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San Giovanni di Dio (1495-1550)
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San Giovanni di Dio (1495-1550)
San Giovanni di Dio
San Giovanni di Dio
Giovanni Cidade Duarte nacque dunque nel 1495 a Montemoro-novo (Montemaggiore Nuovo, un villaggio dal nome promettente). Di Giovanni bambino non sappiamo quasi nulla, finché all'età di otto anni non gli accade di incontrare un pellegrino: un viandante entrato nella sua casa a chiedere alloggio e intrattenere gli ospiti col racconto dei suoi viaggi. Che cosa sia poi avvenuto non è possibile dire, ma la mattina dopo i genitori s'accorgono che il pellegrino ha ripreso la strada e che il bambino è fuggito con lui: fuggito o forse rapito. Chissà! Certo è che essi non riescono più a rintracciarlo, e la mamma, stroncata dall'angoscia, non sopravvive più di venti giorni a tanta sventura. Il papà, invece, finisce i suoi anni in un convento di francescani. Il piccolo Giovanni compì così un lungo viaggio a piedi, fino a Madrid, assieme a mendicanti, saltimbanchi e giocolieri, imparandone la strana professione. Giunti vicino a Toledo, il viandante abbandonò il fanciullo, probabilmente sfinito, nelle mani di un buon uomo del posto, Francisco Majoral, intendente delle greggi del Conte di Oropesa, un signore di cui si conoscono le virtù e la carità.
Per sei anni Giovanni viene educato come un figlio: poi, dai quattordici ai ventott'anni, vive come un pastore, nella solitudine dei monti e nella contemplazione della natura, seguendo le greggi.
Ma quando infine sembra che egli possa sistemarsi definitivamente sposando la figlia del Majoral, con la quale è vissuto fraternamente fin dall'infanzia, Giovanni fugge ancora.
Giovanni Cidade vuole libertà: "Quella libertà, scrive il suo biografo, che sogliono avere quelli che seguono la guerra, correndo a briglie sciolte la via ampia (seppur faticosa) dei vizi". Siamo nell'epoca in cui, dopo il cavaliere medievale, sta nascendo la figura del "soldato". Ma al nostro avventuriero la vita militare riserva solo disgrazie. Una volta il cavallo in corsa, imbizzarrito, lo disarciona gettandolo contro le rocce che fiancheggiano il sentiero, e Giovanni rimane a lungo privo di conoscenza, come morto.
Un'altra volta, messo a guardia di un bottino di guerra, si lascia imprudentemente derubare: viene degradato e condannato a morte; ma viene graziato per l'intervento pietoso d'un personaggio ragguardevole.
Ambedue furono esperienze fisiche di morte e di grazia, che si depositarono nel profondo della sua coscienza. Tornò dal Majoral, suo antico padrone, dopo un interminabile viaggio a piedi di circa seicento chilometri, come un fallito, riprendendo a fare di malavoglia il pastore.
Passarono altri due anni. Nel 1527 sente dire che il sultano dei Turchi, Solimano Il, è entrato in Ungheria e ha posto l'assedio a Vienna. Gli rinasce il desiderio della lotta. Dopo alcuni mesi le truppe intrapresero il viaggio di ritorno, ripercorrendo la stessa strada, ma la compagnia di Giovanni Cidade ebbe invece l'ordine di attraversare la Germania, toccare le Fiandre e noleggiare una nave per la Spagna.
Sbarcarono al porto di La Coruna, non lontano da Santiago di Compostela, e tutti vi si recarono in pellegrinaggio. Poi la compagnia si sciolse. Solo ora, imprevedibilmente, Giovanni pensa di tornare al paese natio che ha abbandonato da bambino: percorre a piedi i seicento aspri chilometri che lo separano da Montemoro-novo. Cerca la casa dei suoi genitori, sperando di trovarli ancora in vita.
Quando scopre quel che è loro accaduto, lo assale un dolore atroce e uno sconvolgente senso di colpa. Si sente responsabile della loro morte: "Sono tanto cattivo e colpevole, si dice, che devo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo". Si reca allora a Siviglia dove commercia in bestiame: di fatto fa ancora il pastore per una ricca signora del luogo. Ma dura soltanto alcuni mesi. E inquieto.
Si reca a Gibilterra e pensa di arruolarsi nella spedizione che Carlo V prepara contro Tunisi.
A Ceuta si mette a servizio di un nobile decaduto, ma finisce per prendersi cura della famiglia ridotta in miseria, mantenendola col suo lavoro. La carità gli allarga il cuore: cerca un padre spirituale che gli raccomanda la lettura del Vangelo e di libri spirituali.
Torna in Spagna e si immerge per ore intere nella lettura di testi di spiritualità: spende tutti i suoi risparmi per acquistare libri per sé e per gli altri e si mette a percorrere i villaggi vendendo libri ai dotti, e immagini agli incolti e ai fanciulli. Ma, prima di venderli, legge tutto quel che può: poi mette i libri alla moda in bella mostra, ma quando i giovani si avvicinano per acquistarli, li sconsiglia e li convince a comprare quelli spirituali. Giunge addirittura a metter su una bottega di libri. Che Giovanni abbia imparato, lui per primo, è evidente: ci restano di lui sei lunghe lettere che contengono numerosissime citazioni della Bibbia e dell'Imitazione di Cristo. A quarantatré anni egli può vivere dunque agiatamente nella sua botteguccia di Granada.
