15 Maggio 2025

Settimana della Famiglia dal 2 ottobre

“La sfida di educare” sarà il tema della Settimana della famiglia: otto giorni di eventi in programma fino a domenica 8 ottobre. Il via, domenica 1 alle 15.30 a Sant’Agnese in Agone (piazza Navona), con la cerimonia inaugurale a cura dell’Ufficio di pastorale familiare della diocesi di Roma e del Forum delle associazioni familiari del Lazio che hanno organizzato insieme la Settimana con il patrocinio dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Conferenza episcopale italiana, di Roma Capitale e del Consiglio regionale del Lazio. Una quarantina le associazioni coinvolte per dare vita alle quattro macro aree strutturali della Settimana: “Stare insieme”, “Fare insieme”, “Riflettere insieme”, “Celebrare insieme”. «In risposta all’Amoris laetitia abbiamo deciso di organizzare una Settimana della famiglia – spiega il direttore del Centro per la pastorale della famiglia della diocesi di Roma, monsignor ANDREA MANTO – per mettere in rete le realtà che lavorano per essa e con essa. La speranza è quella di accendere una luce nella città sul tema della famiglia perché sia valorizzata e, in tanti aspetti concreti, anche supportata e sostenuta. L’obiettivo – aggiunge – è ascoltare le vite delle famiglie, le loro gioie e le fatiche di ogni giorno per sottolinearne la centralità nella società e aiutarle nel prezioso ruolo educativo che svolgono attraverso un percorso ragionato di laboratori in cui i genitori possano essere coadiuvati da esperti nell’approfondimento delle dinamiche relazionali proprie dell’educazione».

Il programma prevede molti appuntamenti tra incontri di riflessione, laboratori, momenti di preghiera e di festa (il calendario completo è disponibile su www.settimanadellafamiglia.it) che si svolgeranno in diversi luoghi della città e nelle parrocchie. E sarà proprio la comunità di San Carlo Borromeo (via Edoardo Amaldi 215) a ospitare l’incontro “Una buona comunicazione per il benessere della famiglia”, alle 17 di domenica 1 ottobre e a cura dell’Apostolato Accademico Salvatoriano. Mentre, sempre alle 17, nella Casa Ronald Roma Bellosguardo (via degli Aldobrandeschi 3), e in collaborazione con l’associazione Mamme Care, si svolgerà il seminario per i genitori “Capire e gestire i capricci”. La sera, l’apertura dell’itinerario di preghiera per la Settimana della famiglia con l’adorazione eucaristica e la preghiera per le famiglie nella parrocchia di Santa Giovanna Antida Thouret (via Roberto Ferruzzi 110) alle 19.30. Ogni giorno una chiesa diversa ospiterà l’adorazione eucaristica e si pregherà per la famiglia.

La giornata di lunedì 2 ottobre si aprirà con l’incontro su “Il ruolo della famiglia nella prevenzione dell’uso di droghe”. Promosso dall’Ufficio di pastorale familiare del Vicariato di Roma e dal Forum delle associazioni familiari del Lazio, si svolgerà dalle 9.30 alle 13 nella Sala Monumentale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (largo Chigi 19) in collaborazione con il Dipartimento delle politiche antidroga della Presidenza del Consiglio (per accedere è necessario registrarsi sul sito internet della Settimana). Nel pomeriggio, tra gli appuntamenti previsti, alle 16.30 nel teatro del Pontificio Seminario Romano Maggiore (piazza San Giovanni in Laterano 4) si parlerà del tema cardine della Settimana “Famiglia, la sfida di educare” con al centro i “percorsi pastorali e culturali alla luce dell’esortazione apostolica Amoris laetitia”.

Tra gli altri temi che animeranno le iniziative, la presenza sul web dei più giovani sarà il fulcro dell’incontro “La rete e il gioco”, un laboratorio per ragazzi insieme agli agenti della Polizia postale, martedì 3 ottobre, alle 18, nella parrocchia Sant’Angela Merici e poi, mercoledì 4 alle 18, in contemporanea nelle parrocchie San Liborio e Santa Emerenziana, e giovedì 5, alle 20.30, di nuovo a Sant’Angela Merici. Durante gli otto giorni dell’evento si parlerà anche di altri temi di attualità: come le adozioni internazionali, mercoledì 4 ottobre dalle 16, nella Sala Nassiriya del Senato della Repubblica (per accedere è necessario registrarsi sul sito internet della Settimana); alla stessa ora, all’Itis Galilei, l’alternanza scuola-lavoro; il gioco d’azzardo, giovedì 5 ottobre alle 18, nell’auditorium di San Gregorio Barbarigo.

