«Le parole dell’Apocalisse, in questo tempo di cammino sinodale – nel contesto della pandemia e di un’ulteriore disastrosa guerra – risuonano nelle nostre comunità come un invito forte a rimetterci in moto, fidandoci dell’azione dello Spirito che scombina i nostri piani per poi ri-creare l’armonia. È un momento di Grazia grande, quello che stiamo vivendo: lo abbiamo sperimentato nelle assemblee sinodali vissute quest’anno, alla luce della Parola delle Beatitudini. È un tempo favorevole, un kairos, in cui siamo chiamati a lasciarci smuovere dal vento dello Spirito e a vincere le tentazioni del si è sempre fatto così, dell’autoreferenzialità, del pessimismo sterile e di quella che Papa Francesco definisce la mondanità spirituale». Il cardinale vicario Angelo De Donatis ha esordito così, questa sera, martedì 28 giugno, nella basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione della celebrazione dei primi Vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo, patroni di Roma.
Durante la celebrazione, il cardinale vicario ha consegnato ai presenti la sintesi del cammino sinodale fin qui compiuto nella diocesi di Roma (scarica il file in formato PFD), preparata dall’équipe sinodale diocesana e consegnata anche alla Conferenza episcopale italiana. Di seguito la riflessione del cardinale De Donatis.
INTRODUZIONE
“Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”(Ap 2,7).
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È un momento di Grazia grande, quello che stiamo vivendo: lo abbiamo sperimentato nelle assemblee sinodali vissute quest’anno, alla luce della Parola delle Beatitudini.
È un tempo favorevole, un kairos, in cui siamo chiamati a lasciarci smuovere dal vento dello Spirito e a vincere le tentazioni del si è sempre fatto così, dell’autoreferenzialità, del pessimismo sterile e di quella che papa Francesco definisce la mondanità spirituale:
Questa oscura mondanità si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente opposti ma con la stessa pretesa di “dominare lo spazio della Chiesa”. In tutti i casi, è priva del sigillo di Cristo incarnato, crocifisso e risuscitato, si rinchiude in gruppi di élite, non va realmente in cerca dei lontani né delle immense moltitudini assetate di Cristo. Non c’è più fervore evangelico, ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico .
La Diocesi di Roma non è esente da queste tentazioni. Nel cammino sinodale che stiamo facendo, ci siamo accorti che spesso nelle nostre comunità ci nascondiamo dietro l’apparenza o ci perdiamo in tante cose da fare, con divisioni di compiti – che per qualcuno diventano spazi di autonomia ed egemonia – ma non sempre con la consapevolezza che stiamo condividendo un unico cammino. In fondo è questo che l’itinerario sinodale vuole aiutarci a maturare. A volte si percepiscono le comunità ecclesiali come istituzioni in cui si propongono tante attività: dovremmo invece fare in modo che siano percepite come il luogo in cui si incontra il Risorto e si sperimenta la paternità di Dio, la sua vicinanza e il suo amore, e la fraternità cordiale tra gli uomini. Consapevoli che non siamo più in un’epoca cristiana, la fede non va più presupposta. Occorre ri-proporla, ritrovando in noi quella gioia contagiosa capace di attrarre altri. Si tratta di ricominciare con un cambiamento di rotta. Ricordiamo cosa disse Papa Francesco alla Diocesi nel maggio 2019:
La prima tentazione che può venire dopo avere ascoltato tante difficoltà, tanti problemi, tante cose che mancano è: “Dobbiamo risistemare la Diocesi, mettere tutto a posto, mettere ordine”. Questo sarebbe guardare a noi, tornare a guardarci all’interno. Si, le cose saranno risistemate e noi avremo messo a posto il ‘museo’. … Questo significa addomesticare le cose, addomesticare i giovani, addomesticare il cuore della gente, addomesticare le famiglie; fare calligrafia, tutto perfetto. Ma questo sarebbe il peccato più grande di mondanità e di spirito mondano antievangelico. Non si tratta di ‘risistemare’”.
Se tutto infatti si risolvesse in un “risistemare le cose” o un tornare a fare le cose di prima, sarebbe indice di uno sguardo miope sulla realtà. È necessario invece avere occhi nuovi, per vedere senza filtri la situazione in cui viviamo dal punto di vista di Dio e riannunciare il Vangelo con la vita all’umanità di oggi, così com’è.