Ma Dio lo attende in quel gennaio del 1539, alla festa di San Sebastiano, quando giunse in città uno dei più celebri predicatori del tempo: Giovanni d'Avila, l'apostolo dell'Andalusia. Giovanni è tra gli ascoltatori e si sente dire che ognuno deve "ancorarsi nella volontà di soffrire e perfino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso". Tutti comprendono il riferimento, perché la regione è devastata dal flagello della peste. A quel paragone, il nostro "venditore di libri" è colto da un moto irrefrenabile di pentimento: gli passano davanti agli occhi le immagini di tutta la sua vita disordinata, e i peccati commessi fin dagli anni della gioventù. Di mezzo agli ascoltatori, egli si mette a gridare: "Misericordia, mio Dio, misericordia!". Sembra diventato pazzo: si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba. Corre verso la sua bottega inseguito da una folla di bambini che gli urlano dietro: "Pazzo! Pazzo!".
Dà il suo denaro a chi lo vuole, distribuisce libri sacri e oggetti di pietà, strappa con le mani e con i denti le opere profane, si priva perfino delle sue vesti. Corre da Giovanni d'Avila e fa una lunga confessione, poi si reca in piazza dove c'è un grande pantano e ci si rotola dentro e comincia a confessare pubblicamente i suoi peccati. I ragazzi gli gettano addosso altro fango ed egli se ne va tutto felice, con una croce in mano, che dà da baciare a chiunque incontra.
Alcuni biografi spiegano che ha fatto tutto questo perché vuole sembrare pazzo "per amore di Cristo".
Altri sostengono invece che si trattò di un vero e proprio attacco di follia: troppe esperienze, troppe tensioni, troppa tenebra e troppa luce, troppa durezza e troppa tenerezza, e soprattutto troppo bisogno d'amare e troppa mancanza d'oggetti reali degni d'amore.
Di fatto finì in un manicomio: uno di quelli di allora dove la cura consisteva nell'incatenare i malati più inquieti, per poi calmarli a furia di nerbate. Ma questo malato era strano, perfino nella sua pazzia.
Quando egli stesso veniva frustato, incitava gli "infermieri" a continuare "perché era giusto che pagasse quella carne con cui egli aveva peccato". Ma se frustavano qualche altro poveretto, allora inveiva contro gli "infermieri": "Traditori, perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri infelici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio e in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggiore carità e affetto di quanto fate?". E rinfacciava loro lo stipendio che ricevevano per curare i malati e non per maltrattarli. Il risultato era che lui prendeva doppia razione di frustate. Ma Giovanni diceva: "Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero". Dopo qualche giorno si presentò al direttore del manicomio e gli disse: "Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia". Per darne prova, chiese di poter servire gli altri malati e dimostrò una serenità e una carità stupefacenti.
Aveva ormai quarantaquattro anni e gliene restavano da vivere soltanto undici. Ma in così breve tempo egli divenne "il Padre dei poveri", il "patriarca della carità", "la meraviglia di Granada", "l'onore del suo secolo": tutti titoli che gli furono attribuiti.
Cominciò a lavorare raccogliendo e rivendendo legna, finché poté acquistare una casupola davanti al mercato del pesce, nella quale raccolse i primi derelitti.
Al mercato si faceva regalare i pesci invenduti, dato che allora era impossibile conservarli, e li cucinava per i suoi malati, tanto che divenne esperto nel preparare un'ottima zuppa di pesce.
Ogni sera poi percorreva i quartieri alti recando una gerla sul dorso e due marmitte ai lati sospese a una corda passata sulle spalle e percorreva così le strade gridando:
"Qualcuno vuol fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate bene a voi stessi!".
È questo il significato originario del motto che oggi dà il nome al suo Ordine religioso: "Fatebenefratelli!". L'espressione non voleva dire in primo luogo che bisogna prendersi cura dei fratelli più poveri, ma che bisogna "farsi del bene", facendo del bene al prossimo.
Non si riesce ad amare veramente i poveri se prima non si scopre la propria incredibile povertà, il dovere di arricchire la propria misera vita, facendo del bene a se stessi col fare il bene agli altri.
Cominciarono le prime donazioni e la casa poté ingrandirsi. Giovanni prese a ricoverare i suoi malati selezionandoli e distribuendoli secondo la malattia: una stanza per i febbricitanti, una per i feriti, una per gli invalidi; il pianterreno era invece riservato ai viandanti e ai mendicanti che non trovavano un tetto dove ripararsi. Tutto questo in un tempo in cui negli ospedali i malati venivano ammucchiati senza distinzioni, mettendo più infermi nello stesso letto.
Si curava personalmente di tutto: accoglieva i bisognosi, li lavava, procurava il cibo, lo cucinava, rigovernava, spazzava i pavimenti, lavava la biancheria, andava per acqua e per legna.
E i visitatori restavano impressionati dell'ordine e della pulizia.
Se all'inizio dell'opera ancora lo consideravano pazzo, ora lo chiamavano: "il Santo".
Aumentano le offerte, i crediti; alcuni si dicono disposti ad aiutarlo e a condividere la sua fatica; gli stessi poveri più validi diventano infermieri.
Un alto prelato di Granada si diede a proteggerlo; un giorno, però, gli impose di abbandonare le sue vesti cenciose e di indossare una tunica sobria ma pulita. Poi gli diede un nome: "Ti chiamerai Giovanni di Dio", gli disse. "Oh sì, rispose Giovanni, se piace a Dio!".
Il suo scopo era sempre chiarissimo. Diceva: "Attraverso i corpi, alle anime!".
Per questo chiamava al suo ospedale i più zelanti sacerdoti a collaborare con lui.
Una sera d'inverno rientrava tenendo con una mano la cesta piena di viveri, appoggiandosi con l'altra a un bastone e portando sulla schiena un povero ammalato trovato sulla pubblica via.
La strada saliva faticosamente, e veniva giù un terribile acquazzone.
Giovanni scivolò e cadde. Alle grida del malato qualcuno s'affacciò alla finestra e vide Giovanni che si picchiava col bastone sulle spalle gridando a se stesso:
"Signor asino, stupido, fiacco, pigro, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e guarda che cosa hai combinato a questo moribondo!".
