Al Vittoriano il corridoio delle ninfee di Monet

Sessanta opere ricostruiscono il percorso dell’artista dagli esordi alle raffigurazioni dei paesaggi rurali e urbani di Londra, dei soggiorni a Parigi e in Liguria

Un corridoio di ninfee virtuale apre e chiude la mostra di Monet (1840-1926). Empaticamente il visitatore scivola su uno specchio d’acqua in dissolvenza, alla ricerca di quelle impressioni che Monet, come un demiurgo, traeva dalla natura e fissava sulla tela, dipingendo non quel vedeva, ma la visione stessa dei fiori, con l’ambizione di misurarsi con l’impalpabile, l’aria e la luce. Una pittura nuova che apriva la strada alla modernità.

Guy de Maupassant lo definì «il cacciatore di immagini», altri «il barometro vivente e meteorologo dell’anima». Il pittore, che amava catturare e fissare sulla tela il mutar del cielo, del sole e delle nubi, fino a far confondere quasi l’acqua con il cielo, passava le giornate ad accarezzare con lo sguardo l’espressione più bella della natura: i fiori, che voleva ritrarre anche nelle più impercettibili sfumature, messe in luce dal sole. E a tal fine ripeteva  il soggetto con rapide pennellate, alterandosi facilmente quando il cielo si copriva di nuvole. Tele che all’unisono raccontano le due passioni di Monet: la pittura e il giardinaggio. A 42 anni, infatti, Monet si era trasferito nel borgo di Giverny, tra le colline del Vexin e la riva destra della Senna, a una settantina di chilometri da Parigi con la sua famiglia allargata (i figli del primo e secondo matrimonio). Nella casa dall’intonaco rosa coltiverà due giardini: quello privato e quello che circondava la casa. Di entrambi la mostra dà conto. Per quanto riguarda il primo, Monet ritrasse i figli, i suoi piccoli modelli, abbozzandoli non solo perché era difficile mantenerli in posizione, ma anche per coglierne la natura intima di esseri in divenire. Un album di famiglia che mai espose: è un’occasione dunque il poter ammirare il “Ritratto di Michel Monet” neonato, con berretto a pompon e con maglia blu.  Per quanto riguarda il terreno della proprietà, Monet lo trasformò con amore nel suo giardino, piantandovi alberi e fiori, come il papavero, il nontiscordardimé, rose, salici piangenti e ciliegi giapponesi, che paragonava ai fiori di Hokusai (su cui è in corso una mostra in altro museo). Soggetti che costituiranno l’essenza o meglio il simbolo della sua pittura.

E pensare che le Grandi decorazioni, una serie di pannelli monumentali dipinti all’età di 75 anni, dedicate esclusivamente allo stagno delle ninfee, caddero per lungo tempo nell’oblio. Medesima sorte che era toccata, molti anni prima, al capolavoro in mostra “Impressione, levar del sole”: una marina dall’indefinito soggetto, abbozzata nel 1872 dalla finestra di una camera di un hotel di Le Havre, città della sua infanzia. Capolavoro al quale si deve la definizione di impressionismo, sia pure inizialmente usata con derisione e disprezzo, per connotare pittori come Renoir, Degas, Pissarro, Manet, Zandomeneghi e lo stesso Monet, per citarne alcuni.

Il percorso espositivo illustra anche gli esordi di Monet. Non interessato agli studi scolastici – per sua ammissione, aveva assimilato «quattro regolette e un po’ d’ortografia», divertendosi a riempire i margini dei libri e quaderni con decorazioni fantasiose, il pittore eseguiva ritratti caricaturali dei suoi insegnanti e dei cittadini di Le Havre, che si riconoscevano in essi, o figure tipo, come quella del dandy (in mostra anche la celebre “La donna normanna”). Del resto, la caricatura era una raffigurazione in auge in Francia grazie alla stampa popolare. Seguendo il consiglio dell’amico Boudin, Monet cominciò a dedicarsi alla pittura e compì numerosi viaggi lungo la costa della Normandia, a Londra, Parigi e in Italia, per poi trasferirsi definitivamente a Giverny.

Concludono la mostra, le ultime opere dell’artista dedicate al ponte giapponese e al viale delle rose, in cui predominano il rosso o l’arancione, il blu e il verde. Colori meno delicati e sfumati rispetto alle opere precedenti, tali da non consentire quasi la visione del soggetto rappresentato. Colori dovuti anche alle conseguenze della cataratta, sebbene Monet vedesse bene da vicino. In esse la sua pittura, ancora una volta, poetica ed evocativa, s’avvicina all’astrazione e alle sperimentazioni espressive dei nuovi pittori del ‘900.

Monet. Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi c/o Complesso del Vittoriano . Fino all’11/02/18 Curatore: Marianne Mathieu. Catalogo Arthemisia Books.Orari:dal lunedì al giovedì 9.30 – 19.30; venerdì e sabato 9.30 – 22.00; domenica 9.30 – 20.30. Biglietti (audioguida inclusa):Intero € 15; Ridotto € 13; universitari (senza limiti d’età) € 7 ogni martedì, escluso i festivi. Per tutte le informazioni (comprese quelle per le aperture straordinarie previste nelle festività natalizie): tel. 06. 8715111.

7 dicembre 2017