Una Giornata speciale sarà poi dedicata ai “Nonni, un dono per i nipoti, un ancoraggio verso il futuro”: sabato 7 ottobre dalle 10 alle 17.30 nella parrocchia di San Saba. Ma la “Festa della famiglia” vera e propria sarà la mattina di domenica 8 nel Parco Tutti Insieme, in via della Tenuta della Mistica, dove si svolgeranno le “Nonniadi”, momenti di gioco e attività, come il mini golf o il biliardino, che coinvolgeranno nonni e nipoti, mentre la Casa La Salle (via Aurelia 472) ospiterà attività e laboratori per tutta la famiglia dalle 9.30; alle 12 la Messa presieduta dal vescovo ausiliare GIANRICO RUZZA, segretario generale del Vicariato di Roma. Nel pomeriggio “Io e Te”, dalle 16 alle 18, il laboratorio teatrale cognitivo comportamentale a San Giuseppe al Trionfale e, alle 17.30, la commedia teatrale “Via dei Giubbonari”, nel Teatro Raffaello della parrocchia Santi Fabiano e Venanzio (via Terni 92) dove alle 19.30 si svolgerà anche la cerimonia di chiusura ufficiale della Settimana della famiglia.

Il mondo degli adolescenti, tra complessità e contraddittorie bellezze

Quando il direttore di Romasette.it mi ha proposto una rubrica sugli adolescenti, un secondo dopo la gratitudine, ho chiesto di potere riflettere un po’ prima di accettare. Insegno da quindici anni in un istituto di secondo grado e mi occupo di didattica e di formazione degli insegnanti, da anni mi capita di scrivere sulla scuola e, non ultimo, due dei miei tre figli sono adolescenti: il tema dovrebbe essere per me pane quotidiano.

Eppure la prima preoccupazione è stata sul cosa non avrei voluto scrivere in una rubrica che parla di adolescenti piuttosto che su cosa avrei potuto scrivere. Provo a spiegare. Oggi mi pare siano ricorrenti due tendenze ogni volta che gli adulti affrontano questo tema. La prima riguarda l’enfatizzazione della difficoltà dello sguardo tra generazioni, quasi sempre esercitato dall’alto verso il basso. Tanto più in una società dove la distanza d’età tra genitori e figli è andata aumentando, il confronto tra noi e i nostri tempi e loro e il loro tempo sembra sempre più arduo, per qualcuno impossibile.

La seconda tendenza è quella dell’enfasi sul montare del dato emergenziale. A scuola, sui media, al parco tra genitori, in parrocchia, dire adolescenza è sempre più dire, a caso e in ordine sparso, bullismo e cyberbullismo, violenze e fragilità, dipendenza dal mondo digitale, sessualizzazione precoce, incapacità della gestione emotiva, mancanza di motivazioni. Ecco, in queste due tendenze, semplificate in modo sbrigativo, si compendia tutto ciò che non vorrei scrivere in questa rubrica.

Non perché non ci sia del vero in analisi del genere: sarebbe stupido negare il realismo di un certo tipo di sguardo. Ma di questo in molti dicono e scrivono meglio del sottoscritto. Credo però che in questa alterità così burrascosa (mi basta pensare al dopocena di ieri, tra fuoco e fiamme con un figlio, sulla via crucis per la gestione del suo smartphone) esista ben più di un piano inclinato verso il basso o peggio di un precipitare verso l’abisso.

E lo dico non solo per l’esperienza quotidiana di un volto altro del mondo adolescenziale, assolutamente carico di bellezza. Per quanto altrettanto vero, per quanto esperienza dei molti che sanno accendere luci piuttosto che spegnerle, non sarebbe sufficiente ribadire il volto luminoso dell’adolescenza: rientrerebbe in ciò che è sempre stato l’eterno incontro/scontro tra le generazioni. Lo dico piuttosto per una convinzione anzitutto di pensiero, precisa, riguardante il nostro tempo e da questo determinata.