Poi si riaccomodò il malato sulle spalle e afferrò nuovamente la cesta, trascinandosi fino all'ospedale.
Quando a Granada il grande ospedale regio fu distrutto da un incendio, Giovanni si gettò nel fuoco per salvare i malati. L'antico Breviario, nel giorno della sua festa, commentava così l'episodio: "Insegnando la carità, mostrò che il fuoco esterno aveva su di lui minor forza del fuoco che lo bruciava interiormente".
E fu questa la scena che venne raffigurata nella Gloria del Bernini il giorno della canonizzazione.
Intanto il suo ospedale cresceva.
Scrive Giovanni in una lettera: "Sono tanti i poveri che qui giungono, che io stesso, molte volte non so come si possano alimentare, ma Gesù Cristo provvede a tutto e dà loro da mangiare, perché solo per la legna occorrono sette o otto reali ogni giorno; perché essendo la città grande e molto fredda, specialmente adesso d'inverno, son molti i poveri che giungono a questa casa di Dio; perché tra tutti, infermi e sani e gente di servizio e pellegrini ce ne sono più di cento e dieci... Vi sono rattrappiti, mutilati, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi, e molti vecchi e molti bambini; e senza contar questi, molti altri pellegrini e viandanti che giungono e si dà loro fuoco e acqua e sale e recipienti per cucinare e mangiare, e per tutto questo non c è rendita; ma Gesù Cristo provvede a tutto...
E in questo modo sono indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo...".
All'inizio del 1550 si ammalò gravemente; una sua nobile benefattrice lo trovò febbricitante sul suo povero letto, fatto di una nuda tavola, mentre il cesto della questua gli serviva da cuscino.
Ottenne dall'Arcivescovo il permesso, un ordine per Giovanni, di portarlo nel suo palazzo nobiliare. Mentre lo conducevano via, i poveri gridavano e protestavano accerchiando la portantina e Giovanni era sconvolto. Li benediceva piangendo e diceva: "Dio lo sa, fratelli miei, se desidererei morire in mezzo a voi! Ma poiché Egli vuole che io muoia senza vedervi, sia fatta la sua volontà!".
Nel letto troppo soffice Giovanni rivelò all'Arcivescovo che era angustiato da tre cose:
"La prima: aver servito così poco Nostro Signore, mentre ho ricevuto tanto.
La seconda: i bisognosi, le persone uscite dal peccato e i poveri ritrosi che ho preso a mio carico.
La terza: questi debiti che ho contratto per Gesù Cristo". E, così dicendo, gli mise tra le mani il registro dei debiti che portava stretto sul cuore. Non ebbe pace finché l'Arcivescovo non si impegnò personalmente a soddisfarli. Alla prima alba dell'8 marzo, quando ancora non c'era nessuno attorno al suo letto, discese da quel giaciglio troppo comodo, si inginocchiò per terra stringendo al petto il suo Crocifisso e spirò all'età di cinquantacinque anni. Lo trovarono così, già morto da tempo, ma ancora in ginocchio. Le esequie furono imponenti: la bara era portata da quattro gentiluomini della più alta nobiltà, ma al primo posto nel corteo venivano i poveri del suo ospedale.
"Amò tanto la povertà che, se avesse incontrato insieme un angelo e un povero, avrebbe lasciato l'angelo e abbracciato il povero". "A Betlemme ti amò Dio-bambino nella culla, e all'ospedale Dio-infermo nel letto".
Preghiera
Ai vostri piedi prostrato,
o gran padre degli infermi,
vengo oggi per impetrare da voi
che siete dispensatore di celesti tesori,
la grazia della cristiana rassegnazione,
e la guarigione dei mali che travagliano
il corpo e l’anima mia.O medico celeste,
deh! non sdegnate di venire in mio soccorso,
ricordandovi i prodigi di carità
operati nei giorni della vostra mortale carriera
a beneficio dell’umanità sofferente.
Siate voi il balsamo salutare
che lenisca i dolori del corpo:
voi il freno potente che trattenga l’anima
da fatali traviamenti:
voi il conforto, la luce, la guida
nell’aspro sentiero che porta alla salute eterna. -
Giornata mensile del Malato
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Giornata mensile del Malato
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San Luigi Orione (1872-1940)
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San Luigi Orione (1872-1940)
San Luigi Orione
Un santo dei nostri tempi, di lui esiste una vastissima bibliografia e periodicamente escono pubblicati stampati, riviste, quaderni di spiritualità, libri che lo riguardano, lo analizzano in tutti i suoi aspetti, parlano della sua opera, davvero grande.
Luigi Giovanni Orione nacque a Pontecurone nella diocesi di Tortona il 23 giugno 1872 da onesti e semplici genitori, in particolare la madre fu una saggia educatrice e gli fu di valido aiuto nelle sue future attività con i ragazzi. Lavorò nei campi nella sua fanciullezza, frequentando un po’ di scuola e dedito alle pratiche religiose. A 13 anni entrò fra i Frati Minori di Voghera, purtroppo a causa di una grave polmonite, dovette ritornarsene in famiglia.
Ristabilitasi, aiutò il padre nella selciatura delle strade, esperienza che gli risulterà molto utile per comprendere le sofferenze e la mentalità degli operai. Nel 1886 entrò nell’oratorio di Torino diretto da s. Giovanni Bosco, ove rimarrà per tre anni, l’insegnamento ricevuto e l’esperienza vissuta con il santo innovatore, non si cancellò più dal suo animo, costituendo una direttiva essenziale per le sue future attività in campo giovanile.
Inaspettatamente lasciò i salesiani e nel 1889 entrò nel seminario di Tortona per studiare filosofia per due anni, al termine del corso, proseguì gli studi teologici, alloggiando in una stanzetta sopra il duomo, nel quale prestava servizio per le Messe; riceveva anche un piccolo compenso per le sue necessità.
