6 Maggio 2025

Pellegrinaggio Diocesano a Lourdes 2017 Omelia del Vicario della Santa Messa internazionale

Omelia della Santa Messa internazionale
Pellegrinaggio Diocesano a Lourdes 2017
Basilica San Pio X 30 agosto 2017
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Amare Dio con il cuore umile di Maria

Per amare Gesù con il cuore di Maria sua Madre dobbiamo prima di tutto sapere perché Dio ha amato Maria, perché ha posato lo sguardo su di Lei. Ella stessa ce lo dice: «ha guardato l’umiltà della sua serva». L’umiltà è la più grande caratteristica di Maria. Perfino Lutero lo aveva capito e sottolineato. Nel testo biblico il termine greco dice piccolezza, bassezza. Un primo significato è sicuramente sociologico: Maria non era una vip, ma una donna Galilea che tirava avanti cercando di farsi una vita dignitosa nella fedeltà alla Legge. Anche il suo nome era ordinario (era diffusissimo allora). Tra l’altro non era un nome eroico: Giuseppe aveva il nome del grande patriarca figlio di Giacobbe, Gesù è contrazione di Giosuè il grande condottiero di Israele. E Maria? Niente glorie del passato. Anzi, la Maria più famosa era la sorella di Mosè che non era proprio una santa: una chiacchierona che calunniava il fratello! Maria non era speciale, però era unica. Noi dobbiamo fare questa scoperta, una vera conversione: smettiamo di fare gli speciali, e scopriamoci unici davanti a Dio. L’umiltà di cui parla il Magnificat va anche riferito alla beatitudine della povertà: beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno! Chi erano questi poveri al tempo di Gesù? Coloro che non potevano avanzare diritti ma vivevano per la bontà del datore di lavoro. Poveri erano i contadini a giornata, braccianti precari a vita. I poveri in spirito sono coloro che decidono di farsi precari davanti a Dio, cioè di dipendere ogni giorno da Lui senza avanzare pretese. I poveri del vangelo sono quelli che implorano «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Maria è umile dunque non solo perché non è speciale ma anche e soprattutto perché ha
scelto Lei di dipendere dal Padre e di non avanzare pretese verso il Figlio. Per questo motivo il cielo l’ha amata: Ella era spiritualmente una precaria senza rivendicazioni!
Sant’Agostino scriveva che per fare il cristiano sul serio ci vogliono tre virtù: «primo, l’umiltà, secondo, l’umiltà, terzo l’umiltà». Sempre l’umiltà, o se volete, tre ambiti di umiltà. Quali? Verso l’io, il prossimo, la storia (abbiamo già visto l’umiltà di Maria verso l’Altissimo). Prima di tutto l’umiltà verso se stessi: non siamo supereroi e non possiamo violentare la vita costringendoci di essere all’altezza di risolvere tutti i problemi; mancanza di umiltà verso se stessi è anche intristirsi sognando stili di vita che non possiamo permetterci. Dire quello che siamo – e non quello che pretendiamo di essere – è umiltà. Siamo delle creature: confessiamolo. Siamo giustamente abituati a confessare i peccati. Ma impariamo anche a dire «sono solo una creatura». Poi c’è l’umiltà verso il prossimo che è tanto grande: significa smettere di manipolare gli altri. Se io sono creatura anche l’altro ha il diritto di esserlo! Gli altri non esistono per diventare come li vogliamo noi. Il grande comandamento «ama il tuo prossimo come te stesso» va proprio in questa direzione. Il suo significato letterale è infatti «riconosci agli altri gli stessi diritti che hai tu». Gli altri hanno diritto di sbagliare, di arrabbiarsi, di ammalarsi… Infine l’umiltà verso la storia. La storia non è il palcoscenico del mio personale eroismo, ma della santità di Dio. Essa contiene il racconto della Sua fedeltà nei nostri confronti. Spesso invece la maltrattiamo con il vittimismo (la vita non mi ha dato questo e questo…) o la lamentela (dovevo fare strada io, e non questo, quest’altro buono a nulla): Maria né si lamenta né è vittima. Sta dritta in piedi sotto la croce.
L’umiltà che piace a Dio, che lo fa innamorare della creatura, è associata nel Magnificat ad un altro termine: “serva”. Ha guardato l’umiltà della sua serva. Maria si attribuisce questo titolo «serva». Eccomi sono la serva del Signore. Nella Bibbia questo termine – riferito agli amici di Dio – non ha un significato dispregiativo: pensate al servo di Isaia che è eletto da Dio. Oppure ad un amministratore delegato
di una grande casa (shalià in ebraico): anch’egli nella Bibbia è detto servo. Attualizzando allora il servo è «la persona di fiducia» non un burattino senza testa. Maria è serva in questo senso: è la donna di fiducia di Dio. Dio si fida di Maria proprio perché e umile. L’arroganza non ispira fiducia, l’umiltà di chi vive nella verità sì! Questa alleanza tra umiltà e affidabilità la troviamo nell’ultimo episodio del vangelo di Giovanni: il Risorto chiede a Pietro: «mi ami tu più di costoro?» e Pietro risponde con umile verità: «Lo sai tu Signore come e quanto ti amo, tu conosci il mio tradimento e il mio amore». Questa realistico sentire di sé fa sì che Cristo scelga Pietro come l’uomo di fiducia: «Pasci le mie pecorelle». Pensate nella nostra cultura come sono diverse le cose: per noi un leader forte è uno che sa il fatto suo, che non sbaglia mai, che mostra i muscoli. Nella Chiesa il vero cristiano affidabile e chi si confessa peccatore, chi non finge, chi parla senza problemi della sua pochezza. «Quando sono debole, allora sono forte» scrive Paolo ai Corinzi. Per servire il Signore ed essere suoi affidabili amici specializziamoci in umiltà. Essa è la più grande competenza per lavorare nel Regno.

Pellegrinaggio Diocesano a Lourdes 2017 Omelia del Vicario della Santa Messa della Riconciliazione

Omelia della Santa Messa della Riconciliazione
Pellegrinaggio Diocesano a Lourdes 2017
Basilica San Pio X 29 agosto 2017
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Ai piedi di Maria la Madre del Signore

