SETTIMANA SOCIALE DI CAGLIARI

La Settimana Sociale

Era dal 1970 che il lavoro non era oggetto di approfondimento nelle Settimane Sociali. Se ne parlò in momenti travagliati di cambiamento: nell’ottobre 1946 a Venezia sull’art. 1 della Costituzione italiana e nel 1970 a Brescia sullo statuto dei lavoratori. Anche questo è un momento travagliato, per la drammatica carenza di lavoro, specie per i giovani.

Questa Settimana Sociale ha per titolo: “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”. Questi quattro aggettivi qualificano il lavoro attraverso il quale “l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita”, come nel 2015 scrisse Papa Francesco in Evangelii gaudium (n° 192). Libero per la possibilità di trovare lavoro in relazione alle proprie necessità e attitudini; creativo per potervi esprimere ingegno e competenze; partecipativo per convergere con altri a un obiettivo comune e solidale per concorrere al bene comune.

La Settimana Sociale è stata spazio di discernimento comunitario sul tema scottante del lavoro in un’epoca di forte cambiamento imposto delle nuove tecnologie. Sono convenuti a Cagliari circa 1000 delegati diocesani, 80 vescovi, 300 volontari e si è fatta esperienza di un processo in cui i diversi punti di vista e le diverse competenze (di economisti, imprenditori, giovani, pastori e politici) hanno contribuito a immaginare un percorso di crescita del nostro Paese.

 

La situazione

È sotto gli occhi di tutti: l’Italia è rapidamente invecchiata per la riduzione della natalità e l’aumento della longevità; la ricchezza è concentrata; aumentano le disuguaglianze; la ripresa è debole e la disoccupazione giovanile è al 40%. Assistiamo alla fuga di giovani motivati e professionalmente preparati che cercano all’estero un lavoro che qui non trovano. Si congiungono impoverimento demografico ed economico.

Vediamo però anche aziende che non trovano operai e impiegati adeguatamente preparati; un divario fra domanda e offerta di lavoro derivante da un non ben finalizzato processo di formazione al lavoro.

D’altro canto l’Italia è ricca della risorsa del volontariato e apprezzata in tutto il mondo per cultura e creatività: progettiamo il futuro valorizzando la nostra identità.

 

Il lavoro

Sgombriamo il campo da un preconcetto: il lavoro non è conseguenza del peccato, infatti già prima il giardino della creazione era affidato alla cura dell’uomo. Il lavoro è azione co-creatrice, è vocazione perché in esso si realizza la dignità dell’uomo. «Dio ha creato l’albero, ma non i mobili» osserva argutamente il cardinale Turkson. Il lavoro dà il senso del proprio ruolo; definisce la persona («Che fai?»). Ma dobbiamo aggiungere che il lavoro è dignitoso se consente il giusto guadagno, se si svolge in condizioni di sicurezza e se contribuisce al bene comune.

Mai mercificare il lavoro in una perversa logica manageriale: chi punta alla ricchezza non ne avrà mai abbastanza: il denaro diventerà un idolo che non si sazia mai. C’è chi dice: «Gli affari sono affari!», ma la speculazione è ingiusto parassitismo, non genera futuro, e la corruzione corrode la convivenza sociale. Credendo che si potessero far soldi con i soldi si è finito per svalutare la valenza sociale del lavoro.

Ci sono poi forme di sfruttamento del lavoro, come il perdurante fenomeno del caporalato, che costringe 400.000 lavoratori, specialmente stranieri, in situazione di precarietà, senza futuro e senza diritti, generando alienazione. Come pure ci sono attività che danneggiano gravemente la convivenza umana, come il traffico di droga, la produzione di armamenti, la pornografia: questi sono i mercanti del male.

Oggi siamo davanti ad una veloce transizione tecnologica: sta cambiando il rapporto lavoro – macchina, sicché molti lavori spariranno e moltissimi cambieranno. È un processo che sarebbe antistorico contrastare; c’è invece da impegnarsi per una diversa formazione, orientata al lavoro del futuro. In una società digitale il lavoro sarà sempre meno legato ad una sede, potendosi svolgere ovunque restando connessi, con due rischi opposti: che per alcuni diventi troppo invasivo, mentre per altri venga a mancare.