Nel duomo ebbe l’opportunità di avvicinare i ragazzi a cui impartiva lezioni di catechismo, ma la sua angusta stanzetta non bastava, per cui il vescovo, conscio dell’importanza dell’iniziativa, gli concesse l’uso del giardino del vescovado. Il 3 luglio 1892, il giovane chierico Luigi Orione, inaugurò il primo oratorio intitolato a s. Luigi; l’anno successivo riuscì ad aprire un collegio detto di s. Bernardino, subito frequentato da un centinaio di ragazzi. Il 13 aprile 1895, venne ordinato sacerdote, celebrando la prima Messa fra i suoi ragazzi, che nel frattempo si erano trasferiti nell’ex convento di S. Chiara. Attorno a lui si riunirono altri sacerdoti e chierici, formando il primo nucleo della futura congregazione; si impegnò con tutte le sue forze in molteplici attività: visite ai poveri ed ammalati, lotta contro la Massoneria, diffusione della buona stampa, frequenti predicazioni, cura dei ragazzi.
Si precipitò a soccorrere le popolazioni colpite dal terremoto del 1908 a Messina e Reggio Calabria, inviando nelle sue Case molti orfani, divenne il centro degli aiuti sia civili che pontifici. Papa Pio X gli diede l’incarico, che durò tre anni, di vicario generale della diocesi di Messina. Stessa operosità dimostrò negli aiuti ai terremotati della Marsica nel 1915, accogliendo altri orfani, a cui diede come a tutti, il vivere, l’istruzione, il lavoro. Se s. Giovanni Bosco fu l’esempio per l’educazione dei ragazzi, san Luigi Orione fu l’esempio per le opere di carità; girò varie volte l’Italia per raccogliere vocazioni e aiuti materiali per la sue molteplici Opere. Per curare tante attività, fondò la Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Missionarie della Carità; dal lato spirituale e contemplativo, fondò gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Suore Sacramentine, a queste due Istituzioni ammise anche i non vedenti. Ancora lo spirito missionario lo spinse a mandare i suoi figli e suore nell’America Latina e in Palestina sin dal 1914; ben due volte per sostenere le sue opere, si recò egli stesso nel 1921 e nel 1934 a Buenos Aires, dove restò per tre anni organizzando scuole, colonie agricole, parrocchie, orfanotrofi, case di carità dette “Piccolo Cottolengo”.
Sempre in movimento conduceva una vita penitente e poverissima, sebbene cagionevole di salute, organizzò missioni popolari, presepi viventi, processioni e pellegrinaggi, con l’intento che la fede deve permeare tutte le fasi della vita.
Gli ultimi tre anni della sua vita li trascorse sempre a Tortona, facendo visita settimanale al ‘Piccolo Cottolengo’ di Milano ed a quello di Genova; cedendo alle pressioni dei medici e dei confratelli, si concesse qualche giorno di riposo a Sanremo nella villa di S. Clotilde, dove morì dopo pochi giorni, il 12 marzo 1940.
I funerali furono solennissimi e ricevé l’omaggio di tutte le città del Nord Italia da dove passò il corteo funebre; venne tumulato nella cripta del Santuario della Madonna della Guardia di Tortona, da lui fatto edificare. Venticinque anni dopo nel 1965, fu fatta la ricognizione della salma che fu trovata completamente intatta e di nuovo tumulata.
In queste brevi note biografiche, non si riesce a descrivere l’importanza che l’Opera sociale e spirituale di don Orione, come da sempre è chiamato così, ha avuto nel contesto umano, prima con le conseguenze di disastri naturali e poi con i disastri provocati dalla follia umana delle due Guerre Mondiali
Personaggi di ogni ceto sociale e culturale lo conobbero e contattarono, dai papi s. Pio X e Benedetto XV al maestro Lorenzo Perosi, dalle autorità politiche nazionali e locali, ai santi del suo tempo. Il fondatore della ‘Piccola Opera della Divina Provvidenza’ è stato beatificato il 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II, in un tripudio di tanti suoi figli ed assistiti provenienti da tanta Nazioni.
E' stato proclamato santo da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004, data di culto in cui lo ricordano ogni anno la sua Congregazione e la diocesi di Milano.
Omelia canonizzazione
"Uomini che hanno votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo" (At 15,26). Queste parole degli Atti degli Apostoli ben possono applicarsi a san Luigi Orione, uomo totalmente donato alla causa di Cristo e del suo Regno. Sofferenze fisiche e morali, fatiche, difficoltà, incomprensioni e ostacoli di ogni tipo hanno segnato il suo ministero apostolico. "Cristo, la Chiesa, le anime - egli diceva - si amano e si servono in croce e crocifissi o non si amano e non si servono affatto" (Scritti, 68,81).
Il cuore di questo stratega della carità fu "senza confini perché dilatato dalla carità di Cristo" (ivi, 102,32). La passione per Cristo fu l'anima della sua vita ardimentosa, la spinta interiore di un altruismo senza riserve, la sorgente sempre fresca di una indistruttibile speranza.
Quest’umile figlio di un selciatore proclama che "solo la carità salverà il mondo" (ivi, 62,13) e a tutti ripete che "la perfetta letizia non può essere che nella perfetta dedizione di sé a Dio e agli uomini, a tutti gli uomini" (ivi).
Preghiera
O Santissima Trinità,
Padre, Figlio e spirito Santo,
Ti adoriamo e Ti ringraziamo
dell’immensa carità che hai diffuso
nel cuore di San Luigi Orione
e di averci dato in lui
l’apostolo della carità, il padre dei poveri,
il benefattore dell’umanità dolorante ed abbandonata.