Siamo qui ai piedi di Maria per un motivo grande: non solo perché ci sentiamo protetti, o perché fa le grazie, le guarigioni, ecc. Tutto questo è vero e Nostra Madre desidera accontentarci presso il Signore perché il Figlio le ha chiesto di occuparsi di noi. Ma il motivo fondamentale per cui siamo a Lourdes è perché duemila anni fa una donna è diventata la Madre di Dio. Cosa significa? Una cosa grande e inconcepibile dalla mente umana: se Maria non avesse detto “sì” all’Angelo nella sua casa di Nazareth, la nostra vita risulterebbe un “no”; sarebbe rimasta una serie di “no”, di desideri abortiti. Avremmo continuato a cercare Dio a tentoni senza mai trovarlo. Accettando la proposta di Dio Maria ha fatto sì che il Logos rifacesse amicizia col Caos dell’uomo! Umano e Divino sono ridiventati – come in Eden – amici: la terra è fatta per il cielo, e il cielo per la terra. Allora siamo qui perché in Maria capiamo bene – anche se non lo sappiamo esprimere – che tutto quello che ho nel cuore, tutto il mio caos, quello che ho lasciato a Roma, è il luogo dove io e il cielo facciamo amicizia. Stare ai piedi di Maria comporta sposare nuovamente se stessi e la realtà: non la mia parte migliore e basta. Ma – come diceva San Macario il Grande – dobbiamo avere un occhio umile e benevolo sia per il bene che è in noi sia per le zone ancora affascinate dal male, dalla contraddizione. La Madre di Gesù è l’illustrazione più potente di ciò che papa Francesco scrive nella EG «la realtà è superiore all’idea». Vietato scappare dunque! Chi resta con Maria, resta con la sua storia, senza angelismi. Chiediamo dunque a Maria di essere contenti della nostra vita: anche se è una “stalla”, Ella vi adagerà il Salvatore, come a Betlemme.
C’è anche un altro motivo, ancora più profondo. Maria non è una madre qualsiasi: bensì madre vergine. Cioè – lo sappiamo – è diventata madre senza concorso di uomo. Giuseppe è stato il suo vero marito, non il coniuge. «Nacque da Maria Vergine»: è il dogma della nostra fede. Perché? Che cosa cambiava se nostra Madre avesse concepito con un normale e sano rapporto coniugale benedetto da Dio nel matrimonio? Qui c’è un grande mistero della vita credente. Tutto quello che accade in e per Maria è un paradigma, una verifica, per il battezzato. E allora: Maria è vergine perché il Figlio di Dio non poteva essere il risultato dell’amore umano tra Lei e Giuseppe. Gesù è ‘gratis’, per questo Maria è vergine. Nessuna opera umana – nemmeno l’amore – poteva ‘metterlo al mondo’, «produrlo». Non esiste la «fecondazione della grazia assistita» né la grazia in provetta. Gesù è un dono, un regalo. I giudei del tempo sapevano di desiderarlo, lo attendevano, ma non potevano procurarselo da soli. Cristo – dunque – per usare una parola teologica è «indisponibile», ossia non manipolabile, controllabile. Guardando Maria noi impariamo una verità molto difficile: quello che mi serve per salvarmi, per essere nella gioia, IO NON POSSO DARMELO, e nemmeno lo possono gli altri!!! Maria lo sapeva bene: per questo dice all’Angelo «non conosco uomo», ossia «fai tu questa cosa bella, io non posso, non sono capace, da sola non posso dare al mondo il Messia atteso». Quando la creatura tocca il limite, allora Dio fa scavalcare i muri. Se pensiamo di salvarci da soli, o per i nostri soli meriti, rimaniamo legati al palo. Ma questa verità – se amata – diventa una vera gioia: «nulla è impossibile a Dio». L’impotenza di Maria e di ciascuno di noi è luogo confortevole su cui si posa la Potenza dell’Altissimo. Come la bambagia per il criceto! Ecco: diventiamo ‘vergini’ nel cuore: contenti di essere incapaci!
Infine, quando ci mettiamo ai piedi di Maria troviamo anche il serpente, il nemico dell’umana natura. Ricordiamo il libro della Genesi: Dio dice al serpente che la donna – prefigurazione di Maria – schiaccerà la sua testa. Lui cercherà di insidiare il calcagno ma non potrà morderla… perché la testa è tenuta ben ferma sotto il piede. E’ il mistero del male: c’è, si dibatte, si riorganizza sempre in forme nuove, ma non può vincere. Il cristiano non è uno che dice che va tutto bene, che illude gli altri con una pacca sulla spalla. Egli – come comandava Paolo – piange con chi piange! Ma allo stesso tempo non è un pagano senza speranza: il male – lo sa bene – non dura. Allora contemplando Maria e stando ai suoi piedi noi impariamo ad essere persone che vedono il male e si rattristano, ma sanno che ha le ore contate e quindi allo stesso tempo si rallegrano: «beati quelli che piangono perché saranno consolati». Si dice che il pessimista è solo un uomo ben informato. Noi siamo ottimisti non perché ci illudiamo, ma perché abbiamo ricevuto questa dritta – una buona notizia – : al male rimane poco tempo. Il conto alla rovescia è iniziato anche per il serpente. Ci vuole una fede che spera: facciamo l’elenco di tutto il male che c’è nella nostra vita, che abbiamo anche causato noi: peccati, indolenze, tradimenti, indifferenza, maldicenza, sregolatezza, prevaricazione del prossimo… guardiamo il ‘serpente’ e il suo veleno con onestà, senza giustificarci. E quando abbiamo terminato l’elenco diciamo a Dio: «grazie Signore perché il mio male, quello che ho fatto o ricevuto, ha le ore contate». Questa è la fede che spera e che ha animato Maria ai piedi della Croce.

Nuove nomine all’ORP, all’Edilizia per il Culto e all’Ufficio Clero

Il Vicario Generale S.E. Rev.ma Mons. Angelo De Donatis ha nominato Mons. Remo Chiavarini — nato a Sassoferrato (AN) il 16 maggio 1953 e Parroco di San Clemente dal 2015 ― quale nuovo Amministratore Delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi, succedendo in tal modo a Mons. Liberio Andreatta; ha altresì promosso Don Pierluigi Stolfi — nato a Roma il 14 settembre 1970 — a Direttore dell’Ufficio per l’Edilizia di Culto, di cui è stato Vice Direttore dal 2008; ha infine nominato Direttore dell’Ufficio Clero Don Massimo Cautero, nato a Roma l’8 luglio 1966 e Vicario Parrocchiale di S. Marco Evangelista al Campidoglio dal 2016.

Don Gabriele Faraghini nuovo Rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore

Don Gabriele Faraghini, Vicario generale dei Piccoli Fratelli di Jesus Caritas, è il nuovo Rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore. Nato a Roma il 21 novembre 1965, è stato ordinato presbitero per la diocesi di Roma il 16 maggio del 1992. Dal 1992 al 1997 è stato vicario parrocchiale nella parrocchia Sant’Ugo. Nel 2001 emette la professione dei voti perpetui nella fraternità dei Piccoli Fratelli di Jesus Caritas.
Don Gabriele succede a don Concetto Occhipinti, Rettore del Pontificio Seminario Romano dal 24 giugno 2011, che sarà parroco a Sant’Ireneo a Centocelle al posto di don Tonino Panfili, nuovo Vicario episcopale per la Vita Consacrata.

Le nomine dei nuovi parroci

Tre nel settore Est, sei al Sud, una all’Ovest, tre al Nord e due al Centro. Sono le novità che coinvolgono le parrocchie di Roma con le nomine dei nuovi parroci approvate dal Papa. Ma due interessano anche il Vicariato, per altrettanti direttori di Ufficio. Don Emanuele Albanese, romano, 38 anni, subentra alla guida dell’Ufficio matrimoni – dove già lavorava da due anni – al 78enne monsignor Virgilio La Rosa, fabbriciere della cattedrale di Roma, per ben 35 anni a capo dell’organismo diocesano. Al Servizio diocesano per la pastorale giovanile la nomina di don Antonio Magnotta, romano, 46 anni, da tre anni incaricato nel medesimo settore, ora impegnato in particolare nel cammino verso il Sinodo dei giovani.