Il Cammino sinodale della Chiesa italiana, giunto alla fine del suo primo anno, ha portato come frutto del lavoro comune l’individuazione di alcuni cantieri pastorali, decisivi per una riforma della Chiesa che non sia un’operazione di “facciata”, ma che punti a mettere al centro la missione evangelica. Si tratta di “cantieri” e non semplicemente di argomenti di riflessione: richiedono tempo, concretezza, motivazione a lavorarci insieme, disponibilità a sperimentare e, quando serve, a correggere il tiro.
In queste linee pastorali faremo volta per volta riferimento a questi cantieri, individuati e rilanciati a livello nazionale, ma emersi con chiarezza anche dalla sintesi dei contributi sinodali raccolti nella nostra Diocesi di Roma: il cantiere dell’ascolto di tutti “i mondi”, il cantiere della corresponsabilità e formazione dei laici e infine quello dello snellimento delle strutture ecclesiali .
Due sono le icone bibliche che accompagneranno il prossimo anno pastorale: quella dell’incontro tra il Risorto e i due discepoli di Emmaus e quella, proposta dal Consiglio Permanente della CEI, di Gesù accolto da Marta e da Maria nella casa di Betania.
1. SULLA VIA DI EMMAUS
Il Signore è risorto e cammina con noi
Andiamo al Capitolo 24 di Luca, alla sera di quel giorno dopo il sabato che ha cambiato la storia.
Era probabilmente il 9 aprile dell’anno ’30; alla sera, due uomini si ritrovano in cammino da Gerusalemme in direzione di Emmaus. Considerando che si muovono quando è ancora giorno e che per compiere undici chilometri occorrono poco più di due ore (probabilmente anche qualcosa di più, considerando come erano le strade a quel tempo) si presuppone che siano partiti intorno all’ora decima, le quattro del pomeriggio. Anche se non si trovano commenti in questo senso, ci piace pensare che i due discepoli incontrino il Signore nella stessa ora dell’incontro di Gesù con i primi due discepoli, come ci racconta l’evangelista Giovanni (cfr. Gv 1,35-39). Come allora, anche oggi tutto nasce (e rinasce) da un Incontro, da un avvenimento che cambia la storia di due persone e la storia di tutti.
Di uno di loro ci viene detto il nome, Cleopa, mentre l’altro rimane innominato. Forse l’evangelista vuole fare spazio ad ogni lettore dicendoci che quell’altro discepolo è ognuno di noi.
I due sono delusi e forse anche arrabbiati, con la vista offuscata dal dolore di una perdita che ha buttato all’aria in poche ore il cammino di tre anni di vita. Sono immagine dell’umanità smarrita davanti al silenzio di Dio sul mistero del dolore, della sofferenza, delle malattie, delle guerre, della morte, sulle grandi domande della vita. È la delusione nei confronti di un Dio che non interviene per salvare il suo Cristo appeso sulla croce e che anzi, nel momento della prova, sembra abbandonarci con indifferenza.
I due di Emmaus sono segno anche di una comunità cristiana che si è fermata alla morte, ad una Quaresima senza Pasqua (cfr. EG 6), una comunità infeconda, caratterizzata dal pessimismo sterile, con un grembo incapace di generare nuove vite. Fermi al “si è sempre fatto così”, non si vedono altre possibilità.
Invece il “Dio indifferente” si fa vicino, compagno di viaggio dell’uomo, ponendosi in ascolto. Sconosciuto viandante, si mette sulla strada e si mostra come ignaro di tutto, mentre era stato il protagonista di quei giorni, a differenza dei discepoli che erano scappati dalla croce.
Il viandante fotografa la loro situazione: separati tra loro e dagli altri, si allontanano abbandonando l’unità della Chiesa, quella per la quale Gesù aveva pregato nell’ultima Cena affidando i suoi discepoli al Padre. Ma i due hanno dimenticato tutte le parole del Gesù, anche quelle in cui annunciava, per ben tre volte, la sua passione e resurrezione; non hanno saputo mettersi in ascolto e custodire la Parola del Maestro
Gesù prende l’iniziativa del dialogo, ma non per rivelare subito che essi hanno torto e che lui è davvero risorto. Non dice che devono fidarsi di quello che le donne hanno raccontato e che devono credere. Chiede loro: Di cosa state parlando? (cfr. Lc 24,17). Inizia da loro. Sono invitati a esprimere la loro perplessità e la loro delusione, la loro rabbia. Non parla, non annuncia, non spiega finché non ha ascoltato.
