Il cardinale Reina: «Il riarmo dell’Europa porterà altro sangue. Basta violenze contro i migranti in Libia»

Il vescovo Baldo Reina (foto DiocesiDiRoma/Gennari)

Riportiamo di seguito l’intervista al cardinale vicario Baldo Reina pubblicata oggi, 9 giugno, sul quotidiano “La Stampa”. L’autore è Giacomo Galeazzi.

«Dopo gli orrori delle guerre mondiali, dei campi di sterminio, delle deportazioni di massa pensavamo di aver appreso abbastanza dalla storia per poter dire di “no” alle guerre o, in ogni caso, saperle arginare con la diplomazia e i negoziati. E invece abbiamo superato la regola del “occhio per occhio, dente per dente” che quanto meno imponeva una proporzione al male legandola a quello subito», dice il cardinale vicario di Roma Baldo Reina a cui il Papa ha affidato anche il Pontificio Istituto Teologico per la Famiglia.

Cosa provoca l’escalation?

«Oggi è tutto moltiplicato all’ennesima potenza; la difesa la si fa coincidere col riarmo pensando che dalla produzione di armi possa nascere la pace. La guerra è sempre una sconfitta. La corsa alle armi è una sconfitta che si macchia di altro sangue. All’Europa è mancata un’operazione culturale e antropologica su ampia scala in grado di recuperare le radici cristiane e umanistiche e farle diventare punto di crescita. Il grande progetto delle “famiglie di nazioni” alimentato dal pensiero politico di De Gasperi, Schumann e Adenauer non è riuscito a strutturarsi in maniera compiuta e i capisaldi valoriali che lo sostenevano non sono stati assimilati fino al punto da diventare cultura condivisa. L’unità, allora, è stata prettamente economico-finanziaria con diverse velocità di crescita e di sviluppo non accompagnate da un progetto comune».

Qual è il ruolo dell’Italia?

«Da decenni l’Italia avrebbe dovuto capire che il Mediterraneo era (ed è) un vero e proprio ponte che collega il nord e il sud del mondo, l’oriente e l’occidente. Questa posizione strategica, se interpretata bene poteva (e potrebbe) consentire all’Italia di giocare un ruolo strategico da un punto di vista geopolitico. Invece tutto è stato letto con la lente del fenomeno immigratorio, ancora una volta con la logica del braccio di ferro per stabilire se accogliere o respingere quanti arrivavano dal continente africano o dal Medio Oriente. Certe miopie, a volte, si pagano a caro prezzo».

Cosa propone Leone XIV?

«Serve una riflessione sui macro-fenomeni. A  farsene carico dovrebbe essere l’intero occidente e coloro che lo governano.  Leone XIV di fronte agli scenari di guerra continua a chiedere che i nemici si incontrino; che si realizzino i negoziati, le mediazioni e tutto ciò che può attenuare le tensioni per trovare vie concrete di conciliazione. Dall’incontro e dal dialogo può nascere e crescere una società veramente umana perché l’uomo è per sua natura essere-in-relazione. Senza la relazione o muore o uccide. L’autoreferenzialità, l’egoismo, l’orgoglio sono tutte facce della medesima malattia che impoverisce l’uomo perché non gli permette di vedere l’altro  con la conseguenza che mentre uccide si uccide».

È   la guerra “globale”?

« Ciò a cui oggi stiamo assistendo non è “semplicemente” una guerra tra popoli rivali circoscritti dentro territori ben delimitati ma è il massacro di un’umanità che ha fatto l’abitudine alla guerra, il cui cuore rischia di lasciarsi “anestetizzare” dall’apatia e dalla rassegnazione alla banalità del male. L’impegno etico non lo si può improvvisare, non può essere uno slogan: è frutto di formazione, di condivisione di valori, di visione del mondo e della vita. I sentieri affascinanti e ripidi del “sapere” hanno ceduto il passo agli algoritmi pensati per annebbiare il “ben dell’intelletto”. Senza pensiero critico non c’è ricerca della pace».

È pure una crisi educativa?

«Sì. Tutto sembra esserci sfuggito di mano. Basta stare qualche ora tra i corridoi di una scuola o ascoltare qualche genitore per rendersi conto della fatica che tutti fanno e facciamo ad educare e anche del respingimento dei giovani nei confronti degli adulti. Il nostro tempo è stato definito “senza padri” eppure di padri e di madri si ha bisogno non solo per venire al mondo ma anche per saperci stare. Si ha voglia di un patto tra le generazioni? La mia sensazione è che camminiamo tutti su rette parallele pensando di avere ognuno ragione o, quanto meno, ognuno le proprie ragioni. Prima che del patto forse serve ascoltarsi. Dobbiamo uscire dalla strettoia che da ragione ad alcuni e torto ad altri per entrare in un sentiero fatto di ascolto sincero, di compartecipazione senza giudizio, di comprensione senza etichette. Ho conosciuto tanti giovani straordinari con forme di ribellione e di disagio da fare paura ma che chiedevano semplicemente di essere ascoltati e accolti con le loro ferite e fatiche e ho ascoltato genitori ed educatori altrettanto frustrati nei loro fallimenti che aspettavano che qualcuno desse loro un’altra possibilità».

C’è pace senza giustizia?

«La giustizia è il pilastro fondamentale per ogni convivenza sociale. Riconoscere all’altro ciò che gli è proprio e ancor prima riconoscerlo soggetto con una propria dignità, indipendentemente da ciò che possiede o che opera è il punto di partenza di ogni intento di autentico sviluppo umano. Le disuguaglianze sono sotto gli occhi di tutti; ormai sono diventate la normalità. Senza giustizia non potrà esserci pace perché le disuguaglianze provocano rabbia sociale e generano conflitti difficilmente sanabili. Tutto questo ragionamento non può prescindere dall’urgenza di evangelizzare l’economica finanziaria il cui strapotere è palese. Nella visione cristiana l’altro è sempre mio fratello. Se accogliamo questo principio allora è possibile costruire legami autentici fra popoli diversi e con quanti arrivano da altri continenti (per lo più impoveriti da paesi più ricchi). Guardare l’altro con la giusta empatia permette di riconoscere che ha i miei stessi bisogni di pace, di giustizia, di benessere, di sviluppo, di serenità; così come prima ancora di guardare il colore della pelle bisognerebbe fermarsi a conoscere la sua storia, se ha vissuto dei drammi, se è dovuto scappare da guerre o dalla fame, se ha dovuto subire umiliazioni indicibili, se ha sofferto. Solo allora posso esprimere un giudizio e orientare le mie scelte».

A cosa si riferisce?

«Ho visto un video sui centri di detenzione in Libia. Quelle immagini mi tornano costantemente alla mente. E se a subire quelle torture fosse stata mia sorella o mia nipote? Fino a quando l’altro è lo straniero non potremo mai farci portatori di istanze etiche. Faremo solo discussioni da salotto. È importante ricordare che la cultura cristiana è incentrata sul riconoscimento dell’alterità. Siamo tutti sulla stessa barca, nessuno si salva da solo. Sulle migrazioni devono  misurarsi le organizzazioni sovranazionali. Se un tempo c’era la necessità di difendersi da un blocco territoriale oggi c’è l’urgenza di trovare strade nuove per non rimanere schiacciati dentro blocchi che non dialogano più o che ragionano solo per occupare o adottano strategie finanziarie per imporsi sull’altro».

 

9 giugno 2025