Tornando alle comunità parrocchiali, tre cambiamenti nel settore Est, il più popoloso della diocesi di Roma. Don Filippo Martoriello, 48 anni, viceparroco ai Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, è il nuovo parroco di San Giuseppe Cafasso a Tor Pignattara e sostituisce don Giovanni Galli. Don Stanislao Iwanczak, nato a Czerna (Polonia) nel 1962, vicario a Nostra Signora di Czestochowa, sarà alla guida della comunità di Santo Stefano protomartire a Tor Fiscale, dove per quasi 30 anni è stato parroco monsignor Vincenzo Vigorito; a San Policarpo all’Appio Claudio, infine, arriva don Claudio Falcioni, 62 anni, da 13 parroco a Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Falcioni subentra a don Alessandro Zenobbi, 47anni, che andrà a guidare la comunità di Santa Lucia a circonvallazione Clodia (settore Ovest), affidata per 36 anni a monsignor Antonio Nicolai.

Nel settore Sud, don Fabrizio Biffi, 51 anni, sarà parroco a Santa Maria della Consolazione a Tor de’ Cenci (era a San Fedele da Sigmaringa). A San Benedetto all’Ostiense, finora affidata a don Fabio Bartoli, arriva don Vincenzo Sarracino, 61 anni, vicario a Santa Maria delle Grazie a Casal Boccone. La comunità di San Pio da Pietrelcina al quartiere Caltagirone saluta don Alfio Tirrò, 41 anni, nominato parroco a San Vigilio a Ottavo Colle– Vigna Murata, e accoglie don Tommaso Mazzucchi (finora vicario a San Benedetto Labre), che fino al 2014 era stato vicario proprio nella parrocchia intitolata a Padre Pio e che con i suoi 36 anni non ancora compiuti è il parroco più giovane. Nel settore Sud anche due amministratori parrocchiali: don John Jairo Betancur, degli Oblati Figli della Madonna del Divino Amore, nato a Venecia (Colombia) il 15 ottobre 1966, a San Romualdo Abate a Castel di Decima; sostituisce il 46enne don Massimiliano Barisione, che guiderà la comunità di San Carlo Borromeo a Fonte Laurentina.

Quanto al settore Nord, don Marco Ceccarelli, 46 anni, viceparroco di Sant’Atanasio, è il nuovo parroco di San Fedele da Sigmaringa a Pietralata; a Santa Maria Maddalena de’ Pazzi arriva don Paolo Matarrese, anch’egli 46enne, già cappellano al San Filippo Neri, mentre la comunità di Santa Maria delle Grazie a Casal Boccone sarà guidata da don Demetrio Quattrone, 50 anni, finora parroco a San Vigilio. Due, infine, le nomine nel settore Centro: a San Marco Evangelista al Campidoglio – la parrocchia affidata per dodici anni a monsignor De Donatis, nuovo vicario di Roma – arriva monsignor Renzo Giuliano, 67 anni, rettore di San Giuseppe dei Falegnami, mentre nuovo parroco di Santa Marcella all’Ostiense sarà il 40enne don Andrea Cavallini, vicario a San Saturnino.

10 luglio 2017

E’ morto monsignor Giuseppe Gulizia

Il Vicario Generale, S. Ecc. Mons. Angelo De Donatis, il Vicegerente e i Vescovi Ausiliari della Diocesi di Roma annunciano il ritorno alla casa del Padre di monsignor Giuseppe GULIZIA, Canonico della Basilica Papale di S. Giovanni in Laterano, già Parroco a Nostra Signora di Coromoto. Ricordandone il lungo e generoso ministero a favore della Diocesi di Roma, lo affidano al Signore della vita perché gli conceda il premio promesso ai servi fedeli.
Le esequie sono state celebrate martedì 18 luglio 2017, alle ore 10,30, nella Basilica di San Giovanni in Laterano

Preghiera di affidamento per la Diocesi di Roma

Roma 29 Giugno 2017, Basilica di San Giovanni in Laterano
Nella festa dei S.S. apostoli Pietro e Paolo

Preghiera di affidamento per la Diocesi di Roma
Di S.E. Mons. Angelo De Donatis, Vicario di Roma

 

Eterno Signore di tutte le cose
Tu sei la fonte della vita e hai dato origine all’universo;
da te proviene tutto quello che è buono e santo
e dà vigore al nostro spirito.

Ravviva nella Chiesa di Roma
lo spirito dei santi apostoli Pietro e Paolo
che tu ci hai dato come esempio e guida.

Con l’annuncio della parola viva ed eterna
essi hanno suscitato in questa Citta’
un popolo numeroso
che oggi è riunito attorno alla Mensa
preparata a noi dal tuo Figlio.

Nutrita del cibo che non si corrompe,
questa Comunità è pronta a riprendere il cammino
per continuare la missione che essi hanno iniziato
proclamando al mondo che Gesù è il Messia, è il Signore.

Fai che, animati dal loro esempio
e sostenuti dalla loro fraterna intercessione,
ci manteniamo pronti al buon combattimento della fede.

 

Donaci un cuore semplice puro
per essere capaci di riconoscere in ognuno
l’immagine del tuo volto
e vedere in questa età che tramonta
i segni di un tempo nuovo e migliore.

Fa che anche noi, come Pietro,
possiamo proclamare il nostro amore
nonostante la debolezza che ci inclina a cadere
e, come Paolo, sentiamo viva in noi
la grazia che ci spinge a servire il Vangelo
perché siamo stati afferrati da Cristo
e non viviamo più per noi stessi
ma per lui che è morto e risorto per noi.

Allora, divenuti veri discepoli
di Gesù tuo figlio,
sapremo scegliere quello che nel mondo
è debole e disprezzato e ciò che è nulla
perché nella nostra debolezza
appaia la potenza e la sapienza di Cristo.

Facci crescere in una comunione
viva, cordiale e sincera
con il nostro Vescovo, il Papa Francesco,
che tu hai scelto a presiedere nella carità.

Donaci di sentire «le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce degli uomini di oggi,
dei poveri, soprattutto, e di coloro che soffrono» (GS 1);
perché sono l’eco dei sentimenti di Cristo, vero uomo
che ci ha insegnato a pregarti incessantemente
perché venga tra noi il tuo regno.

Fa’ che impariamo a farci tutto a tutti
e siamo disponibili a condividere
la sorte dei più deboli.

Ravviva in noi lo spirito del tuo Figlio
che ci muova su vie nuove
per mostrare agli uomini
il volto puro della Chiesa
vera madre, che rigenera i suoi figli
nella Misericordia.

Affidiamo la nostra preghiera
all’intercessione dei santi apostoli Pietro e Paolo
e a Maria salus populi romani
che veneriamo come nostra Madre e Signora.