L’ascolto è davvero il metodo e lo stile della Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, non è un’opportunistica strategia pastorale. È il metodo e lo stile del Signore. Gesù non fa mai “le cose in serie”, ma da persona a persona. Nessun miracolo, ad esempio, è uguale all’altro, ma egli sceglie le parole da dire e i gesti da compiere sulla base a ciò che ha ascoltato nel cuore del suo interlocutore, del suo desiderio di guarigione e di salvezza. Non è un ascolto “salottiero”, come quando si parla del più e del meno, ma un ascolto profondo, frutto dell’amore. Quando la Chiesa si fa prossima e ascolta così, rende presente il Signore che vuole venire incontro a tutti e a tutti rivolgere la sua amicizia.
Così si è espresso Papa Francesco alla preghiera del Regina Coeli di domenica 8 maggio 2022:
Ascoltare significa disponibilità, docilità, tempo dedicato al dialogo. Oggi siamo travolti dalle parole e dalla fretta di dover sempre dire e fare qualcosa, anzi quante volte due persone stanno parlando e una non aspetta che l’altra finisca il pensiero, la taglia a metà cammino, risponde… Ma se non la si lascia parlare, non c’è ascolto. Quanta fatica si fa ad ascoltarsi! Ascoltarsi fino alla fine, lasciare che l’altro si esprima, ascoltarsi in famiglia, ascoltarsi a scuola, ascoltarsi al lavoro, e persino nella Chiesa! Ma per il Signore anzitutto occorre ascoltare. Lui è la Parola del Padre e il cristiano è figlio dell’ascolto, chiamato a vivere con la Parola di Dio a portata di mano.
Sicuramente quello che i due dicono a Gesù: “Sei l’unico straniero a Gerusalemme che non sa quali siano le cose che sono accadute in questi giorni?” (Lc 24,18), è stato detto in modi diversi anche a noi oggi. Mi riferisco al fatto che spesso viene rimproverato a noi sacerdoti, ai religiosi, ma anche ai laici più impegnati in parrocchia: Voi non avete idea di cosa stiamo passando. Molte persone pensano che non ci rendiamo conto delle loro fatiche e delle loro lotte, di cosa significhi essere una giovane donna con un bambino indesiderato in arrivo, o un malato immobilizzato a letto che si augura solo di morire, o un padre senza lavoro con una famiglia da mantenere e delle bollette da pagare. Questa sensazione di non essere capiti si è aggravata durante questa pandemia, in cui abbiamo perso i modi abituali che avevamo di condividere la vita della nostra gente.
Per questo la cosa più essenziale da fare, in questo tempo così particolare, è ascoltare come fa il Signore. È il primo servizio, il primo gesto di amore senza il quale non c’è vita nello Spirito, non c’è annuncio del Vangelo al mondo, non c’è Chiesa.
Le persone hanno sete di questa vicinanza. In una società ricca di strumenti per la comunicazione, si è incapaci di comunicare speranza, soprattutto alle nuove generazioni. La Chiesa è Madre se, facendosi fecondare dalla Parola, si mette in ascolto di tutte le vicende della vita con l’orecchio di Dio e con le parole di Dio. Questo ascolto è già prossimità e annuncio, offerta di vicinanza e “buona notizia” per la vita ferita di tutti. Su questo ascolto dettato dall’amore si innestano le nostre povere parole, che danno testimonianza al Vangelo di Gesù. Se la Chiesa vuole annunciare il Vangelo si fa vicina, perché il Vangelo è vicinanza e ascolto. Altrimenti sta annunciando se stessa.
Ecco allora il primo cantiere della Chiesa italiana, quello dell’ascolto di tutti, delle persone e dei “mondi” a cui appartengono. Nel documento preparato dalla CEI è il cantiere dei villaggi, come Emmaus, come Betania. Siamo discepoli di un Maestro che non aveva strade preferite, ma che preferiva le strade di tutti, entrava in tutti i villaggi (anche in quelli non disposti ad accoglierlo: Lc 9,51-54), si avvicinava a tutti, era accessibile a tutti, soprattutto a chi era abituato a ricevere rifiuti, come i lebbrosi o le persone di cattiva reputazione. Ci siamo chiesti, in uno degli incontri sinodali di quest’anno, con chi fossimo “in debito di ascolto”. Questa prossimità non è un’operazione facile e scontata, chiede di imparare tutti quei linguaggi in cui si esprime la vita di tante persone, linguaggi a cui non siamo abituati, e che talvolta non sono nelle nostre corde.
