di Chiesa italiana, si parlava dei ministeri ed è proprio di quell’anno il documento “Evangelizzazione e ministeri” al quale anche io avevo dato, come esperto, un qualche contributo. L’indicazione del Cardinal Poletti, convinto della necessità di promuovere la ministerialità laicale, era di procedere con gradualità, cercando di far passare nella mentalità sia del clero che del laicato l’idea che una ministerialità già esercitata di fatto poteva essere riconosciuta con un gesto ecclesiale. Devo dire che, per il numero di destinatari e per l’urgenza, il primo ministero ad essere largamente attuato fu quello “straordinario della Comunione”: il Centro cominciò a promuovere corsi per comprendere e svolgere questo ministero, in vista soprattutto delle prospettive di accostarsi ai malati più che per il servizio nelle grandi assemblee. Negli anni successivi, notando anche all’interno dei ministeri inferiori persone che sembrava avessero una particolare propensione per un servizio più ampio, si è cominciato a parlare del diaconato, che ha cominciato a muovere i primissimi passi nel 1980, con la nomina di don Franco Peracchi a delegato per il diaconato permanente. Io ero fortemente convinto, e il Cardinale era d’accordo con me, che, sebbene fosse aperta la disponibilità del Seminario ad accogliere eventuali candidati, come di fatto stava già avvenendo per la preparazione ai ministeri istituiti, si dovesse trovare un luogo diverso per evidenziare chiaramente che la preparazione dei diaconi permanenti non doveva essere assimilata in alcun modo a quella dei presbiteri. Ci siamo messi alla ricerca di luoghi sufficientemente ampi ed accoglienti, finché nel 1982, quando già i primissimi diaconi erano stati ordinati e qualche candidato era in cammino, si è liberata la rettoria di san Teodoro al Palatino, utilizzata praticamente solo per i matrimoni, in quanto il rettore don M. Canciani era stato nominato parroco di San Giovanni dei Fiorentini. Così dal settembre/ottobre 1982 abbiamo cominciato una preparazione specificamente pensata per i candidati al diaconato, integrata da un corso teologico di base, da frequentare compatibilmente con gli orari di lavoro. Per rispondere alla specificità della formazione dei diaconi anche da un punto di vista culturale, oltre che spirituale, sono nati i “venerdì di san Teodoro”, di cui io curavo l’organizzazione e, in parte, anche la conduzione, mentre don Franco si occupava prevalentemente del discernimento e dell’accompagnamento delle singole persone o meglio delle coppie, data l’importanza che abbiamo subito dato alla partecipazione delle mogli. La formazione si articolava in quadriennio; oltre agli appuntamenti formativi del venerdì tenevamo incontri di spiritualità, anche di giornate intere, e per qualche anno abbiamo fatto anche una convivenza in montagna con le famiglie.

 

A proposito di questo inizio, mi preme sottolineare due cose.

  • Da principio la difficoltà dei presbiteri di entrare nell’accoglienza di questo ministero. L’accoglienza, che non era stata facile in un primo momento neanche in seno al Consiglio Episcopale, è stata problematica per i parroci che vedevano soltanto la funzionalità del ministero nelle parrocchie. A me premeva sottolineare che bisognava trovare spazi significativi ed autonomi per l’esercizio del ministero, mentre la presenza in parrocchia doveva essere straordinaria e significativa. Ma questo non è stato facile; è venuto maturando con il passare del tempo. In particolare si è cercato nelle pastorali così dette speciali (la famiglia, il mondo della sofferenza, del lavoro, ecc.) lo spazio che consentisse una relativa autonomia e mettesse chiaramente in evidenza lo strettissimo legame sacramentale tra il Vescovo, e quindi la diocesi, ed il diacono. Comunque non è stato facile il superamento di una visione quasi esclusivamente funzionale.
  • La seconda cosa è la nostra richiesta che la presentazione dei candidati avvenisse non solo per iniziativa personale o del parroco, ma da parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale, perché acquistasse un senso il più possibile ecclesiale. Non pochi dei primi candidati si sono accostati a questo ministero dopo un cammino in seminario interrotto per diverse ragioni: in questi casi era necessario mettere bene in chiaro che la vocazione diaconale era profondamente diversa da quella presbiterale. Parecchi inoltre provenivano da esperienze particolari anche fortemente qualificate (come il Rinnovamento nello Spirito e il Cammino Neocatecumenale): noi chiedevamo che, una volta iniziato il cammino per il diaconato, si prendessero le distanze dalla partecipazione attiva, con compiti di responsabilità, nel movimento d’appartenenza, fin quando il Vescovo, dopo l’ordinazione, avesse stabilito di prestare servizio all’interno di questi gruppi.

