Ci sono libri che si leggono e poi si dimenticano. E quelli che invece lasciano il segno e ci restano dentro. “Keyla la rossa” di Isaac Singer (Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi, pp. 280, 20 euro) appartiene a quest’ultima schiera. Apparso per la prima volta a puntate in lingua yiddish sul leggendario “Forverts” di New York tra la fine del 1976 e l’ottobre dell’anno successivo, non venne più ripubblicato dall’autore – che nel 1978 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura – sebbene fosse stato tradotto in inglese dal nipote Joseph, figlio di Israel Joshua Singer, come di norma sempre accadeva. In questi casi però Isaac sfoltiva il testo originale che noi invece oggi leggiamo, nella versione di Marina Morpurgo, nella sua interezza, proprio come accadde ai primi lettori. I quali, emigrati a Manhattan dopo essere sfuggiti alle terribili persecuzioni antisemite europee, prima ancora della Shoah, ritrovarono se stessi nei personaggi del romanzo: dall’indimenticabile protagonista, una giovane prostituta di Varsavia, alla cerchia dei suoi compari, Yarme il Ladro, Itche il Guercio e Max lo Storpio.
L’atmosfera del ghetto nella malfamata via Krochmalna, dove lo scrittore nacque e si formò prima di fuggire negli Stati Uniti seguendo il fratello Israel, è quella tipica dei racconti singeriani in cui gli ambienti religiosi coi devoti curvi sui rotoli delle sinagoghe si mischiano alle osterie sordide dove ubriaconi e mentecatti, poeti e ricettatori di ogni risma, affogano nell’acquavite le loro tragiche esistenze. Gli individui si incontrano e si scontrano senza apparente ragione, quasi fossero governati da un burattinaio costretto a improvvisare per chissà quale pubblico cosmico il suo incredibile spettacolo di miseria e nobiltà. Il romanzo è diviso in due parti, come tutta l’opera di Isaac Singer: la prima, carica di storie intrecciate fra di loro nella tradizione ebraica profonda, è polacca; la seconda, interamente rivolta al futuro nella speranza di una nuova prospettiva, americana. All’inizio Keyla si sposa con Yarme, poi si ribella e, nel tentativo di sottrarsi alla tratta delle bianche, scappa a New York con Bunem, il figlio del rabbino, anche lui alla ricerca di un valore esistenziale che sembra sfuggirgli. Il passato torna a bussare alla porta dei due fuggitivi sconvolgendo ancora una volta la loro vita.
“Keyla la rossa” è il romanzo delle radici spezzate che oggi possiamo leggere con sensibilità nuova pensando agli immigrati che sbarcano da noi. Non ha la forza di “Ombre sull’Hudson”, capolavoro pubblicato sempre sul “Forverts” vent’anni prima, ma proviene dalla stessa pasta. Proprio nello scenario di Brooklyn, dove si ammassano i rifugiati ebrei, ritroviamo il Singer più intenso: quello capace di rappresentare con potenza narrativa ineguagliata lo scarto fra vecchio e nuovo mondo. Le persone anziane si erano portate dietro dall’Europa i testi sacri ricevuti in eredità ma i loro figli sembra che non sappiano cosa farne. «Pareva che a New York tutti fossero solo di passaggio, come se l’intera città fosse un enorme scalo ferroviario». Ad Attorney Street, coi bidoni dell’immondizia piazzati davanti ai portoni d’ingresso delle abitazioni, perfino la Gemarah sembra diventata lettera morta. I ragazzi d’estate giocano con gli idranti e lanciano sassi contro le case abbandonate. «E Dio – commenta lo scrittore – faceva il suo mestiere: stava zitto».
11 dicembre 2017