Si è spento don Antonio Claro Ruiz

Il 28 giugno 2017 si è spento don Antonio Claro Ruiz, del clero romano, cappellano ospedaliero del Policlinico Umberto I. Le esequie si sono tenute mercoledì 5 luglio, alle ore 15, nella basilica di San Lorenzo Fuori le Mura.

Monsignor De Donatis: «Roma abbia credenti autentici»

«Questa nostra città possa avere presenze di credenti autentici che diventino roccia su cui gli altri possano poggiare la loro fede». È il primo incoraggiamento rivolto ai fedeli della diocesi di Roma dal nuovo vicario del Papa, l’arcivescovo Angelo De Donatis, che ha presieduto a San Giovanni in Laterano giovedì, nella solennità dei santi Pietro e Paolo, la sua prima Messa capitolare da arciprete della basilica. A concelebrarla, tra gli altri, il vicegerente Filippo Iannone, il vescovo ausiliare per il settore Centro, Gianrico Ruzza, e il vescovo Luca Brandolini, vicario dell’arciprete di San Giovanni in Laterano. Il nuovo incarico di De Donatis, che succede al cardinale Agostino Vallini come vicario generale, è cominciato proprio nella festa degli apostoli patroni di Roma (la nomina risale al 26 maggio scorso). Al suo fianco tanti sacerdoti, che il presule ha avuto modo di seguire durante il suo ministero di vescovo ausiliare per la cura del clero.

Ad accogliere l’arcivescovo è stato il canonico monsignor Luis Duval, decano del Capitolo della basilica lateranense: «Tutti quelli che la conoscono hanno accolto la sua nomina con grande gioia e l’hanno saputa comunicare a quelli, come me, che non avevano avuto l’onore di incontrarla. Lei – ha detto rivolgendosi a De Donatis – è il benvenuto. Tutto il Capitolo non chiede altro che collaborare con lei per fare di questa basilica un luogo in cui i numerosissimi visitatori e pellegrini possano incontrare il Signore, la pace dell’anima e la forza di servire i fratelli». «Le vostre preghiere so che non mancheranno e so che mi sostengono», ha detto l’arcivescovo rivolgendosi al clero, ai tanti religiosi e ai fedeli presenti nella cattedrale di Roma, molti dei quali lo hanno accompagnato nei diversi incarichi che ha ricoperto. L’omelia è stata incentrata sul brano del Vangelo del giorno. «La nostra fede può diventare pietra su cui può fondarsi la fede degli altri. È Dio la roccia su cui poggiare il piede per non vacillare», ha detto il presule, che ha richiamato il brano che conclude il discorso della montagna, nel Vangelo di Matteo: «Gesù propone la metafora della casa e dei due costruttori, l’uomo saggio edifica sulla roccia se ascolta le parole di Gesù e le mette in pratica. Allora la casa regge. Roccia su cui si edifica la Chiesa diventa la fede stessa di Pietro. La roccia è l’alleanza stessa che Dio stabilisce con ciascuno di noi».

E proprio nell’apostolo, De Donatis trova un modello di accoglienza. «Pietro professa la sua fede perché sa accogliere. Il verbo più importante per un cammino di fede è accogliere, accogliere il dono di una rivelazione – ha aggiunto –. Pietro è roccia perché in lui si rivela la solidità di Dio, che ha bisogno di manifestarsi nella storia, nei segni di cui continuiamo ad avere bisogno, perché la nostra vita non fugga in un mondo virtuale ma rimanga incarnata nelle dinamiche della storia». Infine, un richiamo alla testimonianza di Paolo, che «sa che la sua fede sostiene quella degli altri; allora anche a lui il Signore promette di essere roccia su cui gli altri troveranno fondamento e rifugio». Al termine della Messa, animata dal Coro della diocesi diretto da monsignor Marco Frisina, i fedeli hanno salutato con un lungo applauso De Donatis, che ha concluso la celebrazione con una preghiera per la città.

 

30 giugno 2017

Saluto del cardinale Vallini al clero della diocesi di Roma

Dal Vicariato, 24 giugno 2017

Ai Reverendi Sacerdoti
della Diocesi di Roma

Cari Confratelli,

al termine del mio mandato di Vicario del Santo Padre per la Diocesi di Roma mi è caro rivolgere a tutti Voi un fraterno saluto ed un sentito ringraziamento per l’affetto fraterno che mi avete concesso e la generosa cooperazione nell’esercizio del mio ministero episcopale. Ho potuto ringraziare personalmente molti di Voi, che ho incontrato nelle scorse settimane in Vicariato o in altri luoghi, ma desidero esprimere la mia gratitudine anche con questo piccolo messaggio che confido possa giungere a tutti.

Considero una grazia ed un onore aver servito in questi anni la Chiesa di Roma e la Città, chiamato dalla fiducia di Papa Benedetto e poi di Papa Francesco, ai quali rinnovo il mio devoto ringraziamento. Ho avvertito che la grande responsabilità che mi è stata affidata ho potuto esercitarla grazie al fatto di averla condivisa quotidianamente con i fratelli Vescovi, Mons. Vicegerente, gli Ausiliari, e tutti Voi sacerdoti. A ciascuno e a tutti il mio profondo e fraterno grazie.

Nel corso di questi anni sono rimasto ammirato per la testimonianza di vita e di fedeltà al Signore e per la generosa dedizione del Clero romano. Certo, il tempo complesso che viviamo chiede a noi pastori uno sguardo lungimirante di fede ed un rinnovato coraggio di creatività pastorale per affrontare le sfide che abbiamo davanti e per rispondere ai bisogni spirituali delle famiglie e delle persone, vicine e lontane, che guardano alla Chiesa con speranza.

Il progetto pastorale che abbiamo costruito insieme, in obbedienza agli orientamenti e alle determinazioni del Sinodo Diocesano degli anni ’90, ha messo al primo posto l’urgenza di individuare vie nuove per riproporre il Vangelo e suscitare la fede, fondamento della vita cristiana, e per costruire comunità ecclesiali coscienti e testimonianti. Sono convinto che le scelte pastorali che abbiamo fatto nei convegni annuali, portate avanti con pazienza e tenacia, daranno i frutti desiderati. Andiamo avanti dunque con fiducia e letizia, certi dell’azione potente dello Spirito Santo che anima e vivifica la Chiesa.

Al carissimo fratello S.E. Mons. Angelo De Donatis, nuovo Vicario, formulo gli auguri più cordiali di un buon servizio e gli assicuro la vicinanza, la stima e la preghiera. Ricordatemi al Signore nella Vostra preghiera, come anche io mi impegno a fare ogni giorno per ciascuno di Voi e per le Vostre Comunità.
Con affetto fraterno.