Per la nostra Diocesi di Roma, come sappiamo bene, si tratta di continuare a custodire questa tensione verso l’incontro con chi ha preso le distanze dalla Chiesa, ben consapevoli che l’ascolto profondo può consegnarci la sorpresa di interiorità abitate dallo Spirito, aperte al Mistero di Dio, portatrici di un’umanità bella e sensibile alle ricchezze del regno; non è quello che ha scoperto Pietro incontrando Cornelio o che ha scoperto Filippo incontrando l’eunuco etiope? Di qui l’invito a tutte le comunità cristiane di continuare con convinzione l’ascolto delle storie di vita, l’elaborazione delle mappature del territorio, coordinati dall’ équipe pastorale parrocchiale, specie se fino adesso ci siamo mossi con timidezza e troppa circospezione.
La Parola che scalda il cuore
Il Risorto apre ai discepoli di Emmaus la mente alla comprensione delle Scritture. “Aprire” è un atto terapeutico, come era accaduto a Zaccaria e al sordomuto. È un “Effetà” necessario che spalanca e riscalda il cuore per poi passare agli orecchi, agli occhi e alla bocca.
La Chiesa ha bisogno di ricevere l’annuncio della Parola che guida e sostiene il cammino dei cristiani .
Nonostante gli itinerari sulla Scrittura, la pratica della lectio divina e della scrutatio si siano diffusi maggiormente in questi ultimi decenni, si deve ammettere che a volte nelle nostre comunità l’ascolto della Parola diventa una tra le varie proposte, ma non ancora la sorgente da cui attingere per tutto. È vero che c’è un diffondersi di attenzione alla Liturgia quotidiana (grazie anche all’uso dei messalini mensili), ma spesso la luce della Parola è ad uso personale; mancano ancora percorsi parrocchiali che facciano leva sulla Parola della domenica e dei giorni feriali .
Dovrebbero moltiplicarsi, nelle nostre comunità, i luoghi dello Spirito dove vivere l’ascolto della Parola; famiglie che meditano la Parola in casa, come succedeva durante il lockdown; gruppi che si incontrano per pregare la Parola, in modo da generare l’omelia grazie all’ascolto reciproco di presbiteri, diaconi, persone consacrate e fedeli laici. Occorre favorire esperienze che prevedano tutte le fasi del percorso della lectio divina, fino al discernimento spirituale, perché si cresca alla luce della Parola sul discernimento di cosa lo Spirito sta dicendo alla Chiesa.
Il cammino fatto sulle Beatitudini a cui sono stati “abbinati” altri passi del Vangelo, ha portato molti frutti. In molte parrocchie, per la prima volta, tutta la comunità nel suo insieme si è riunita per ascoltare la Parola e discernere “ciò che lo Spirito dice alla Chiesa”, rispondendo alle domande del questionario sinodale fatto diffondere dal Papa. Questa esperienza è troppo importante per lasciarla cadere. Per questo, per il prossimo anno proponiamo di continuare a realizzare questi incontri comunitari, sempre con il metodo della conversazione spirituale, utilizzando questa volta “schede” con alcuni brani degli Atti degli Apostoli che descrivono gli incontri tra i discepoli di Gesù e persone “lontane”, non solo dalla fede di Gesù ma anche da quella di Israele.
La meditazione di questi brani ci aiuterà a riconoscere quali dinamiche vanno attivate, che cosa farà accadere lo Spirito in quegli incontri, che strade percorrere per rimanere fedeli alla nostra missione.
2. UN PASSO INDIETRO… A BETANIA
Nostalgia di “casa”
Gesù in cammino ci svela e ci spiega la Scrittura e, nella familiarità con Lui, la sua Parola produce il primo frutto: l’ospitalità. Il Risorto non ha camminato invano. È pronto a fermarsi con noi.
Sappiamo bene che quando l’ascolto è profondo avviene il miracolo dell’ospitalità reciproca: l’altro crea uno spazio nella sua vita per noi e noi apriamo la casa del nostro mondo interiore a lui. È più difficile ospitare o farsi ospitare? Forse nel farsi ospitare siamo più vulnerabili, siamo più esposti all’altro, ci è richiesta maggiore umiltà. Per questo è così bello che ad Emmaus Gesù lasci l’iniziativa ai due discepoli: Resta con noi, perché si fa sera. In questa maniera egli ci insegna che il discepolo missionario non deve preoccuparsi di tutto, pianificare tutto, ma lasciar fare anche ai suoi interlocutori, creando lo spazio perché possa esprimersi la loro ricerca interiore, il loro desiderio di senso, di bellezza, di Dio. Anche in questo lo Spirito Santo ha il primato.