Sono persuaso che oggi questo confronto, al netto della gran fatica che impone, sia per noi adulti occasione imperdibile di riappropriazione di un mondo nuovo che non abbiamo ancora compreso, altro da quello che è stato e che loro abitano già. I nostri adolescenti comunicano in modo diverso, stanno nella storia in modo diverso, conoscono in modo diverso. I nostri adolescenti amano in modo diverso, odiano in modo diverso, soprattutto azzerano un bagaglio valoriale che è stato valido per generazioni.

Questa apparente tabula rasa spesso ci spaventa fino a diventare un lutto impossibile da elaborare. Eppure mi domando: siamo sicuri che il vuoto che questa generazione sta facendo sia un deserto senza vita? Non potrebbe essere invece un inedito spazio di libertà abitabile anzitutto da noi adulti? Siamo sicuri che sia necessariamente un male la rimessa in discussione delle pietre angolari della nostra generazione, siano esse antropologiche, culturali, ideali, spirituali?

Potrebbe esserlo, certo, ma per dichiarare il default c’è sempre tempo. Chissà se invece, provando a visitare il mondo degli adolescenti, nelle sue irriducibili complessità e contraddittorie bellezze, non possa aprirsi proprio per noi adulti un nuovo e inatteso spazio di conoscenza e di speranza. Sì, proprio a partire da quelli che ci sembrano gli spauracchi peggiori e su cui vorrei provare a dialogare con voi in questa rubrica. Appuntamento tra quindici giorni.

6 dicembre 2017

Parlare di sessualità è «allenare a pensare e a comunicare»

L’uomo, fin dalla nascita, è un essere sessuale; la sessualità viene appresa e si sviluppa in diverse fasi durante la vita. Il periodo dell’adolescenza, da sempre, è stato considerato una fase della vita che ha destato un grande interesse culturale, sia dal punto di vista della scienza che da quello della letteratura. Il bisogno di identificazione sessuale porta il bambino a voler scoprire come si comportano e cosa pensano le persone del suo stesso sesso. I gruppi che si formano spontaneamente sono monosessuali ed al loro interno si trasmettono modelli, atteggiamenti e notizie (spesso confuse e distorte) sulla sessualità. Gruppi di sesso diverso si fronteggiano, ma il contatto personale e diretto viene evitato: l’altro sesso è troppo sconosciuto e fa paura. Con l’avanzare della pubertà e dell’adolescenza, inizia il desiderio dell’altro sesso che viene percepito come totalmente diverso e dal cui riconoscimento («sì, tu mi piaci») dipende la legittimazione della propria identità.

La pubertà e l’adolescenza rappresentano un profondo cambiamento nella sessualità dell’individuo. Lo sviluppo degli organi genitali, della peluria, del seno e le conseguenti modificazioni psichiche caratterizzano in gran parte l’adolescenza. Questi profondi cambiamenti fisiologici e psicologici avranno influenza sia dal punto di vista della realtà concreta sia da quello del mondo interno del ragazzo: assume così particolare importanza l’immagine del proprio corpo. L’adolescente lo ama e lo odia, spesso è motivo di vergogna, passa ore davanti allo specchio, cura la capigliatura seguendo o contrastando mode, e così via. Per le ragazze la prima mestruazione è una esperienza di grande importanza, in quanto sottolinea inequivocabilmente la loro femminilità e la possibilità di generare. La preparazione ricevuta e l’atteggiamento degli adulti ne influenzeranno il vissuto.

Il corpo, in quanto osservabile da sé e dagli altri, è il mezzo con cui il ragazzo si presenta al mondo, in particolare ai coetanei; molte delle convinzioni che si possono avere su se stessi si basano sul sé fisico, che comprende sia l’aspetto corporeo che le abilità fisiche. Facilmente l’adolescente trae un senso di sé sulla base della definizione che gli altri danno di lui e del suo apparire fisico.