Concedici di imitare l’amore ardente e generoso
che San Luigi Orione ha portato a Te,
alla cara Madonna, alla Chiesa,
al Papa, a tutti gli afflitti.
Per i suoi meriti e la sua intercessione,
concedici la grazia che ti domandiamo
per sperimentare la Tua Divina Provvidenza. Amen.
San Luigi Orione
Prega per noi
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Beato Giacomo Cusmano (1834-1888)
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Beato Giacomo Cusmano (1834-1888)
Beato Giacomo Cusmano
Giacomo Cusmano nasce a Palermo - Italia il 15 marzo 1834. Figlio di Giacomo e Maddalena Patti. Quarto di cinque figli. I suoi fratelli: Vincenzina, Pietro, Giuseppe e Giuseppina. A tre anni perde la madre in una epidemia di colera. Sua sorella Vincenzina diventa l'educatrice dei fratelli più piccoli trasmettendo al piccolo Giacomo le virtù cristiane. Da bambino manifesta la sua attenzione per i poveri e i bisognosi come pure per l'ideale missionario. Testimoni di questo sono i fatti che si raccontano della sua infanzia e adolescenza.
A casa la famiglia teneva chiusa a chiave la dispensa perché il piccolo Giacomo non esitava a donare tutto ai poveri che bussavano alla sua porta. Alcune persone hanno testimoniato la sua generosità quando, incontrando un povero infreddolito lungo la strada, ha donato la sua camicia per coprirlo, o quando ha gettato le sue scarpe dal balcone a favore di un povero ragazzo che camminava a piedi nudi. Dagli anni 1841 a 1851 studia al "Collegio Massimo" dei Gesuiti a Palermo ed è attratto dall'ideale missionario. Legge le riviste dei missionari che lavoravano nelle Montagne Rocciose nel Nord America con grande entusiasmo desiderando anche lui di fare parte di quel gruppo. Un altro fatto interessante: quando il Superiore Generale dei Padri Gesuiti rientrò a Napoli dopo la visita a Palermo nel 1850 il giovane Giacomo stava per partire con lui per diventare un missionario. Solo che non aveva detto nulla alla sua famiglia. Il fratello Pietro scopre i piani in tempo e va a prenderlo dalla nave pronta per partire. Nel 1851 inizia a studiare medicina presso la "Regia Università di Studi di Palermo" e si laurea in Medicina e Chirurgia nel 1855 con il massimo dei voti. Per quattro anni esercita la professione medica a Palermo e a San Giuseppe Jato, dove la famiglia aveva una proprietà da lui amministrata. Noto per le cure gratuite in favore dei poveri, che al solito non potevano permettersi di pagare una visita medica, sente che non era sufficiente guarire i corpi della gente, bisognava fare qualcosa di più grande. Parlando con la sorella confida il desiderio di diventare un frate cappuccino per poter servire i poveri più da vicino. Chiede l'aiuto di monsignor Domenico Turano, un sacerdote ben noto in città, e questi, rendendosi conto di ciò che si agitava nell'interiore del giovane medico, lo indirizza al sacerdozio. Così, dopo un intenso anno di preparazione, il 22 dicembre 1860, Giacomo Cusmano è ordinato sacerdote della diocesi di Palermo. È destinato alla chiesa dei "Santi Quaranta Martiri" nel quartiere Albergheria di Palermo. Ben presto questo luogo diventa un centro di carità cristiana, frequentato in particolare dai tanti poveri allora esistenti, conseguenza delle diverse rivoluzioni che travagliavano la Sicilia e l'Italia in quei tempi. P. Giacomo usa tutti i mezzi a sua disposizione per aiutare i bisognosi, facendo anche delle raccolte nelle case delle persone benestanti. A poco a poco si uniscono a lui molti collaboratori presi dall'esempio del nuovo sacerdote. Un giorno, durante la cena a casa dell'amico Michele De Franchis, nota come tutti i membri della famiglia, prima di iniziare a mangiare, prendevano un po' di cibo dai loro piatti e lo mettevano su un altro piatto posto al centro della tavola. Questo piatto era poi servito a un povero che bussava alla porta della famiglia De Franchis. Vedendo questo gesto P. Giacomo ha una brillante idea: e se tutti facessero così nella nostra città? Quanti poveri non si potrebbero aiutare! E associa questo boccone a quello eucaristico: la santa comunione che unisce nel Cristo Poveri e ricchi. A partire da questa ispirazione dà vita all'opera che chiama "Boccone del Povero". Era l'anno 1867. Il Papa Pio IX il 24 luglio 1868 approva e benedice l'opera. Vedendo l'entusiasmo e l'esempio di P. Giacomo molta gente comincia a seguirlo e ad aiutarlo, compresi molti sacerdoti palermitani. Per 10 anni P. Giacomo porta avanti li "Boccone del Povero". E i poveri da servire aumentano sempre più. Ma non mancano le difficoltà e inizia la crisi nella sua opera. Credendo che tutto ciò possa essere solo frutto della sua superbia e non essere questa la volontà di Dio, pensa di affidare l'opera a qualche congregazione religiosa. Ma intorno al mese di luglio 1878 fa un sogno, nel quale la Madonna lo incoraggia a proseguire l'opera iniziata assicurandogli che essa era voluta da Dio. Per dare continuità al "Boccone del Povero", raduna le sue collaboratrici in una comunità religiosa, fondando così le Suore Serve dei Poveri. La vestizione delle Suore avviene il 23 maggio 1880. Poco tempo dopo, il 4 ottobre 1884, dona l'abito religioso ai Fratelli Servi dei Poveri e il 21 novembre 1887 organizza in maniera stabile i Missionari Servi dei Poveri. Il 14 marzo 1888, a soli 54 anni, muore a causa di una pleurite. Il 30 ottobre 1983 è proclamato "Beato" dal Papa Giovanni Paolo II.