Agostino Card. Vallini

Convegno diocesano 2017: il discorso del Santo Padre

Come diceva quel prete: “Prima di parlare, dirò due parole”.
Voglio ringraziare il cardinale Vallini per le sue parole e vorrei dire una cosa che lui non poteva dire, perché è sotto segreto, ma il Papa può dirlo. Quando, dopo l’elezione, mi hanno detto che dovevo andare prima alla Cappella Paolina e poi sul balcone a salutare la gente, subito mi è venuto in mente il nome del cardinale Vicario: “Io sono vescovo, c’è un vicario generale…”. Subito. L’ho sentito anche con simpatia. E l’ho chiamato. E dall’altra parte il cardinale Hummes, che era accanto a me durante gli scrutini e mi diceva cose che mi hanno aiutato. Questi due mi hanno accompagnato, e da quel momento ho detto: “Sul balcone con il mio vicario”. Lì, al balcone. Da quel momento mi ha accompagnato, e lo voglio ringraziare. Lui ha tante virtù e anche un senso dell’oggettività che mi ha aiutato tante volte, perché a volte io “volo” e lui mi faceva “atterrare” con tanta carità… La ringrazio, Eminenza, per la compagnia. Ma il cardinale Vallini non va in pensione, perché appartiene a sei Congregazioni e continuerà a lavorare, ed è meglio così, perché un napoletano senza lavoro sarebbe una calamità, in diocesi… [ride, ridono, applausi] Voglio ringraziare in pubblico per il suo aiuto. Grazie!
E a voi, buonasera!

Ringrazio per l’opportunità di poter dare inizio a questo Convegno diocesano, nel quale tratterete un tema importante per la vita delle nostre famiglie: accompagnare i genitori nell’educazione dei figli adolescenti.
In queste giornate rifletterete su alcuni argomenti-chiave che corrispondono in qualche modo ai luoghi in cui si gioca il nostro essere famiglia: la casa, la scuola, le reti sociali, la relazione intergenerazionale, la precarietà della vita e l’isolamento familiare. Ci sono i laboratori su questi temi.
Mi piacerebbe condividere con voi alcuni “presupposti” che ci possono aiutare in questa riflessione. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma lo spirito con cui riflettiamo è altrettanto importante dei contenuti (un bravo sportivo sa che il riscaldamento conta tanto quanto la prestazione successiva). Perciò, questa conversazione vuole aiutarci in tal senso: un “riscaldamento”, e poi starà a voi “giocare tutto sul campo”. L’esposizione la farò in piccoli capitoli.

1. In romanesco!
La prima delle chiavi per entrare in questo tema ho voluto chiamarla “in romanesco”: il dialetto proprio dei romani. Non di rado cadiamo nella tentazione di pensare o riflettere sulle cose “in genere”, “in astratto”. Pensare ai problemi, alle situazioni, agli adolescenti… E così, senza accorgercene, cadiamo in pieno nel nominalismo. Vorremmo abbracciare tutto ma non arriviamo a nulla. Oggi su questo tema vi invito a pensare “in dialetto”. E per questo bisogna fare uno sforzo notevole, perché ci è chiesto di pensare alle nostre famiglie nel contesto di una grande città come Roma. Con tutta la sua ricchezza, le opportunità, la varietà, e nello stesso tempo con tutte le sue sfide. Non per rinchiudersi e ignorare il resto (siamo sempre italiani), ma per affrontare la riflessione, e persino i momenti di preghiera, con un sano e stimolante realismo. Niente astrazione, niente generalizzazione, niente nominalismo.
La vita delle famiglie e l’educazione degli adolescenti in una grande metropoli come questa esige alla base un’attenzione particolare e non possiamo prenderla alla leggera. Perché non è la stessa cosa educare o essere famiglia in un piccolo paese e in una metropoli. Non dico che sia meglio o peggio, è semplicemente diverso. La complessità della capitale non ammette sintesi riduttive, piuttosto ci stimola a un modo di pensare poliedrico, per cui ogni quartiere e zona trova eco nella diocesi e così la diocesi può farsi visibile, palpabile in ogni comunità ecclesiale, con il suo proprio modo di essere. L’uniformità è un grande nemico.
Voi vivete le tensioni di questa grande città. In molte delle visite pastorali che ho compiuto mi hanno presentato alcune delle vostre esperienze quotidiane, concrete: le distanze tra casa e lavoro (in alcuni casi fino a 2 ore per arrivare); la mancanza di legami familiari vicini, a causa del fatto di essersi dovuti spostare per trovare lavoro o per poter pagare un affitto; il vivere sempre “al centesimo” per arrivare alla fine del mese, perché il ritmo di vita è di per sé più costoso (nel paese ci si arrangia meglio); il tempo tante volte insufficiente per conoscere i vicini là dove viviamo; il dover lasciare in moltissimi casi i figli soli… E così potremmo andare avanti elencando una grande quantità di situazioni che toccano la vita delle nostre famiglie.
Perciò la riflessione, la preghiera, fatela “in romanesco”, in concreto, con tutte queste cose concrete, con volti di famiglie ben concreti e pensando come aiutarvi tra voi a formare i vostri figli all’interno di questa realtà. Lo Spirito Santo è il grande iniziatore e generatore di processi nelle nostre società e situazioni. E’ la grande guida delle dinamiche trasformatrici e salvatrici. Con Lui non abbiate paura di “camminare” per i vostri quartieri, e pensare a come dare impulso a un accompagnamento per i genitori e gli adolescenti. Cioè, in concreto.

