La sfida di accogliere (8.12.17 – GT)

Secondo i dati resi pubblici dal Garante dei detenuti della Regione Lazio (www.garantedetenutilazio.it), al 30 novembre 2017, sono 3.155 (332 donne e 2.823 uomini) le persone detenute nei carceri presenti a Roma (Regina Coeli; Rebibbia Nuovo Complesso; Rebibbia Femminile; Rebibbia e Rebibbia III casa).

 

3.155 figli di Dio, ai quali si aggiungono le vite di familiari che spesso vivono il dolore, l’umiliazione e le notevoli difficoltà derivanti dalla condizione vissuta da un loro congiunto.

Fatto salvo quello che in questi casi compete alla giustizia umana e cioè fare la sua strada, sperando che essa sia accessibile, equa e rapida per tutti, è necessario interrogarsi sul come poter essere prossimi a questi fratelli e a queste sorelle. La sfida è ad esserlo in termini evangelici: “….ero in carcere e siete venuti a trovarmi”( Mt 25,36).

Ci sono anche nella nostra città dei volontari, delle associazioni che si occupano dei detenuti, ma siamo decisamente al di sotto del necessario. Occorre che la città alzi lo sguardo oltre  le proprie facili emozioni che non sanno tradursi in gesti; oltre i sentimenti che vanno e vengono a grande intermittenza.

Occorre alla città uno sguardo misericordioso che sappia abbracciare e confortare le vittime, anzitutto, ma poi anche i colpevoli, andando al di là dunque della mera per quanto indispensabile logica della giustizia. Per questo parliamo di amore di misericordia come propellenti indispensabili per fare quei passi in più verso coloro che hanno sbagliato, anche gravemente, sapendo che il giudizio finale non compete a noi.

La diaconia del servizio in queste situazioni è più che mai di prossimità, di vicinanza: occorre anzitutto andare e visitare; guardare negli occhi ed ascoltare , sospendendo il giudizio; aiutare con gesti bagnati di concretezza e di compassione: a quei 3.155 spesso manca molto di quel prezioso quotidiano che ci appartiene: indumenti (soprattutto intimi come mutande, calzini, maglie, reggiseni), dentifricio e spazzolini; sapone per le mani e per la doccia; pettini e rasoi. A molti di loro potrebbe essere sufficiente lo stare insieme, ogni tanto, per parlare ed essere ascoltati, per essere riconosciuti, nonostante quello che potrebbero aver compiuto, come essere umani che potrebbero risollevarsi, ricominciare da capo, dopo avere pagato quello che eventualmente sia dimostrato giusto che paghino. Ci sono alcuni detenuti che aspettano anche di poter pregare insieme, di poter partecipare, insieme, ad una santa messa in carcere, di poter leggere o ascoltare un brano del Vangelo. Perché non provarci?

A Roma ci sono 340 parrocchie ed una infinità di ambienti di lavoro: quello che i diaconi potrebbero fare è non solo andare di persona nelle carceri romane, ma ancora di più divenire dei ponti, dei facilitatori, tra le proprie comunità e i propri posti di lavoro in cui sono inseriti e questa “città fantasma”, dove assieme ai  detenuti vi sono altri figli di Dio da tenere presenti: il personale che vi lavora. E’ possibile e non è complicato organizzare visite,  basta chiedere e sarà facile sapere come (molte informazioni, si trovano già sul web, sul sito del Ministero della Giustizia o di qualche Associazione di Volontariato, es. per Regina Coeli, www.voreco.it ).