Omelia Beatificazione
Il Beato Giacomo Cusmano, medico e sacerdote. Egli, per sanare le piaghe della povertà e della miseria che affliggevano tanta parte della popolazione a causa di ricorrenti carestie ed epidemie, ma anche di una sperequazione sociale, scelse la via della carità: amore di Dio che si traduceva nell’amore effettivo verso i fratelli e nel dono di sé ai più bisognosi e sofferenti in un servizio spinto sino al sacrificio eroico.
Dopo aver aperto una prima “Casa dei poveri”, diede inizio ad una più vasta opera di promozione sociale, istituendo l’“Associazione del boccone del povero”, che fu come il granello di senapa da cui sarebbe sorta una pianta tanto rigogliosa. Facendosi povero coi poveri, non disdegnò di mendicare per le vie di Palermo, sollecitando la carità di tutti e raccogliendo viveri che poi distribuiva agli innumerevoli poveri che gli si stringevano intorno.
La sua opera, come tutte le opere di Dio, incontrò difficoltà che misero a dura prova la sua volontà, ma con la sua immensa fiducia in Dio e con la sua invitta fortezza di animo superò ogni ostacolo, dando origine all’Istituto delle “Suore Serve dei poveri” e alla “Congregazione dei missionari Servi dei poveri”.
Egli guidò i suoi figli e le sue figlie spirituali all’esercizio della carità nella fedeltà ai consigli evangelici e nella tensione verso la santità. Le sue regole e le sue lettere spirituali sono documenti di una sapienza ascetica in cui si accordano fortezza e soavità. L’idea centrale era questa: “Vivere alla presenza di Dio e in unione con Dio; ricevere tutto dalle mani di Dio; far tutto per puro amore e gloria di Dio”.
Questo magnifico “Servo dei poveri” si spense nell’esercizio di una carità che andava sempre più divampando sino a toccare vertici eroici. Essendo scoppiato un nuovo colera a Palermo, egli si adoperò senza pari per essere vicino, in tutti i momenti, ai suoi poveri. “Signore - egli ripeteva - colpite il pastore e risparmiate il gregge”. Ne uscì gravemente scosso nella salute e, a soli 54 anni, consumava il suo olocausto, consegnando amorevolmente la sua anima a quel Dio, il cui nome è Amore.
Preghiera
Amabilissimo Padre Giacomo Cusmano, che consumasti la Tua vita nell'Amore e nel Servizio di Cristo Gesù nella persona dei Poveri, insegnaci ad attuare nella nostra vita il «Comandamento Nuovo» del Signore, mediante la pratica amorosa delle Opere di Misericordia. Aiutaci a riscoprire la gioia del servizio per giungere «alla fede per mezzo della Carità». Liberaci dal sentirci tanto poveri da non poter niente donare, o tanto ricchi da non poter niente ricevere. Rendici capaci di condividere con gli altri quello che abbiamo e quello che siamo, in spirito di autentica comunione. Ottienici che, amando e servendo, sul Tuo esempio, Cristo nascosto nel mistero dei Poveri, possiamo un giorno contemplarLo e possederLo per sempre con Te nella Casa del Padre. Amen.
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Servo di Dio Emanuele Stablum (1895-1950)
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Servo di Dio Emanuele Stablum (1895-1950)
Servo di Dio Emanuele Stablum
Nacque a Terzolas, paese della Val di Sole (TN), il 10 giugno 1895 da genitori poveri, ricchi di virtù umane e cristiane. Aderì presto alla chiamata del Signore ed entrò tra i Figli dell'Immacolata Concezione nella comunità di Saronno (VA), ove dieci anni prima era morto il Fondatore, beato Luigi Maria Monti. Di Lui fu fedelissimo discepolo e studioso della vita. Si consacrò al Signore con i voti religiosi il 15 agosto 1913. Nel 1915 pervenne a Roma ove frequentò i corsi di filosofia in ordine al sacerdozio. Durante il primo anno del corso di teologia, fu invitato dal Superiore generale a passare alla facoltà di medicina, per cui s'iscrisse a "La Sapienza" di Roma. Passò, con vera sofferenza, alla nuova missione della sua vita che realizzò con spirito sacerdotale.
Laureatosi nel 1930 a Napoli, s'inserì l'anno dopo (primo medico della Congregazione) nell'attività sanitaria dell'Istituto Dermopatico dell'Immacolata di Roma, di cui fu direttore saggio e preparato per quindici anni. Realizzò in se stesso una felice simbiosi: fu religioso fedele alla sua consacrazione a Dio; fu medico attento a tutta la persona del paziente che curava con scienza e con amore; fu attivamente partecipe alla vita della sua Congregazione, di cui fu Vicario generale. La sua carità rifulse eroicamente nel 1943-44, quando aprì le porte dell'Istituto Dermopatico dell'Immacolata ai perseguitati dai nazisti. Salvò la vita ad un centinaio di rifugiati. Tra questi vi erano 52 ebrei, salvati dalla Shoah. Per questo atto eroico, compiuto a rischio della sua esistenza, lo Stato d'Israele gli ha donato l'onorificenza di "Giusto tra le Nazioni", alla memoria.
Nel 1945, per arricchire i medici di spirito apostolico, fu cofondatore dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI).
La piena conformità alla volontà di Dio fu il fondamento della sua pace nella sofferenza, da lui ritenuta sommo valore. La sua santa morte avvenne il 16 marzo 1950 in Roma nell’IDI, da lui trasformato nello spirito e nelle strutture con un servizio evangelico lungimirante e diuturno.
Fu sepolto nel cimitero del Verano, da dove il 16 marzo 2000 i suoi resti mortali sono stati traslati, con solenne cerimonia, nella chiesa dell'Istituto Dermopatico dell'Immacolata, ove riposano in attesa che la Chiesa si proclami sulla santità della sua vita.
