La scorsa settimana sono stato ai colloqui pomeridiani con gli insegnanti di mio figlio. Il giorno dopo ho incontrato i genitori degli studenti della mia scuola. Mio figlio frequenta il secondo anno, io insegno al triennio. Avendo ricevuto anche i genitori della mia classe terza, mi sono trovato in due giorni nella doppia veste di insegnante e genitore di ragazzi praticamente coetanei. Un punto di vista particolare, che vorrei raccontare.
Nella scuola di mio figlio i colloqui sono iniziati presto. Ho cercato di arrivare per tempo ma la fila era già lunga. Una volta entrato ho provato a saltare da una coda all’altra, con la speranza di parlare con più professori possibili. Come spesso capita c’erano insegnanti che riuscivano a fare progredire i colloqui velocemente ma, come spesso capita, c’era anche l’insegnante che aveva creato una coda infinita. Incontrati tutti i professori più rapidi mi sono fatto coraggio, con un «te tocca» mi sono messo in coda, nell’attesa mi sono messo a chiacchierare (poco) e ad ascoltare (molto).
A un certo punto ho assistito a uno scambio tra genitori che discutevano sugli impegni scolastici dei figli. Ciò che mi ha colpito è stato il grado di precisione con cui descrivevano le verifiche, gli argomenti svolti, il lavoro di gruppo e mille altri definitissimi dettagli che a un certo punto mi hanno fatto temere di essere finito nella fila sbagliata, perché io di quella valanga di informazioni ero assolutamente all’oscuro. Tornato a casa racconto a mia moglie dei colloqui ma soprattutto le condivido un dubbio: «Ma gli altri genitori sapevano tutto! Ma non è che noi saremo troppo assenti?». «Ma no – mi rassicura lei – mica ci andiamo noi a scuola! Dai ne parliamo domani, ora ceniamo». Ma il dubbio era lì.
Il giorno dopo anche nella mia scuola i colloqui iniziano presto. Cerco di gestire la coda, avendo tre classi è semplice. Dopo un po’ entrano la madre e il padre di un’alunna dal rendimento discreto. Inizio a parlare ma dopo poco sono loro che indirizzano il discorso su dettagli di verifiche, compiti e attività svolte dalla figlia in modo per me assolutamente sorprendente. E non che mi dia fastidio, tutt’altro. Resto però stupito dal grado di consapevolezza, ma soprattutto di partecipazione giornaliera, che immagino una tale presenza comporti. Li saluto, vado avanti con i genitori, constato che la coppia super informata non è l’unica, entrano altri genitori con lo stesso piglio. Terminati i colloqui, in macchina verso casa, penso ancora a quei due, su per giù miei coetanei. Lo spettro del dubbio del giorno prima inizia di nuovo ad aleggiare: già mi vedo alle prese con mia moglie e con un «quei genitori sapevano tutto! Ma non è che noi saremo troppo assenti?», e lei: «Ma no dai, mica ci andiamo noi a scuola! Ne parliamo domani, ora ceniamo».
Ovviamente i temi da tirare in ballo sarebbero molti. La questione della libertà e della responsabilità nella relazione educativa, oppure molto più mediaticamente tutta la tirata su genitori “spazzaneve” e figli inabilitati al fallimento, tanto per citarne qualcuno. Eppure, pur riservandomi il dubbio di un eccesso di retorica in certe discussioni, mi trovo a riflettere su un altro aspetto. Al netto del rischio semplificatorio, a me pare che dopo la generazione dei nostri genitori (oggi nonni dei nostri figli), nella gran parte dei casi fatta di storie familiari, lavorative, personali in genere riuscite, complice il periodo storico e sociale favorevole, oggi i genitori degli adolescenti vivano un paradosso comune. Le esistenze si sono complicate, le precarietà di ogni tipo aumentate. Succede allora che in modo più o meno inconscio le proiezioni sui figli aumentino in modo smisurato.
C’è sempre stata questa cosa, si dirà. È vero, ma oggi più che mai mi pare che, in un’epoca di difficoltà generalizzata, se c’è un fallimento che non possa essere più tollerato, questo sia proprio quello dei figli. Ma non da parte del figlio, come spesso si dice, quanto proprio da parte dei genitori che almeno su quel figlio ripongono speranze di riscatto, anzitutto per loro stessi. Ecco allora come ogni impegno, sforzo, attimo di tempo venga sempre più investito in una guerra che a un certo punto non si sa più per chi sia combattuta.
Il problema, o per l’appunto il paradosso, è che tali propositi poggiano su un tavolo per definizione precario: l’adolescenza, il momento in cui tutto deve traballare, proprio perché un nuovo equilibrio si crei; il tempo in cui il panorama è continuamente mutevole, dove i fallimenti spesso sono passaggi di ulteriori sviluppi non per forza funesti. Nasce quindi la domanda su quanto sia legittima questa corsa a cercare di imballare a prova d’urto un sistema che per definizione è del tutto instabile, su quanto questo concorra realmente al bene dei nostri ragazzi. A riguardo non ho risposte nette e certe, non angustierei continuamente mia moglie in caso contrario. Credo però che la domanda vada posta e che soprattutto il porcela sia assolutamente utile per i nostri figli (e questo lo si dice spesso) ma soprattutto utile per noi stessi (e questo lo si dice un po’ meno spesso). A tra quindici giorni.
20 dicembre 2017