Ascolto e ospitalità ci rinviano ad un passo celebre del Vangelo di Luca, icona biblica del Cammino sinodale del prossimo anno, quello di Marta e Maria, spesso interpretate come le due anime della vita cristiana (e in particolare della vita consacrata): quella contemplativa e quella dell’apostolato diretto. In realtà, proprio perché sorelle, esse vivono e condividono insieme il medesimo compito di accogliere Gesù nella loro casa; insieme condividono la grazia di esser amiche del Signore. Come manifestare anche noi questa nostra amicizia lungo la strada del Cammino sinodale? Accogliendo come Marta (il servizio) dopo aver accolto come Maria (l’ascolto):
Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc I 0,38-42).
Gesù ha appena iniziato con decisione il viaggio verso Gerusalemme (cfr. Lc 9,51). In questo cammino ci sono i Dodici e alcune donne (cfr. Lc 8,1-2). C’è un primo nucleo di Chiesa che segue il Signore lungo la via. L’inizio del cammino sinodale è Lui che cammina con noi.
Il cammino di Gesù trova una sosta, grazie all’accog1ienza in una casa . C’è bisogno di un’esperienza domestica, di fermarsi ad incrociare volti, a raccontare ed ascoltare storie. Il Cammino sinodale ha evidenziato la sete di una Chiesa che torni nelle case, a segnare la vita quotidiana, per plasmarla della Parola di Dio. Ricordiamo come il tempo della pandemia, e in particolare del lockdown, abbiano riportato i cristiani a vivere gesti e segni domestici perduti da tempo, a causa dei ritmi frenetici delle nostre giornate. Abbiamo riscoperto la casa come luogo di preghiera e di catechesi. La dobbiamo riscoprire anche come luogo in cui ci lasciamo accogliere e accogliamo gli altri.
Quando Gesù manda i discepoli a predicare, insegna che non dovrebbero portare nulla con loro, “e in qualunque casa entriate, rimaneteci e di là poi partite” (cf. Lc 9,4). Gesù sta alla porta e bussa, e chi gli apre la porta e lo lascia entrare, rimarrà con Lui (cf. Ap 3,20). Quindi il nostro cammino sinodale include l’accettazione dell’ospitalità. Dovremmo imparare sempre l’arte di essere ospiti nelle case e nelle istituzioni di altre persone. Dovremmo, cioè, coltivare l’arte del coraggio di accettare l’invito a “stare in casa” con i giovani, o con gli ammalati o con i lavoratori o con gente più o meno lontana dalla Chiesa. Solo per goderci la loro compagnia, per provare il piacere di stare con loro. “Resta con noi, perché è sera e il giorno già volge al suo declino” (cf. Lc 24,29). Se vogliamo che siano a casa nella Chiesa, dovremmo ad un certo punto essere a casa con loro .
Ecco qui il secondo importante cantiere pastorale per il prossimo anno, quello che il testo della CEI indica come il cantiere delle case. Spesso pensiamo che per la missione della Chiesa siano necessarie strutture efficienti e ben organizzate. Sono utili, ma in realtà l’esperienza vissuta ci dice che l’essenziale della vita della Chiesa, che è la fede e la relazione tra cristiani, chiede soltanto la casa, l’ospitalità reciproca: tra il Signore e noi, tra i fratelli della comunità cristiana, tra i cristiani e tutti gli uomini.
La Chiesa è invitata ad assumere un volto domestico, vale a dire essere sempre più famiglia e sempre meno azienda. Una casa per tutti, con grandi finestre e grandi porte, per permettere a tanta luce e a tante persone di entrare, percependo che l’ingresso è “a bassa soglia”: è richiesto solo di essere persone che si portano nel cuore domande autenticamente umane, che hanno voglia di ascoltare e di condividere. Questa casa è tale perché mette al centro la relazione con Dio e quella con tutti gli uomini: per questo non blinda le uscite, non alza muri divisori, ma favorisce l’incontro con tutti. La Chiesa esiste non per se stessa ma per l’annuncio e il servizio al regno. Una Chiesa che “mette su un cantiere” per essere sempre più “casa”, accetta la sfida della semplificazione e dello snellimento della sua vita e soprattutto delle sue strutture, puntando su ciò che è essenziale.
È un cantiere che parte dalla consapevolezza che la vita concreta delle nostre comunità ha bisogno di una sincera ed onesta verifica: cosa il Signore ci chiede di abbandonare, cosa dobbiamo invece custodire come un bene prezioso, cosa va invece conservato. La Chiesa è chiamata a riformare la sua vita mettendo al centro tutto ciò che serve a far sì “che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori”, faccia casa nella nostra vita e nella vita della Chiesa. L’ospitalità reciproca tra i fratelli è il segno più evidente che il Cristo ha preso dimora dentro di noi e che l’amore che Lui ci ha donato diventa la sostanza dell’amore che ci scambiamo tra di noi e che offriamo a tutti gli uomini.