2. Connessi
Insieme al precedente, mi soffermo su un altro aspetto importante. La situazione attuale a poco a poco sta facendo crescere nella vita di tutti noi, e specialmente nelle nostre famiglie, l’esperienza di sentirci “sradicati”. Si parla di “società liquida” – ed è così – ma oggi mi piacerebbe, in questo contesto, presentarvi il fenomeno crescente della società sradicata. Vale a dire persone, famiglie che a poco a poco vanno perdendo i loro legami, quel tessuto vitale così importante per sentirci parte gli uni degli altri, partecipi con gli altri di un progetto comune. E’ l’esperienza di sapere che “apparteniamo” ad altri (nel senso più nobile del termine). E’ importante tenere conto di questo clima di sradicamento, perché a poco a poco passa nei nostri sguardi e specialmente nella vita dei nostri figli. Una cultura sradicata, una famiglia sradicata è una famiglia senza storia, senza memoria, senza radici, appunto. E quando non ci sono radici, qualsiasi vento finisce per trascinarti. Per questo una delle prime cose a cui dobbiamo pensare come genitori, come famiglie, come pastori sono gli scenari dove radicarci, dove generare legami, trovare radici, dove far crescere quella rete vitale che ci permetta di sentirci “casa”. Oggi le reti sociali sembrerebbero offrirci questo spazio di “rete”, di connessione con altri, e anche i nostri figli li fanno sentire parte di un gruppo. Ma il problema che comportano, per la loro stessa virtualità, è che ci lasciano come “per aria” – ho detto “società liquida”; possiamo dire “società gassosa” – e perciò molto “volatili”: “società volatile”. Non c’è peggior alienazione per una persona di sentire che non ha radici, che non appartiene a nessuno. Questo principio è molto importante per accompagnare gli adolescenti.
Tante volte esigiamo dai nostri figli un’eccessiva formazione in alcuni campi che consideriamo importanti per il loro futuro. Li facciamo studiare una quantità di cose perché diano il “massimo”. Ma non diamo altrettanta importanza al fatto che conoscano la loro terra, le loro radici. Li priviamo della conoscenza dei geni e dei santi che ci hanno generato. So che avete un laboratorio dedicato al dialogo intergenerazionale, allo spazio dei nonni. So che può risultare ripetitivo ma lo sento come qualcosa che lo Spirito Santo preme nel mio cuore: affinché i nostri giovani abbiano visioni, siano “sognatori”, possano affrontare con audacia e coraggio i tempi futuri, è necessario che ascoltino i sogni profetici dei loro padri (cfr Gl 3,2). Se vogliamo che i nostri figli siano formati e preparati per il domani, non è solo imparando lingue (per fare un esempio) che ci riusciranno. E’ necessario che si connettano, che conoscano le loro radici. Solo così potranno volare alto, altrimenti saranno presi dalle “visioni” di altri. E torno su questo; sono ossessionato, forse, ma… I genitori devono fare spazio ai figli per parlare con i nonni. Tante volte il nonno o la nonna è nella casa di riposo e non vanno a trovarli… Devono parlare. Anche scavalcare i genitori, ma prendere le radici dei nonni. I nonni hanno questa qualità della trasmissione della storia, della fede, dell’appartenenza. E lo fanno con saggezza di chi è sulla soglia, pronto ad andarsene. Torno, l’ho detto, qualche volta, sul passo di Gioele 3,2: “I vostri anziani sogneranno e i vostri figli profetizzeranno”. E voi siete il ponte. Oggi i nonni non li lasciamo sognare, li scartiamo. Questa cultura scarta i nonni perché i nonni non producono: questo è “cultura dello scarto”. Ma i nonni possono sognare solo quando si incontrano con la vita nuova, allora sognano, parlano… Ma pensate a Simeone, pensate a quella santa chiacchierona di Anna che andava da una parte all’altra dicendo: “E’ quello! E’ quello!”. E questo è bello, questo è bello. Sono i nonni che sognano e danno ai bambini una appartenenza della quale hanno bisogno. Mi piacerebbe che in questo laboratorio intergenerazionale facciate un esame di coscienza su questo. Trovare la storia concreta nei nonni. E non lasciarli da parte. Non so se questo l’ho detto una volta, ma a me viene alla memoria una storia che da bambino mi aveva insegnato una delle mie due nonne. C’era una volta in una famiglia il nonno vedovo: abitava in una famiglia, ma era invecchiato e quando mangiavano un po’ gli cadeva la zuppa o la bava e si sporcava un po’. E il papà ha deciso di farlo mangiare da solo in cucina, “così possiamo invitare amici…”. Così è stato. Alcuni giorni dopo, torna dal lavoro e trova il bambino che giocava con un martello, i chiodi, i legni… “Ma cosa stai facendo?” – “Un tavolo” – “Un tavolo, perché?” – “Un tavolo per mangiare” – “Ma perché?” – “Perché quando tu invecchi, possa mangiare da solo, lì”. Questo bambino aveva capito con intuizione dove c’erano le radici.

3. In movimento
Educare gli adolescenti in movimento. L’adolescenza è una fase di passaggio nella vita non solo dei vostri figli, ma di tutta la famiglia – è tutta la famiglia che è in fase di passaggio –, voi i lo sapete bene e lo vivete; e come tale, nella sua globalità, dobbiamo affrontarla. E’ una fase-ponte, e per questo motivo gli adolescenti non sono né di qua né di là, sono in cammino, in transito. Non sono bambini (e non vogliono essere trattati come tali) e non sono adulti (ma vogliono essere trattati come tali, specialmente a livello di privilegi). Vivono proprio questa tensione, prima di tutto in sé stessi e poi con chi li circonda1. Cercano sempre il confronto, domandano, discutono tutto, cercano risposte; e a volte non ascoltano le risposte e fanno un’altra domanda prima che i genitori dicano la risposta… Passano attraverso vari stati d’animo, e le famiglie con loro. Però, permettetemi di dirvi che è un tempo prezioso nella vita dei vostri figli. Un tempo difficile, sì. Un tempo di cambiamenti e di instabilità, sì. Una fase che presenta grandi rischi, senza dubbio. Ma, soprattutto, è un tempo di crescita per loro e per tutta la famiglia. L’adolescenza non è una patologia e non possiamo affrontarla come se lo fosse. Un figlio che vive la sua adolescenza (per quanto possa essere difficile per i genitori) è un figlio con futuro e speranza. Mi preoccupa tante volte la tendenza attuale a “medicalizzare” precocemente i nostri ragazzi. Sembra che tutto si risolva medicalizzando, o controllando tutto con lo slogan “sfruttare al massimo il tempo”, e così risulta che l’agenda dei ragazzi è peggio di quella di un alto dirigente.
Pertanto insisto: l’adolescenza non è una patologia che dobbiamo combattere. Fa parte della crescita normale, naturale della vita dei nostri ragazzi. Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia e desolazione. Inquadriamo bene i nostri discernimenti all’interno di processi vitali prevedibili. Esistono margini che è necessario conoscere per non allarmarsi, per non essere nemmeno negligenti, ma per saper accompagnare e aiutare a crescere. Non è tutto indifferente, ma nemmeno tutto ha la stessa importanza. Perciò bisogna discernere quali battaglie sono da fare e quali no. In questo serve molto ascoltare coppie con esperienza, che se pure non ci daranno mai una ricetta, ci aiuteranno con la loro testimonianza a conoscere questo o quel margine o gamma di comportamenti.
I nostri ragazzi e le nostre ragazze cercano di essere e vogliono sentirsi – logicamente – protagonisti. Non amano per niente sentirsi comandati o rispondere a “ordini” che vengano dal mondo adulto (seguono le regole di gioco dei loro “complici”). Cercano quell’autonomia complice che li fa sentire di “comandarsi da soli”. E qui dobbiamo stare attenti agli zii, soprattutto a quegli zii che non hanno figli o che non sono sposati… Le prime parolacce, io le ho imparate da uno zio “zitello” [ridono]. Gli zii, per guadagnare la simpatia dei nipoti, tante volte non fanno bene. C’era lo zio che ci dava di nascosto le sigarette, a noi… Cose di quei tempi. E adesso… Non dico che siano cattivi, ma bisogna stare attenti. In questa ricerca di autonomia che vogliono avere i ragazzi e le ragazze troviamo una buona opportunità, specialmente per le scuole, le parrocchie e i movimenti ecclesiali. Stimolare attività che li mettano alla prova, che li facciano sentire protagonisti. Hanno bisogno di questo, aiutiamoli! Loro cercano in molti modi la “vertigine” che li faccia sentire vivi. Dunque, diamogliela! Stimoliamo tutto quello che li aiuta a trasformare i loro sogni in progetti, e che possano scoprire che tutto il potenziale che hanno è un ponte, un passaggio verso una vocazione (nel senso più ampio e bello della parola). Proponiamo loro mete ampie, grandi sfide e aiutiamoli a realizzarle, a raggiungere le loro mete. Non lasciamoli soli. Perciò, sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti. Noi vediamo in tante parrocchie, che hanno questa capacità di “prendere” gli adolescenti…: “Questi tre giorni di vacanza, andiamo in montagna, facciamo qualcosa…; o andiamo a imbiancare quella scuola di un quartiere povero che ha bisogno…”. Farli protagonisti di qualcosa.
Questo richiede di trovare educatori capaci di impegnarsi nella crescita dei ragazzi. Richiede educatori spinti dall’amore e dalla passione di far crescere in loro la vita dello Spirito di Gesù, di far vedere che essere cristiani esige coraggio ed è una cosa bella. Per educare gli adolescenti di oggi non possiamo continuare a utilizzare un modello di istruzione meramente scolastico, solo di idee. No. Bisogna seguire il ritmo della loro crescita. E’ importante aiutarli ad acquisire autostima, a credere che realmente possono riuscire in ciò che si propongono. In movimento, sempre.