È una stagione della vita che racchiude un insieme di cambiamenti e di informazioni a vari livelli (sociale, culturale, familiare, scolastico, ecc.), che spinge il ragazzo ad una analisi di sé e della relazione con gli altri. Oltre ai rapporti con gli adulti ed alla ricerca dell’autonomia, l’adolescente si deve confrontare con la crescita fisica, con le relative ansie derivanti da una maggiore consapevolezza di un corpo che cambia, con l’interesse sessuale e con le prime esperienze sentimentali. L’importanza del ruolo del corpo risiede non tanto nell’ampiezza delle trasformazioni, poiché queste avvengono anche in altri periodi della vita, quanto nella capacità del ragazzo di osservare se stesso in cambiamento e l’influenza di tale cambiamento su altri aspetti, tra i quali il modo di viversi la sessualità. L’aumentata osservazione di se stessi è accompagnata da una accresciuta capacità osservativa nei riguardi dei coetanei, ai quali si guarda con attenzione e con i quali ci si confronta continuamente soprattutto per valutare la propria adeguatezza ed il proprio valore personale. Questo è il contesto di riferimento dove si formano opinioni e si trasmettono atteggiamenti: sono gli amici ed i compagni di scuola che diventano fonte di informazioni sulla sessualità.

Sembra che il rapporto tra genitori e figli tenda ad oscillare tra autoritarismo – che nega il conflitto – e permissivismo, che evita il conflitto. È difficile per gli adulti accettare un clima di conflitto e considerarlo per la sua parte sana, che invece porterebbe alla comprensione e all’accettazione dell’altro come essere in grado di esprimere e discutere le proprie perplessità e disaccordi. Pertanto, l’adolescente si trova meno esposto alle critiche ed alle proibizioni se si rivolge ai coetanei. Sembra difficile per i ragazzi effettuare comunicazioni che portino a mettere in gioco la loro affettività\sessualità (sia con genitori che insegnanti), perché il loro vissuto pare essere il rischio di ottenere una risposta autoritaria e giudicante piuttosto che un supporto che possa aiutarli a rafforzarsi.

L’adolescente, in ambito sessuale, ha svolto una elaborazione personale delle esperienze biologiche, relazionali, sociali e morali maturata attraverso le azioni educative del contesto familiare e successivamente scolastico. Gli adolescenti, con l’irruenza e la provocazione che li contraddistinguono, spesso lanciano un appello chiaro, facendo intuire che si aspettano da parte dell’adulto, più che delle informazioni precostituite (sia sull’argomento sesso, ma anche più in generale), una disponibilità ad entrare in relazione con loro.

Parlare di sessualità con i ragazzi non dovrebbe significare “addestrare”, ma allenare a pensare, a ragionare, a comunicare e a mettersi in relazione con gli altri. Ai ragazzi vanno forniti strumenti che consentano una migliore interpretazione delle situazioni relative alla sessualità, allo scopo di colmare l’inadeguatezza ed il vuoto tra l’aspetto fisico e quello psicologico. Educare con serenità ad una cultura della salute sessuale può significare aiutare gli adolescenti a coniugare la dimensione del piacere con quella relazionale ed emozionale. (Lucia Calabrese, psicoterapeuta e sessuologa)

 

27 ottobre 2017

Bullismo viaggia nei social e prospera con l’arroganza del sistema

Sempre più spesso all’attenzione dei servizi di psicologia e di neuropsichiatria infantile giungono ragazzi e ragazze che sono stati oggetto di vessazioni, in genere da parte di coetanei, nelle forme più svariate, il più delle volte nell’ambiente scolastico, o comunque in esso originate, talvolta al di là della stessa immaginazione, come si fosse protagonisti di un videogioco.

È un prodotto del tempo che viviamo, che si nutre ormai abitualmente della realtà virtuale (ossimoro per eccellenza!) che tende a far credere che ogni cosa sia possibile… e ciò forse è vero nella misura in cui ogni cosa si muova all’interno della propria dimensione. Purtroppo nel nostro tempo accade con sempre maggior frequenza che il mondo bidimensionale salti fuori dal monitor per invadere gli spazi reali, fino a prenderne il sopravvento e a determinare uno stravolgimento dell’esame di realtà da parte di chi non ha ancora sufficienti strumenti per distinguere il falso dal vero, parafrasando Guccini.

Sotto il termine “bullismo” si possono raggruppare comportamenti che ormai vengono considerati parte della cosiddetta normalità, perché nel mondo virtuale il bullo assume le stesse caratteristiche del furbo, si muove cioè sotto false credenziali, diventando così un modello cui aspirare, un esempio di pragmatismo cibernetico. E si sa che nel web non c’è spazio né per sentimentalismi né per moralismi.