Come può essere tradotto questo nel cammino pastorale del prossimo anno?
All’interno delle schede per gli incontri sinodali inseriremo le domande che riguardano questo cantiere, in modo che esse possano diventare oggetto di riflessione e di verifica per tutta la comunità parrocchiale e di proposte per la riforma della concreta vita delle comunità.
Custodiamo e sosteniamo questo segno così importante, quello vissuto nella pandemia, di famiglie cristiane che pregano insieme e che ascoltano la Parola di Dio (o di gruppi ecclesiali che si riuniscono in casa); è un segno che ci fa bene, ci ricorda sempre l’indispensabile volto domestico della Chiesa.
Per favorire l’incontro con tutti si potrebbero progettare, nei tempi forti di Avvento e Quaresima, delle visite in casa di famiglie e persone che non partecipano abitualmente alla vita della comunità cristiana (es. vicini di casa, colleghi di lavoro, genitori dei bambini della catechesi e dei ragazzi dell’oratorio…). Si tratta di dare concretezza all’accettazione dell’ospitalità, che consiste nel secondo passo del metodo usato da Gesù per riportare alla speranza i discepoli delusi e smarriti.
Nella stessa logica continuiamo il lavoro dei “tavoli di ascolto”, realizzati dagli Uffici pastorali del Vicariato, così da creare reti di contatti e di condivisioni tra istituzioni e soggetti della società civile che operano in determinati ambiti (educativo, culturale, di solidarietà, della comunicazione, ecc.). Anzi, sarebbe meglio moltiplicarli nei territori, organizzati da équipe pastorali di prefettura, da costituirsi in ogni prefettura con lo scopo di collaborare insieme tra parrocchie per condividere e portare avanti il dialogo e l’azione nel territorio, in vista della costruzione di una “casa comune” dove sentirsi tutti accolti. Vi invito a ripetere anche il prossimo anno l’esperienza della Veglia dell’Ascensione di prefettura, valorizzando e coinvolgendo le comunità nazionali e le comunità etniche presenti a Roma: è un bel segno per la nostra città, chiamata ad una vocazione cosmopolita ma così tentata dalla chiusura e dal rifiuto.
La duplice accoglienza e la corresponsabilità
Riprendiamo la riflessione sul racconto evangelico di ciò che avviene nella casa di Betania. Gesù si ferma e ci invita a fermarci, grazie a due donne che non sono in contrapposizione, ma che sono chiamate a scoprire il duplice volto dell’accoglienza, perché l’ascolto sia l’anima del servizio. Abbiamo ben presente la scena. Marta si sta preoccupando e agitando, ossia “si occupa prima” di cose, pure importanti, ma che devono venire dopo quella che è la parte migliore: l’ascolto. Marta deve capire che l’accoglienza primaria è quella di ascoltare Gesù.
La sintesi del Cammino sinodale ha evidenziato che in tante comunità si fanno tante cose, ma poco ascolto. Maria ai piedi di Gesù ci esorta quindi a stabilire le giuste priorità, non moltiplicando i servizi ma mettendoci alla scuola di Gesù perché maturi in noi il cuore del servitore: è necessario innestare più profondamente le motivazioni degli operatori pastorali nella Parola di Dio e nei contenuti della fede, senza i quali il servizio verso la persona nel bisogno scade a prestazione verso il bisogno della persona. A questo proposito scrive così don Tonino Bello, commentando il gesto della lavanda dei piedi:
«Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell’azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all’interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: “si alzò da tavola” vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell’abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l’amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo».
Nella sua agitazione, una ragione Marta ce l’ha: “Non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille che mi aiuti”, il servizio non si fa “in solitaria”, ma domanda corresponsabilità. Solo che Marta avrebbe dovuto prima aiutare Maria ad ascoltare e poi Maria avrebbe aiutato Marta a servire, ma senza affanni. Spesso si nota, infatti, nelle nostre comunità, un prodigarsi per le cose da fare, con lo scopo di mantenere le strutture e far quadrare i conti, trascurando le relazioni e la comunione ecclesiale. A volte lo si nota nei presbiteri stessi, sempre di corsa, oberati e affannati, con poco tempo per dedicarsi alla missione di evangelizzare e accompagnare i cammini spirituali dei fedeli, e con poca apertura nel rendere i laici non solo collaboratori – se non esecutori – ma corresponsabili. A questo proposito risulta molto attuale e profetico il discorso che Papa Benedetto XVI rivolse ai parroci della Diocesi di Roma nel 2009:
Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa, rivolgendosi alle parrocchie solo in alcune circostanze per ricevere servizi religiosi. Pochi sono ancora i laici che sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi apostolici.
