Il Cantiere missionario: Marocco, dove la Chiesa si fa locanda

Il vescovo Benoni Ambarus

Una Chiesa «che si fa locanda», quasi a restituire quell’accoglienza che la Sacra Famiglia non ha avuto a Betlemme. Usa l’immagine del dare riparo e calore a chi arriva da lontano il vescovo ausiliare Benoni Ambarus, delegato per la carità e i migranti e incaricato dell’Ufficio missionario diocesano, per raccontare la prima delle quattro tappe del suo recente viaggio in Marocco, compiuto dal 21 al 25 novembre per «strutturare e riorganizzare le esperienze di missione», così da «rilanciare l’animazione missionaria, dormiente in molti gruppi nel post- Covid».

In particolare, della visita a Oujda, all’estremità orientale del Paese, al confine con l’Algeria, riferisce «della grande azione di sostegno per i percorsi migratori compiuta dai padri della Consolata, che ogni anno accolgono tra i 2mila e i 3mila migranti provenienti dall’Africa subsahariana, in quei viaggi della speranza o, meglio, della disperazione, che non sono solo quelli fatti con i barconi ma anche attraverso il deserto». Nella struttura gestita dai religiosi «i rifugiati recuperano la condizione fisica ma anche un equilibrio sul piano psicologico, dopo anni vissuti nel terrore – spiega Ambarus –. Rimangono anche per qualche mese e poi ripartono, nel tentativo di dirigersi in Spagna, raggiungendo la città di Melilla, ma alcuni scelgono pure di tornare a casa perché non ce la fanno».

Il vescovo racconta di avere incontrato qui un giovane fuggito dalla Guinea equatoriale e diretto a Mali, in Algeria, che «mi ha raccontato e mostrato i segni delle esperienze di sequestro e di violenza fisica subita sia dai trafficanti che dalla polizia». Ambarus ha negli occhi anche «le cicatrici di un ragazzo di 15 anni, partito dal Ciad a 12», portando con sé le speranze della famiglia che ha fatto fuggire lui, il maggiore di 7 figli, «insieme ad uno zio e ad un cugino e con in tasca 150 dollari». Al vescovo ha detto di essere «anche un po’ arrabbiato, pur comprendendo la speranza di un futuro che la famiglia ha provato ad offrirgli, ma soprattutto è certo che non tornerà mai a casa e anche del fatto che se avesse saputo quello che lo attendeva non sa se sarebbe partito». Chi non regge «lo stress del lungo e difficile percorso di fuga – sono ancora le parole di Ambarus – arriva alla patologia anche psichiatrica, già dopo l’arrivo a Oujda, che passa attraverso il lancio in un fossato profondo 10 metri e che lascia ferite fisiche ma anche al di là del corpo».

È a questo tipo di fragilità che offre accoglienza la Chiesa di Casablanca, il polo commerciale del Marocco occidentale. Un altro «stile di accoglienza» è quello che il presule ha visto attuato a Fes, città nordorientale del Paese, dove «la Caritas paga l’affitto di alcuni appartamenti attuando un’accoglienza diffusa per i migranti, che vivendo in questo modo non “danno nell’occhio” e sperimentano una vicinanza da parte dei volontari, prevalentemente studenti universitari, che si occupano di loro, specialmente per quanto riguarda i pasti, e che aprono loro per primi gli occhi rispetto a questa realtà della migrazione».

Ancora, «l’attività di integrazione culturale» di Rabat, capitale del Marocco, è per Ambarus «un’opportunità da offrire quale esperienza missionaria per far conoscere e sperimentare la convivenza tra protestanti e musulmani che si attua nell’Università della città, con una facoltà di Teologia che è realmente ecumenica». La volontà è quella di «realizzare per i prossimi tre anni un progetto concreto di sostegno anche economico a queste attività, aprendo un “cantiere missionario” – spiega Ambarus –, ma senza correre il rischio di diventare solo una specie di bancomat», bensì secondo la logica del «dare e insieme ricevere, vivendo un’esperienza in loco alla quale è necessario prima formarsi e prepararsi per partire la prossima estate e ritornare essendo poi risorsa e risonanza per altri».

Da gennaio è in programma dunque un percorso di formazione «per il quale anche padre Giulio Albanese ci ha dato la sua disponibilità».

di Michela Altoviti da Roma Sette

19 dicembre 2022