Il lavoro dunque è diaconia di vita e non strada di profitto. L’uomo ha il potere di farne un mezzo di benedizione o di maledizione. Quello che vogliamo è un lavoro in cui ciascuno possa esprimere la propria creatività e che abbia senso per sé e per gli altri. “Beato l’uomo che teme il Signore, vivrà del lavoro delle sue mani”.

 

Nuovi orientamenti

Dalle relazioni e dai gruppi di lavoro sono emerse alcune indicazioni di fondo, a partire dall’atteggiamento da tenere di fronte ai problemi attuali e ai futuri cambiamenti: non solo denuncia, non sfiducia né paura, ma discernimento, visione, proposte ed energia. In particolare non guardiamo con sgomento l’innovazione tecnologica: non c’è un destino già scritto: l’innovazione accelera le dinamiche e, se governata, può giovare.

Al primo posto il rispetto della dignità delle persone. Sono utili le statistiche e le teorie economiche, ma è più importante partire dalle persone e dalle situazioni concrete. Accendere nei giovani il desiderio di dare un contributo alla società, con la loro creatività e con quel surplus di conoscenza necessario a far buon uso delle tecnologie. L’intelligenza artificiale è una sfida: se non possiamo competere con i robot in velocità, dobbiamo orientarci verso ciò che essi non possono fare e per questo è necessario finalizzare meglio la formazione, in modo che il robot collabori con l’uomo invece di emarginarlo.

Mai presentare come condizione necessaria per creare o mantenere occupazione la rinuncia alla qualità dell’ambiente (Ilva di Taranto): il lavoro non necessariamente porta inquinamento, ma si può e deve armonizzare con l’ambiente, prendendo qualcosa delle risorse naturali, ma senza impoverire o distruggere. La cura dell’ambiente, anzi, può generare opportunità di lavoro e migliorare al tempo stresso la qualità della vita. Né l’occupazione può essere legata a produzioni contro la persona umana (armi in Sardegna).

Serve un nuovo modello di sviluppo che rispetti, includa e valorizzi il territorio. Si diffonde l’economia di scambio, perché condividere un bene è più economico e divertente che possederlo. Si affermano anche nuovi modelli di lavoro, ma è necessario per essi disegnare nuovi meccanismi di tutela. Ci sono poi il servizio civile e il volontariato. Sarebbe utile un collegamento fra imprese e attività no-profit per diffondere, con determinazione e fiducia, un virus positivo nel mercato.

Altro punto fermo è che il valore economico si deve legare al valore sociale, in una strategia di lungo periodo. È da evitare la massimizzazione del profitto in tempi brevi perché porta a speculare e a comprimere i costi, primo fra tutti il costo del lavoro, lasciando poi dietro di sé danni ambientali e sociali.

Creatività e responsabilità sono le doti necessarie per intraprendere un’attività che effettivamente generi valore. Ad esempio guardare in modo creativo le tante risorse inutilizzate: ci sono giacimenti fermi di capitale umano, di risorse economiche, di beni ambientali, di patrimoni culturali. I territori crescono se fanno sistema e il loro patrimonio culturale e artistico può diventare il volano dell’economia italiana, perché abitare la bellezza è un autentico valore.

Occorre infine far crescere il senso di partecipazione, di comunità e di rispetto della legalità.

 

Cosa fare

Il Papa raccomanda di iniziare processi, più che occupare spazi; dobbiamo fare insieme un percorso di discernimento per partecipare, informare, disseminare, verificare. Occorrono relazioni, stare in rete: i social media sono uno strumento importante e abbiamo il dovere di starci per diffondere, pubblicizzare, consolidare l’economia civile.

Anche le parrocchie possono essere luoghi di indirizzo; potrebbero sensibilizzare ad acquisire consapevolezza di poter “votare con il portafoglio”, cioè scegliere, nel fare gli acquisti, prodotti di aziende che si comportano eticamente (anche gli Stati dovrebbero farlo con buone regole negli appalti). Le parrocchie potrebbero valorizzare gli oratori per la formazione al lavoro, orientando verso buone pratiche lavorative e verso nuove professionalità. Potrebbero promuovere associazioni per affiancare chi cerca lavoro (senza raccomandazioni) e accompagnarlo nell’acquisizione delle necessarie competenze o aprire sportelli scuola-lavoro. Potrebbero infine sviluppare i talenti verso l’imprenditorialità (ad esempio con il Progetto Policoro), collaborando con le organizzazioni imprenditoriali, per stimolare la creazione di nuove iniziative.