È necessario migliorare l’impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell’insieme di tutti i membri del Popolo di Dio. Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli “collaboratori” del clero a riconoscerli realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato. Questa coscienza comune di tutti i battezzati di essere Chiesa non diminuisce la responsabilità dei parroci. Tocca proprio a loro promuovere la crescita spirituale e apostolica di quanti sono già assidui e impegnati nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità che farà da fermento per gli altri. Affinché tali comunità, anche se qualche volta numericamente piccole, non smarriscano la loro identità e il loro vigore, è necessario che siano educate all’ascolto orante della Parola di Dio, attraverso la pratica della lectio divina… Nutriamoci realmente dell’ascolto, della meditazione della Parola di Dio .
Non è un caso che dalla consultazione sinodale sia emersa con tanta chiarezza la necessità di un cantiere dedicato alla corresponsabilità e alla formazione dei fedeli laici, che nel linguaggio del documento della CEI è chiamato il cantiere delle diaconie. Le nostre grandi parrocchie romane, spesso così attive e vivaci, per quanti sforzi facciano, non raggiungono tante persone. Il senso di anonimato e di abbandono che molti sperimentano nella nostra città è spaventoso. Perché le nostre comunità realizzino nel concreto la prossimità verso tutti, è necessario attivare un dinamismo opposto a quello dell’accentramento, tanto più se prende la forma del “clericocentrismo”.
Una comunità cristiana articola in maniera sempre più ricca la sua vita e la sua missionarietà, se non vengono posti freni o impedimenti arbitrari all’iniziativa dello Spirito che suscita ministeri e carismi. Anche la rivisitazione dei ministeri laicali, con l’introduzione del ministero del catechista e la possibilità a uomini e donne di accedere ai ministeri istituiti, va nella direzione di una Chiesa aperta alle infinite possibilità offerte dallo Spirito, che suscita sempre persone al servizio della diffusione e crescita del regno.
In questo cantiere dovremo lavorare quest’anno per favorire la vitalità degli organismi di partecipazione laicale parrocchiali (équipe, consiglio pastorale, consiglio affari economici, ecc.), di prefettura (in molti casi da creare) e diocesani, e la formazione di laici presenti e attivi nei nostri quartieri, superando il blocco delle anacronistiche “competenze territoriali” della divisione delle parrocchie. Dovremo tra l’altro ridefinire, sulla base delle mappature elaborate e in via di elaborazione, i confini delle parrocchie e delle prefetture.
Il Vangelo di Betania ci dice che al cuore della formazione di tutti i discepoli missionari c’è il primato dell’ascolto della Parola, dell’ospitalità offerta al Signore nella propria vita. A questa scuola impariamo che non c’è bisogno di “agitarsi e di affannarsi” in mille servizi, ma che insieme siamo chiamati a vivere la missione nei nostri territori con il primato del servizio di Maria, che è fatto di accoglienza, ascolto, testimonianza resa con le parole e con la vita all’annuncio del Signore.
Senza questo contesto di relazioni umane e umanizzanti, impregnate di Vangelo, l’azione della comunità cristiana diventa uguale e concorrente a quella di associazioni e cooperative laiche presenti nei nostri territori.
La formazione che la Diocesi offre a tutti gli operatori pastorali, non solo ai ministri istituiti, va meglio impostata in questa chiave del primato della dimensione spirituale, in modo da offrire una base forte di motivazioni al servizio. Le formule organizzative dovranno essere ripensate sulla base delle disponibilità effettive delle persone, tenendo conto dei ritmi della vita adulta e del necessario decentramento delle proposte. Si apre davvero un cantiere, che sarà molto promettente per il futuro della Chiesa di Roma.
3. DALLA PRIMA MESSA DOMENICALE ALLA VITA DI OGNI GIORNO…
Ritorniamo ora al brano di Luca 24, il racconto dei due discepoli di Emmaus. Siamo rimasti al momento in cui i discepoli si fermano, mentre Gesù sta per andare più lontano… I due insistono perché possa rimanere con loro, con quella invocazione che ha attraversato i secoli, diventando la preghiera più comune, più recitata e più cantata: “Resta con noi, perché si fa sera”.