4. Una educazione integrata
Questo processo esige di sviluppare in maniera simultanea e integrata i diversi linguaggi che ci costituiscono come persone. Vale a dire insegnare ai nostri ragazzi a integrare tutto ciò che sono e che fanno. Potremmo chiamarla una alfabetizzazione socio-integrata, cioè un’educazione basata sull’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’agire (le mani). Questo offrirà ai nostri ragazzi la possibilità di una crescita armonica a livello non solo personale, ma al tempo stesso sociale. Urge creare luoghi dove la frammentazione sociale non sia lo schema dominante. A tale scopo occorre insegnare a pensare ciò che si sente e si fa, a sentire ciò che si pensa e si fa, a fare ciò che si pensa e si sente. Cioè, integrare i tre linguaggi. Un dinamismo di capacità posto al servizio della persona e della società. Questo aiuterà a far sì che i nostri ragazzi si sentano attivi e protagonisti nei loro processi di crescita e li porterà anche a sentirsi chiamati a partecipare alla costruzione della comunità.
Vogliono essere protagonisti: diamo loro spazio perché siano protagonisti, orientandoli – ovviamente – e dando loro gli strumenti per sviluppare tutta questa crescita. Per questo ritengo che l’integrazione armonica dei diversi saperi – della mente, del cuore e delle mani – li aiuterà a costruire la loro personalità. Spesso pensiamo che l’educazione sia impartire conoscenze e lungo il cammino lasciamo degli analfabeti emotivi e ragazzi con tanti progetti incompiuti perché non hanno trovato chi insegnasse loro a “fare”. Abbiamo concentrato l’educazione nel cervello trascurando il cuore e le mani. E questa è anche una forma di frammentazione sociale.
In Vaticano, quando le guardie si congedano, io li ricevo, uno a uno, quelli che si congedano. L’altro ieri ne ho ricevuti sei. Uno a uno. “Cosa fai, cosa farete…”. Ringrazio per il servizio. E uno mi ha detto così: “Io andrò a fare il carpentiere. Vorrei fare il falegname, ma farò il carpentiere. Perché mio papà mi ha insegnato tante cose di questo, e mio nonno anche”. Il desiderio di “fare”: questo ragazzo è stato bene educato con il linguaggio del fare; e anche il cuore è buono, perché pensava al papà e al nonno: un cuore affettivo buono. Imparare “come si fa”… Questo mi ha colpito.

5. Sì all’adolescenza, no alla competizione
Come ultimo elemento, è importante che riflettiamo su una dinamica ambientale che ci interpella tutti. E’ interessante osservare come i ragazzi e le ragazze vogliono essere “grandi” e i “grandi” vogliono essere o sono diventati adolescenti.
Non possiamo ignorare questa cultura, dal momento che è un’aria che tutti respiriamo. Oggi c’è una specie di competizione tra genitori e figli: diversa da quella di altre epoche, in cui normalmente si verificava il confronto tra gli uni e gli altri. Oggi siamo passati dal confronto alla competizione, che sono due cose diverse. Sono due dinamiche diverse dello spirito. I nostri ragazzi oggi trovano molta competizione e poche persone con cui confrontarsi. Il mondo adulto ha accolto come paradigma e modello di successo l’“eterna giovinezza”. Sembra che crescere, invecchiare, “stagionarsi” sia un male. E’ sinonimo di vita frustrata o esaurita. Oggi sembra che tutto vada mascherato e dissimulato. Come se il fatto stesso di vivere non avesse senso. L’apparenza, non invecchiare, truccarsi… A me fa pena quando vedo quelli che si tingono i capelli.
Com’è triste che qualcuno voglia fare il “lifting” al cuore! E oggi si usa più la parola “lifting” che la parola “cuore”! Com’è doloroso che qualcuno voglia cancellare le “rughe” di tanti incontri, di tante gioie e tristezze! Mi viene in mente quando alla grande Anna Magnani hanno consigliato di fare il lifting, ha detto: “No, queste rughe mi sono costate tutta la vita: sono preziose!”.
In un certo senso questa è una delle minacce “inconsapevoli” più pericolose nell’educazione dei nostri adolescenti: escluderli dai loro processi di crescita perché gli adulti occupano il loro posto. E troviamo tanti genitori adolescenti, tanti. Adulti che non vogliono essere adulti e vogliono giocare a essere adolescenti per sempre. Questa “emarginazione” può aumentare una tendenza naturale che hanno i ragazzi a isolarsi o a frenare i loro processi di crescita per mancanza di confronto. C’è la competizione, ma non il confronto.

6. La “golosità” spirituale
Non vorrei concludere senza questo aspetto che può essere un argomento-chiave che attraversa tutti i laboratori che farete: è trasversale. E’ il tema dell’austerità. Viviamo in un contesto di consumismo molto forte… E facendo un collegamento tra il consumismo e quello che ho appena detto: dopo il cibo, le medicine e i vestiti, che sono essenziali per la vita, le spese più forti sono i prodotti di bellezza, i cosmetici. Questo è statistica! I cosmetici. E’ brutto dire questo. E la cosmetica, che era una cosa più delle donne, adesso è uguale in entrambi i sessi. Dopo le spese di base, la prima è la cosmetica; e poi, le mascotte [gli animali da compagnia]: alimentazione, veterinario… Queste sono statistiche. Ma questo è un altro argomento, quello delle mascotte, che non toccherò adesso: penseremo più avanti a questo. Ma torniamo al tema dell’austerità. Viviamo, ho detto, in un contesto di consumismo molto forte; sembra che siamo spinti a consumare consumo, nel senso che l’importante è consumare sempre. Un tempo, alle persone che avevano questo problema si diceva che avevano una dipendenza dalla spesa. Oggi non si dice più: tutti siamo in questo ritmo di consumismo. Perciò, è urgente recuperare quel principio spirituale così importante e svalutato: l’austerità. Siamo entrati in una voragine di consumo e siamo indotti a credere che valiamo per quanto siamo capaci di produrre e di consumare, per quanto siamo capaci di avere. Educare all’austerità è una ricchezza incomparabile. Risveglia l’ingegno e la creatività, genera possibilità per l’immaginazione e specialmente apre al lavoro in équipe, in solidarietà. Apre agli altri. Esiste una specie di “golosità spirituale”. Quell’atteggiamento dei golosi che, invece di mangiare, divorano tutto ciò che li circonda (sembrano ingozzarsi mangiando).
Credo che ci faccia bene educarci meglio, come famiglia, in questa “golosità” e dare spazio all’austerità come via per incontrarsi, gettare ponti, aprire spazi, crescere con gli altri e per gli altri. Questo lo può fare solo chi sa essere austero; altrimenti è un semplice “goloso”.
In Amoris laetitia vi dicevo: «La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa» (n. 232). Mi sembra importante vivere l’educazione dei figli a partire da questa prospettiva, come una chiamata che il Signore ci fa, come famiglia, a fare di questo passaggio un passaggio di crescita, per imparare ad assaporare meglio la vita che Lui ci regala.
Questo è quello che mi è sembrato di dirvi su questo tema.