Per l’Italia è necessario ridurre la distanza fra sistema educativo e mondo del lavoro. La formazione professionale dà qualificazione e identità personale (“io sono …”, “io so fare …”), mentre su chi non sa fare si “posa il mantello dell’invisibilità”. Serve “formare persone solide in un tempo liquido”. Serve una cultura non astratta, ma nemmeno un sapere solo pratico: insomma una formazione umana integrale, non per pochi, ma comunitaria.

Più in generale dobbiamo coltivare la vocazione a creare lavoro (e non solo a cercare un “posto di lavoro”). Può essere utile migliorare la funzionalità dell’alternanza scuola-lavoro; potenziare la formula dell’apprendistato (in Italia vi ricorre solo il 3% dei lavoratori, mentre in Germania il 23%); potenziare l’orientamento e la formazione professionale; raccordare la scuola all’università e l’università al mondo del lavoro, guardando alle competenze che saranno richieste nel futuro.

Quali sono i fattori chiave per la creazione di nuove iniziative che diano buon lavoro? Innanzitutto partire dall’esame delle esigenze e dei bisogni della clientela potenziale (singole persone o famiglie o imprese) per individuare quali non trovano adeguata soddisfazione. Poi guardare alle risorse inutilizzate nel territorio (risorse materiali, ambientali, delle tradizioni, delle competenze); valorizzare il genius loci con creatività e originalità, con matrice culturale e spirituale cattolica; aver cura dei beni comuni per immetterli nel circuito virtuoso della creazione di lavoro (Libera); affiancare e tutelare (Policoro); ibridare il profit con il no-profit; avere atteggiamento inclusivo; rendere contaminanti le buone pratiche; farle conoscere. Noi italiani siamo capaci di unire il bello al funzionale, fermo restando l’obiettivo della creazione di valore.

È poi importante coltivare i rapporti con le istituzioni, nell’interesse del bene comune, per costruire lavoro buono, insieme al giusto riposo e alla festa. Non ignorare le strutture pubbliche, ma cercare un dialogo e possibilmente una collaborazione con esse per creare un ecosistema favorevole alla produzione di nuovi tipi di beni, pubblici e privati.

Occorrerebbe anche un patto intergenerazionale perché oggi chi ha patrimonio (gli anziani) non ha propensione all’investimento, mentre chi avrebbe bisogno di investire (i giovani) non ha i mezzi. Il patto intergenerazionale va fondato sulla centralità del lavoro degno. Anche la Chiesa deve mettere in gioco il suo patrimonio.

 

L’impresa

Non si può discutere di lavoro senza parlare di impresa. Se si parte dall’idea che l’uomo è portato a sfruttare il prossimo (antropologia negativa), si vede l’impresa come luogo di sfruttamento: per decenni l’impresa è stata colpevolizzata e si è ritenuto che il rapporto lavoratore – impresa debba essere necessariamente conflittuale. Non a caso nella seconda rivoluzione industriale in Italia si è investito moltissimo in automazione, con l’obiettivo di ridurre l’apporto del lavoro nel processo produttivo. Questa concezione di inevitabile conflitto imprenditore – lavoratore certo non incentiva l’imprenditorialità.

Oggi invece è necessaria la cooperazione per costruire un futuro per entrambe le parti (chi intraprende e chi lavora), che stanno sulla stessa barca e concorrono a creare valore economico e beni comuni. È necessario quindi abbandonare la visione conflittuale e partire da un’antropologia positiva, di collaborazione, partecipazione e solidarietà.

Il Docufilm del regista Salvadore su “Il lavoro che vogliamo” ha presentato otto vicende di imprese che, concepite con desiderio di inclusione – anche di disabili – e guardando al territorio, si sono gradualmente affermate dando senso e passione alle attività e alle relazioni umane. In particolare, in un’azienda fornitrice di beni per un marchio del lusso, i lavoratori sono stati selezionati non in base alla loro condizione fisica, ma accogliendo malati, handicappati, autistici e assegnando loro un lavoro commisurato alle proprie capacità. Mettendo le persone al centro, si produce ricchezza: dalle 8 storie del film emerge che “si può fare!”.

 

Le buone pratiche

Sono state individuate oltre 400 iniziative dal Nord al Sud d’Italia che generano buon lavoro, partendo da una nuova imprenditorialità che non ha solo il profitto come obiettivo, ma anche il bene comune. È questo infatti a dare un benessere pieno e duraturo.