 

Per me è stata una stagione interessantissima. Ho fatto un’esperienza che ha segnato la mia vita e, per certi aspetti, mi ha preparato anche al compito che poi nel 1987 mi è stato affidato, quello di Vescovo ausiliare nella pastorale sanitaria. Soprattutto nell’assistenza spirituale e pastorale dei malati negli ospedali si sono presentati spazi anche significativi di impegno per i diaconi, in stretta collaborazione con i cappellani. In proposito ho sempre sottolineato che la comunione con il Vescovo è sacramentale ed essenziale, quella con i parroci o altri sacerdoti impegnati nel ministero ha invece la fisionomia di collaborazione per attuare una pastorale organica e coordinata. Il mio coinvolgimento nel diaconato romano è proseguito fino al 1993, quando sono stato nominato Vescovo di Sora-Aquino-Pontecorvo; con la mia partenza si è lasciato San Teodoro, che nel frattempo era diventato angusto data la crescita numerica dei diaconi e dei candidati.

 

DSC_0737D         A questo punto avevamo il Diaconato permanente. Si può parlare di “ordo” del diaconato?

 

R         Parlare di ordo è un po’ ambiguo. Se si parla di ordo nel senso di “collegio” allora il collegio, sotto il profilo teologico, è quello dei vescovi sub Petro e cum Petro. Collegio è anche quello dei presbiteri che, in forza dell’ordinazione, hanno un vincolo sacramentale con il vescovo e tra di loro. Non si può però a rigore parlare di un collegio dei diaconi, ma di un gruppo organico e noi abbiamo realizzato questo mediante momenti di scambio, di verifica di esperienze, di spiritualità vissuti insieme per acquisire una mentalità comune, uno stile comune, anche se poi l’esercizio diversificato del ministero prevedeva che ognuno si muovesse con una certa autonomia secondo il progetto pastorale della diocesi.

 

D         La lavanda dei piedi è il segno del servizio comune a tutto il ministero ordinato. In che senso anche il diaconato affonda le sue radici in questo gesto di Gesù?

 

R         Credo che sia molto importante chiarire. L’identità del Vescovo, dopo il Concilio Vaticano II, è ormai chiara; quella del presbitero è abbastanza chiara dopo la “Presbyterorum Ordinis”[1] e dopo la “Patores dabo vobis”[2]. L’identità del diacono è illuminata dall’affermazione di Paolo VI che il diacono è il “segno sacramentale di Cristo Servo” e, siccome il servizio di Cristo si esprime nel modo più eloquente nella lavanda dei piedi (Gv 13,1-17), è chiaro che il riferimento a questo passo, per il diacono, è fondamentale. Ma resta tuttora aperta, secondo me, la seguente questione: tutti e tre i gradi del sacramento dell’ordine rendono presente Cristo Servo, anche il Vescovo è segno sacramentale di Cristo Servo, anche il presbitero. Allora qual è la specificità del servizio del diacono? Su questo la riflessione è ancora aperta. Io ritengo, come dicono i documenti e come si evince anche da una certa tradizione (penso alla Didascalia degli Apostoli) che se il diacono è l’occhio, la bocca, le mani del Vescovo vuol dire che il diacono presenta al Vescovo le situazioni di servizio emergenti in una chiesa particolare. La stessa cosa vale in parrocchia: è testimone ed esempio di come si serve, con l’obbedienza, l’umiltà, la disponibilità, con la parola e il gesto, perché questi sono i due pilastri attraverso cui si realizza il servizio: l’annuncio e la diaconia della carità in senso stretto. Del resto, senza voler entrare nel merito dell’esegesi del cap. 6° degli Atti, noi vediamo che anche tra i primi sette il servizio delle mense va di pari passo con il servizio dell’evangelizzazione di Filippo. Quella del diacono è un’evangelizzazione capillare, è l’incontro con la persona, come Filippo che sale sul carro dell’eunuco e gli svela Gesù Cristo, rispondendo alle domande che l’eunuco gli pone. Un po’ come fa Gesù con i due di Emmaus, anche questa mi pare un’icona importante per la diaconia dell’evangelizzazione; si affianca discretamente, si mette in sintonia, si interessa ai loro dubbi, si coinvolge nello stato d’animo di tristezza e di spegnimento di speranza che avevano dentro. È questo il ministero dell’ascolto, dell’accoglienza dell’accompagnamento.  Penso che la diaconia sia soprattutto questa: l’attenzione nel vedere le situazioni, nell’ascoltarle, nel condividerle, il farsi prossimo, il compatire che abbraccia tutte le dimensioni della fragilità e poi il tendere la mano, accompagnando la persona umana nella crescita integrale. Qui c’è un campo molto interessante da sviluppare.