(Parole di ringraziamento del cardinale Vallini)

[Benedizione]

Grazie tante! Lavorate bene. Vi auguro il meglio. E avanti!
_____________
[1] «Per i giovani l’avvenire è lungo e il passato breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto. Essi sono facili a lasciarsi ingannare, per il motivo che dicemmo, cioè perché sperano facilmente. E sono più coraggiosi; poiché sono impetuosi e facili a sperare e di queste due qualità la prima impedisce loro di aver paura, la seconda li rende fiduciosi; infatti nessuno teme quando è adirato, e lo sperare qualche bene dona fiducia. E sono indignabili» (Aristotele, La retorica, II, 12, 2).

Intervento del cardinale Vallini al Convegno Diocesano

Cari fratelli e sorelle,
prendo la parola – per l’ultima volta – nel contesto di uno dei momenti più belli e fecondi della vita della nostra Chiesa: il Convegno diocesano. Abbiamo appena ricevuto la testimonianza di Pietro e il suo Magistero di guida della comunità e dunque ci sentiamo fortemente incoraggiati ad andare avanti con fiducia. E sono certo che lo faremo con impegno.
Mi sia permesso di confidarvi che, nove anni fa, accogliendo con spirito di fede e di obbedienza, da Papa Benedetto XVI il mandato di Suo Vicario per la Diocesi di Roma, confermato poi nel 2013 da Papa Francesco, mi sono lasciato guidare costantemente da due esigenze che mi sono apparse subito importanti: 1) essere fedele agli orientamenti del Sinodo diocesano degli anni ’90, che aveva posto la rievangelizzazione di Roma come priorità assoluta della pastorale; 2) avere uno sguardo attento sulla vita della città per individuare le forme e gli strumenti per una presenza attiva e incisiva dei cristiani, particolarmente dei laici. È infatti dinanzi a noi il fallimento di tutte le elaborazioni culturali del novecento, ritenute falsamente salvifiche, in un mondo globale, divenuto sempre più fragile, in un tempo di transizione delle società occidentali, di cui è divenuta espressione riassuntiva la categoria di “modernità liquida”.

Sappiamo bene che non basta interpretare, in modo sbrigativo, l’epoca che viviamo, segnata da un relativismo invasivo, che genera incertezza, solitudine, precarietà, e crescenti disuguaglianze, che fanno soltanto sopravvivere con rassegnazione. Provocati da tutto ciò, ci è chiesto di “riproporre la fede in Cristo, unico Salvatore dell’uomo”, irrobustirla, testimoniarla, annunciarla con coraggio ed entusiasmo. La nostra Chiesa, articolata in 336 parrocchie e in molteplici e vivaci espressioni ecclesiali (movimenti, gruppi, associazioni, comunità) avverte l’urgenza della missione; dunque è in grado di incidere nella vita spirituale e civile della città.

Consapevoli di tutto ciò, negli organismi diocesani di partecipazione (Consiglio episcopale, Consiglio dei Prefetti, Consiglio Pastorale Diocesano), abbiamo elaborato delle linee di impegno apostolico che mirassero a ripensare la pastorale ordinaria per renderla più intraprendente e audace.

In questi anni abbiamo iniziato un percorso, nel quale ci è parso di dover mettere al centro il Mistero pasquale del Signore celebrato nell’Eucarestia, soprattutto la domenica, da cui far maturare nei cristiani una più forte volontà di testimonianza della carità nello stile di vita. Abbiamo capito che oggi riproporre la fede significa mostrarla con gioia e capacità di attrazione. Siamo convinti che i destinatari della nostra missione non sono più soltanto le singole persone, ma le famiglie, partendo dai genitori, meritevoli di attenzione, amicizia e formazione.
L’altro aspetto, connesso certamente alla pastorale ordinaria ma di più largo orizzonte, è quello di far maturare la coscienza della responsabilità e della testimonianza attiva laicale negli ambienti di vita, fuori delle mura parrocchiali, dove la gente vive ed opera ogni giorno. I laici, i tanti laici cristiani ed anche i sinceri cercatori di verità che negli ultimi anni ho avuto la grazia di incontrare, con cui ho dialogato, in vista di una rinnovata presa di coscienza della responsabilità propria dei cristiani-cittadini nel tessuto vivo di Roma, mi hanno detto chiaramente e più volte di voler camminare insieme e di volersi impegnare.

Al laicato romano, ricco e articolato, sento di esprimere viva gratitudine per la disponibilità che ho sempre trovato, insieme alla richiesta a noi pastori rivolta di essere accompagnati in un cammino formativo serio e costante, perché ogni laico cristiano possa essere fermento vivo di fede e di carità nei diversi ambienti di vita, soprattutto tra i poveri. Certo è un cammino che domanda dedizione e perseveranza, ma che porterà grandi frutti.

Questa dunque la visione che ha ispirato e accompagnato la nostra azione pastorale: favorire e sviluppare vie nuove di annuncio del Vangelo; secondo, promuovere la presenza responsabile e missionaria soprattutto dei laici, nelle realtà del mondo, perché sappiano arricchire di senso cristiano le relazioni umane.

Se la pastorale diretta ha lavorato di più nel riproporre la fede soprattutto alle famiglie, a partire dalla pastorale battesimale e post-battesimale, e poi nell’accompagnare i genitori di ragazzi adolescenti e i giovani mediante soprattutto il potenziamento dell’esperienza degli oratori parrocchiali, nel più vasto campo della società civile si è cercato di promuovere e sostenere una cultura ispirata da una visione umana e cristiana che vedesse impegnati in attitudine di responsabilità i laici cristiani.

Siamo tutti convinti che in tutto ciò resta decisivo il modo di pensare e di vivere delle famiglie. Per questo i convegni annuali degli ultimi anni hanno sempre guardato ad esse offrendo aiuto e sostegno. Sono certo che anche il Convegno che questa sera si è aperto sarà fecondo per la vita delle comunità.

Cari fratelli e sorelle, porterò sempre con me la ricchezza di vita dell’amata Chiesa di Roma e la testimonianza di ciascuno di voi. Da parte mia mi impegno a sostenere con la preghiera quotidiana il vostro lavoro pastorale, sotto la guida saggia e prudente del nuovo Vicario. Anche voi pregate per me. Il Signore vi benedica tutti. Grazie.

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