Viene prospettato, anche imparando dai fallimenti, un ampio ventaglio di opportunità imprenditoriali: manifatture di successo puntando su buone professionalità; iniziative nel settore sociosanitario (destinato ad avere domanda crescente); consorzi al servizio di imprese artigiane; iniziative di rigenerazione urbana dei borghi o comunque di valorizzazione di risorse del territorio; sviluppo del “made in carcere”, che presenta anche il beneficio di ridurre la recidiva dei detenuti.

Ci sono “buone pratiche” molto diverse. Ad esempio la Diocesi di Pozzuoli ha un centro d’ascolto per chi non trova lavoro, o l’ha perso o ha un figlio disoccupato; con l’affiancamento si cerca di dare speranza e trovare una soluzione per mezzo di una rete di contatti con aziende del luogo. Nella Diocesi di Bologna varie associazioni sono raccolte intorno a un tavolo della Pastorale Sociale per promuove il reinserimento nel lavoro, contattando aziende e finalizzando la formazione con un fondo diocesano. La BCC Basilicata svolge una funzione di selezione e accompagnamento delle imprese sulla base della correttezza dei loro comportamenti, in un territorio con carenza di lavoro e fenomeni di spopolamento.

Il Progetto Policoro è un metodo di coinvolgimento di giovani, inizialmente poco informati e sfiduciati, per motivarli a mettersi in gioco avviando iniziative economiche in vari settori, dalla promozione dell’agricoltura sociale al sostegno della fragilità non con l’assistenza, ma progettando insieme i servizi necessari.

Qual è l’“algoritmo” vincente per un’iniziativa? Sono simultaneamente necessarie tre condizioni:

  1. capacità reddituale, per stare sul mercato e avere futuro;
  2. capacità generativa interna, per motivare, orientare, innovare;
  3. capacità generativa esterna, per influire positivamente sull’ambiente umano e naturale.

avendo sempre un’ottica non a breve, ma a medio periodo.

 

La politica

Cosa chiedere alla politica? Un piano di sviluppo per l’Italia, con provvedimenti in un’ampia gamma di ambiti, di seguito brevemente tratteggiati.

  • Ridurre l’eccesso di burocrazia, rimuovendo lacci e lacciuoli, disboscando leggi, norme, circolari, regolamenti, che rendono opachi i processi, rimangono a volte inattuati, autoalimentano la burocrazia, e ingabbiano il Paese.
  • Ridurre la pressione fiscale, piuttosto che dispensare incentivi; tassare chi si rifugia nei paradisi fiscali; rimodulare le aliquote IVA per le imprese che operano con criteri di rispetto dei lavoratori e dell’ambiente.
  • Favorire l’afflusso di risorse alle piccole e medie imprese, mediante i piani individuali di risparmio, riservando loro una via preferenziale negli appalti pubblici (come in USA), diffondendo informazioni ai cittadini per una scelta responsabile nel comprare e nell’investire.
  • Riformare il sistema giustizia, per renderlo meno farraginoso e lento.
  • Diminuire le disuguaglianze e le asimmetrie di genere fra uomo e donna, facilitando il lavoro femminile (in Italia lavora il 49% delle donne contro una media europea del 60%), sostenendo la maternità e la famiglia.
  • Governare il cambiamento tecnologico; investire in  infrastrutture per il digitale anche per le zone interne del Paese, perché non restino tagliate fuori; mettere il lavoro al centro dei processi formativi (formazione duale, apprendistato), anche per evitare il profilarsi di una netta divisione fra una élite digitale cosmopolita e una larga maggioranza di lavoratori “territoriali” sottopagati.
  • Inserire uno snodo di libertà nel sistema scolastico a favore dei genitori (cui spetta la responsabilità educativa dei figli), per realizzare una sana competizione delle strutture scolastiche (e non solo scuola di Stato). La scuola italiana oggi costa di più (pro capite) e rende meno della media europea.
  • Mettere in sicurezza il territorio; tutelare il paesaggio; rendere riconoscibile il prodotto agricolo italiano; valorizzare la grande risorsa dei beni artistici.
  • Ridurre le aree di privilegio professionale.
  • Varare il reddito di inclusione (non di cittadinanza).

Dall’Europa si attende invece l’armonizzazione fiscale (con cancellazione dei paradisi fiscali) e la promozione di investimenti infrastrutturali in un’ottica occupazionale e di sviluppo.