Preghiera
O Padre, fonte della vita,
ti ringraziamo per aver concesso al tuo servo
Emanuele Stablum,
religioso e medico a te consacrato
nel nome dell’Immacolata,
il dono di sanare il malato
nell'anima e nel corpo
e di essere pienamente obbediente
alla tua volontà
nella prova della malattia e nell'ora della morte.
Concedi a noi, o Padre, per sua intercessione,
di vivere nella fede l'amore verso gli infermi,
di godere sempre della salute fisica e spirituale
e di ottenere la grazia
che in particolare ti domandiamo.
Per Gesù Cristo nostro Signore.
Amen. -
Santa Maria Josefa del Cuore di Gesù (1842-1912)
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Santa Maria Josefa del Cuore di Gesù (1842-1912)
Santa Maria Josefa del Cuore di Gesù
Maria Giuseppa del Cuore di Gesù, figlia primogenita di Bernabé Sancho, seggiolaio, e di Petra de Guerra, casalinga, nacque a Vitoria (Spagna) il 7 settembre 1842, e fu battezzata il giorno seguente. Secondo la prassi allora vigente, fu cresimata due anni dopo, il 10 agosto 1844. Rimasta orfana di padre all'età di sette anni, la mamma la preparò alla Prima Comunione, che ricevettea dieci anni. Quindicenne fu inviata a Madrid presso alcuni parenti per ricevere una educazione e una formazione più completa. Tratti caratteristici della sua infanzia e fanciullezza furono: una forte pietà verso l'Eucaristia e la Vergine Maria, una spiccata sensibilità verso i poveri e gli ammalati e una inclinazione alla ritiratezza.
Tornata a Vitoria verso i 18 anni, manifestò alla madre il desiderio di entrare in monastero, sentendosi da tempo attratta alla vita claustrale.
Da adulta, la Beata Maria Giuseppa soleva ripetere: "Sono nata con la vocazione religiosa". Solo che, a giudicare dalle circostanze, si evince che passò attraverso varie esperienze non senza contrastanti suggerimenti di saggi ecclesiastici, prima di trovare la forma definitiva della sua vocazione. Fu, infatti, in procinto di entrare fra le Concezioniste contemplative di Aranjuez nel 1860, ma ne fu impedita per il sopraggiungere di una grave malattia di tifo. Sua madre l'aiutò a superare la delusione.
Nei mesi successivi le sembrò di comprendere che il Signore la chiamava ad un genere di vita religiosa attiva. Fu così che si decise ad entrare nell'Istituto delle Serve di Maria, di recente fondato a Madrid da Santa Soledad Torres Acosta. Con l'avvicinarsi del tempo della professione, fu assalita da gravi dubbi ed incertezze sulla sua effettiva chiamata in quell'Istituto. Aprì il suo animo a diversi confessori e si sentì dire che aveva sbagliato vocazione.
I contatti col Santo Arcivescovo Claret e i colloqui sereni con la stessa Santa Soledad Torres Acosta, maturarono gradualmente la decisione di uscire dall'Istituto delle Serve di Maria per dar vita a una nuova famiglia religiosa, che avesse per scopo esclusivo l'assistenza ai malati negli ospedali e a domicilio. Condividevano questo ideale altre quattro Serve di Maria, che, con licenza del Cardinale Arcivescovo di Toledo, uscirono insieme con lei allo stesso scopo.
La nuova fondazione si fece a Bilbao nella primavera 1871, quando Maria Giuseppa aveva 29 anni. Da allora, e poi per 41 anni di seguito, fu superiora del nuovo Istituto delle Serve di Gesù. Si sobbarcò a penosi viaggi per visitare le varie comunità, finché una lunga malattia la confinò nella Casa di Bilbao. Costretta a letto o in poltrona, seguiva la vicende delle varie Case in Spagna e fuori mediante una fitta e preziosa corrispondenza. Alla sua morte, avvenuta dopo lunghi anni di sofferenze, il 20 marzo del 1912, erano 43 le Case fondate ed oltre un migliaio il numero delle sue suore.
La sua santa morte provocò una grande emozione a Bilbao e in altre numerose località dove era conosciuta attraverso le Case del suo Istituto. Anche i funerali ebbero una risonanza straordinaria. Fu sepolta nel cimitero cittadino di Bilbao. Già nel 1926, crescendo la fama di santità, i suoi resti mortali furono traslati nella Casa Madre dell'Istituto e tumulati nella cappella, dove tuttora riposano.
L'impronta specifica impressa dalla Beata all'Istituto delle Serve di Gesù riflette la sua esperienza interiore di anima consacrata al servizio caritatevole del prossimo, specialmente infermo, in un contesto di spirito contemplativo. Troviamo espresso bene questo suo concetto nel Directorio de Asistencias da lei scritto, dove arriva ad affermare che la Serva di Gesù procura all'infermo, che lei accompagna fino alla porta dell'eternità, un bene maggiore di quello del missionario che con la sua predicazione richiama gli erranti al retto sentiero della vita. "In questo modo - scrive - le funzioni materiali del nostro Istituto, destinate a procurare la salute corporale del prossimo, si elevano a grande altezza e fanno diventare la nostra vita attiva più perfetta di quella contemplativa, come insegna l'Angelico maestro San Tommaso a proposito dei lavori diretti alla salvezza dell'anima derivanti dalla contemplazione"
Omelia Canonizzazione
Santa María Josefa del Corazón de Jesús Sancho Guerra, fondatrice delle Serve di Gesù della Carità. Nella vita della nuova Santa, prima basca ad essere canonizzata, si manifesta in modo singolare l'azione dello Spirito. Questi la guidò al servizio dei malati e la preparò ad essere Madre di una nuova famiglia religiosa.Santa María Josefa visse la sua vocazione come apostolo autentico nel campo della salute, poiché il suo stile assistenziale cercava di coniugare l'attenzione materiale con quella spirituale, mirando con tutti i mezzi alla salvezza delle anime. Nonostante la malattia che la colpì negli ultimi dodici anni della sua vita, non lesinò sforzi né sofferenze e si dedicò completamente al servizio caritativo del malato in un clima di spirito contemplativo, ricordando che "l'assistenza non consiste solo nel dare le medicine e gli alimenti al malato; vi è tutto un altro tipo di assistenza... è quella del cuore, cercando di adattarsi alla persona che soffre". Che l'esempio e l'intercessione di Santa María Josefa del Corazón de Jesús aiutino il popolo basco a bandire per sempre la violenza e che l'Euskadi sia una terra benedetta e un luogo di pacifica e fraterna convivenza, dove si rispettino sempre i diritti di tutte le persone e non si sparga mai più sangue innocente!