Il luogo dove rimangono (dopo il Cenacolo, la prima Domus Ecclesiae) ci fa pensare alla nostra esperienza nel Giorno del Signore, alla centralità della liturgia nella vita di una comunità. Il desiderio comune è che la Messa domenicale sia esperienza di familiarità e di festa, di intimità e di incontro, di ricarica e di gioia, con l’anima “infiammata” dalla liturgia e da omelie che riscaldano il cuore.
La frazione del Pane
Il Risorto accolto come ospite fa fare l’esperienza del “rimanere con Lui”, come era accaduto ai due discepoli dopo il primo incontro, raccontato da Giovanni. Allora il quarto evangelista aveva scritto: “andarono con lui, videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui” (Gv 1,39). Non ci era stata descritta una casa, un luogo particolare, ma era stato consegnato un verbo: Abitare, dimorare, rimanere. Poco a poco i discepoli capiranno che l’abitazione del Maestro non è un luogo ma una Persona: il Padre, nella cui casa ci sono molte dimore (Gv 14). Possiamo credere che anche nella casa-locanda di Emmaus i discepoli abbiamo fatto l’esperienza, con l’amicizia di Cristo, della paternità di Dio. Allo spezzare del Pane – dopo che Gesù ha reso grazie al Padre – i discepoli non si sentono più orfani. Hanno riconosciuto il Figlio e, con Lui, hanno avvertito la presenza del Padre.
Hanno gustato nel Pane – su cui era discesa la rugiada dello Spirito – la presenza reale del Risorto, nella prima messa della storia, dopo una lunga Liturgia della Parola e un’intensa e sorprendente Liturgia Eucaristica.
Gesù sparisce alla loro vista perché è ormai presente in mezzo a noi, fino alla fine dei tempi, nella Parola e nell’Eucaristia, grazie allo Spirito del Padre. La fede non può avere a che fare con i fantasmi, ma è relazione con il Vivente che ha un corpo glorioso e trasfigurato, in cui rimangono per sempre le ferite dell’Amore, feritoie attraverso le quali passano raggi di paternità. Rendendo presente il Risorto, noi offriamo al mondo l’esperienza di una paternità di cui tutti hanno un’ardente sete.
Ritorno a Gerusalemme
Ora i due di Emmaus non temono più di tornare a Gerusalemme e, anche se è notte, corrono senza paura per annunciare agli altri che hanno visto Gesù. Ci piace pensare che corrono stringendo tra le mani il Pane di cui avevano mangiato un frammento, per portarlo nel Cenacolo e condividerlo con gli altri scoprendo che quelli avevano già accolto l’immensa gioia della Resurrezione, avendo creduto al racconto di una apparizione a Simon Pietro. E lì scoprono che il Signore li ha preceduti. Mentre essi parlano di queste cose, Gesù in persona sta in mezzo a loro e dice “Pace a voi!”. Ogni volta che si narra e si condivide la fede nel Risorto, Egli sta in mezzo e si manifesta. Il suo amore ci precede e ci accompagna.
Si, carissimi! Noi non sappiamo bene dove il Signore ci condurrà, attraverso il Cammino sinodale, attraverso il cammino dei sette anni fino al Giubileo del 2025, attraverso il lavoro di questi tre cantieri a cui si aggiungerà un quarto che individueremo insieme. Sappiamo solo che il Risorto non rimane nel Cenacolo, ma ci dà appuntamento nelle “Galilee delle Genti”, nei crocevia della storia, lì dove c’è un’umanità ricca e variegata, simile e diversa dalla nostra. Lui è lì.
È risorto e presente lì; non aspetta i nostri tentennamenti e le nostre resistenze, ma anticipa le nostre mosse con la sua iniziativa. Si sta già delineando la figura della Chiesa del prossimo futuro, la sta già tracciando il Signore di suo pugno, giorno dopo giorno. Inutile cercarla nelle sagrestie e nei locali che sanno di chiuso delle nostre strutture invecchiate.
La Chiesa del futuro è lì dove c’è questa nostra umanità nuova, ferita e incerta, appassionata ma pronta a ripartire, perché non si rassegna e cerca ancora il senso delle cose, lì c’è il Signore, lì sta emergendo il nuovo della Chiesa. Facciamoci trovare lì. Non lasciamo solo il Signore. Umili e appassionati. Desiderosi di accoglierlo ancora una volta, determinati a ripartire come dei pazzi anche se è notte. Proveremo l’ebbrezza e la vertigine del Nuovo che Dio immette nella storia di questa nostra città, di questa nostra Chiesa di Roma.
Così sia! Coraggio, con gioia, si riparte!
28 giugno 2022