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Venerabile Luigi Rocchi (1932-1979)
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Venerabile Luigi Rocchi (1932-1979)
Venerabile Luigi Rocchi
“Ti adoro mio Dio, Ti amo con tutto il cuore, Ti ringrazio di avermi creato … anche se Ti sono scappato un po’ male, va bene lo stesso!”: a pregare così è un uomo di 47 anni, che per 28 anni è un “crocifisso vivo”, totalmente immobilizzato, prima in carrozzella e poi nel suo letto. Già a quattro anni scoprono che il bel bambino, nato nel 1932, ha qualcosa che non va: per fare la prima comunione avanza verso la balaustra sorretto da mamma; a scuola cade continuamente, tanto che il preside invita la mamma a tenerselo a casa; non può correre come gli altri bambini e finisce per essere scartato da tutti; comincia ad aver bisogno di un bastone per camminare, poi di due, alla fine anche una pietruzza diventa un ostacolo insormontabile e per salire al piano superiore di casa sua i famigliari devono caricarselo in spalla. La diagnosi è delle più crudeli: distrofia muscolare progressiva, o morbo di Duchenne. Inoltre, a 9 anni, è coinvolto in un incendio per un bombardamento aereo che gli lascia in eredità una completa calvizie. Il primo a ribellarsi è lui, che attraversa tutte le fasi della difficile convivenza con la malattia: tristezza prima, crisi esistenziale poi, cui si aggiunge una crisi di fede e una ribellione fino all’orlo della disperazione. A salvarlo in extremis, dice lui, è la frase “Luigino, Gesù ti ama”, che mamma, come una cantilena, gli ripete da quando è piccolo, tanto più vera se si considera il cammino di fede che questa donna semplice ha dovuto compiere per arrivare, lei per prima, ad accettare la malattia del figlio ed a tenerselo in casa, contrariamente all’abitudine dell’epoca di ricoverarlo in qualche istituto. Deve rinunciare a formarsi una famiglia (che sognava numerosa e per la quale aveva già messo gli occhi su un paio di ragazze che gli piacevano molto), ritirarsi da scuola, perdere il lavoro da sarto perchè non più in grado di tenere l’ago tra le dita, rinunciare alle compagnie di cui era l’anima e starsene tappato in casa. Attingendo a quanto l’Azione Cattolica gli ha trasmesso in adolescenza, al crocifisso cui si aggrappa con la disperazione di un naufrago, alla preghiera che a poco a poco diventa il respiro della sua giornata, arriva alla conclusione che “quando si è una candela che si consuma si può scegliere di ardere in cantina o su un altare”. È impossibile dire quando e per quali vie arriva alla decisione di “ardere sull’altare” e con ogni probabilità, sono molte le circostanze che vi concorrono: forse i pellegrinaggi a Lourdes ed a Loreto, forse la fede di mamma, o magari anche l’amicizia di Giulio, che malato come lui gli insegna a soffrire con gioia. Il fatto è che da un bel giorno in poi la “mia vita non è più solo dolore; non che non soffra più…però il dolore si è fatto veicolo di gioia, di amore, di vita”. Entra a far parte della “Rete Radié Resch”, fondata da Ettore Masina e la sua solidarietà si dilata alle dimensioni del mondo, mentre scrivendo sul Messaggero di Sant’Antonio viene in contatto con malati e sani, diventando per tutti uno “scomodissimo” consigliere spirituale: insegna a tutti che “la vera sofferenza è non essere più capaci di amare”, mentre prega “che quanti hanno salute si accorgano della fortuna che hanno e della felicità che vivono”. Quando la sua immobilità si fa sempre più totale e le sue mani “non sono buone neppure più a scacciare una mosca dal naso”, impara a premere i tasti della macchina da scrivere con un bastoncino che manovra con la bocca, riuscendo così a far spedire anche una ventina di lettere al giorno, per incoraggiare, sostenere, consigliare. “Voglio imitare Gesù, che non ha amato la croce, ma ha amato noi a costo della croce”, confida ai più intimi, mentre insegna a tutti che non si tratta di “soffrire volentieri, piuttosto di decidere volentieri di far fruttare anche la sofferenza”. Lui fa così, tanto da poter confessare: “non mi sento né solo né inutile, perché ho amore per tutto e per tutti”. Continuando a “sentirsi un niente, ma un niente visitato da Dio”, Luigi Rocchi si spegne il 26 marzo 1979 e la diocesi di Tolentino ne ha avviato la causa di beatificazione, convinta che la sua eccezionale testimonianza possa diventare in aiuto per tutti i “cestinati dalla vita”. Papa Francesco in data 3 aprile 2014 lo ha dichiarato Venerabile.
Preghiera
Signore Gesù, che sai fare grandi cose con coloro che si fanno piccoli nelle tue mani, noi ti lodiamo per la gioia di vivere, di amare e di sperare in te, che hai concesso al nostro fratello Luigi Rocchi