Qui risiede la differenza fra il bullismo moderno e quello di una volta… un sempre maggiore assottigliamento dell’area affettiva, fino alla trasparenza, per usare una metafora radiologica. Il ritrovarsi cioè di fronte a una generazione con un progressivo indebolimento della capacità di criticare il proprio operato, perché viene sempre più a mancare la palestra del moralismo, sia esso pratico o puro.

Il bullo tradizionale, invece, era raggiungibile, aveva ben efficiente la capacità di confrontarsi con le proprie azioni, ed era proprio sul terreno del pragmatismo che poteva mostrare le proprie qualità sottostanti, alle quali agganciarsi per costruire un’alternativa, un percorso direzionato verso l’integrazione sociale.

Oggi il fenomeno bullismo viaggia attraverso i neo-social e fa proselitismo grazie all’arroganza del sistema, concepito in termini algoritmicamente verticistici, per cui uno solo può amministrare l’espressione del gruppo nascondendosi dietro l’omertà informatica, più bieca e cinica di quella conosciuta dalla mia generazione. Chi viene attaccato, infatti, non possiede appigli, non può far leva sulla dialettica e sulla razionalità, se viene circondato non trova nessuno su cui appoggiarsi… e se oggi questo accerchiamento avviene fisicamente, per la strada, gli altri, quelli onesti, non sono più abituati a frapporsi, a fare da scudo contro l’ingiustizia e la stupidità, come se si stesse perdendo sul piano epigenetico la capacità spontanea di proteggere gli individui della specie esposti a un rischio contingente nel contesto sociale.

Il fatto preoccupante è che attualmente gli insegnanti, ultimo baluardo da frapporre fra i bulli e le loro vittime, sono in seria difficoltà, non avendo la piena autorevolezza che veniva riconosciuta come insita nel loro ruolo, venendo addirittura non infrequentemente sconfessati dagli stessi genitori. In questo stravolgimento dei tradizionali ruoli sociali, un intervento dell’insegnante rischia di attivare meccanismi di rinforzo da parte dei genitori stessi, fino a poter precludere l’efficacia educativa di un deciso richiamo alle regole di convivenza e di reciproco rispetto.

Ciononostante, proprio gli insegnanti possono configurarsi come l’anello di congiunzione tra le parti in gioco, potendo agire sia sui precursori del bullismo, cioè sul vuoto antecedente che favorisce l’attecchimento del gioco sadico che seleziona la vittima e la offre in pasto al carnefice, sia sugli eventi successivi all’episodio di bullismo, laddove solo l’intervento di un arbitro adulto consente di stroncare l’aggressione prima che incida sull’equilibrio di chi subisce, fino a determinare effetti in alcuni casi devastanti.

Di fronte alla prepotenza del “disimpegno morale”, occorre riaffermare il primato delle regole basate sul rispetto e sulla responsabilità individuale, presupposto imprescindibile per la costruzione di una società giusta e solidale. Albert Einstein, in modo acuto, osserva: «Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di chi compie azioni malvagie, ma di quelli che osservano senza dire nulla». (Roberto Rossi, neuropsichiatra dell’età evolutiva)

 

10 novembre 2017

Accanto agli adolescenti autenticità e rispetto delle ferite

Quando incontri un adolescente, al primo sguardo colpisce il suo modo di stare in relazione: può essere timido; bene educato; desideroso di fare una buona impressione; scocciato; provocatore; desideroso di lasciare un segno, il suo segno. Se dopo il primo sguardo non ci lasciamo “catturare dal pensiero etichettante” che ne consegue, ma rimaniamo aperti all’incontro, abbiamo la possibilità di entrare nella verità di quel ragazzo\ragazza e di poter provare ad osservare come lui osserva il mondo che lo circonda e la realtà familiare di cui fa parte.

Accade che lo sguardo si muta, si espande fino ad includere osservatore ed osservato, in cui l’alternanza tra chi osserva e chi è oggetto di osservazione diventano una danza dove le figure che si compongono possono essere infinite a seconda di come procede la relazione. Non si tratta di osservare l’adolescente con un “occhiale” normativo, che cerca di vedere se quello che si ha davanti è un ragazzo adattato alla realtà o meno, ma di fare un viaggio nel suo mondo e capire cosa osserva di noi: mondo adulto.

Se nella poesia “I vostri figli” di Kahlil Gibran, che propongo a fine riflessione, si sottolinea come “noi siamo l’arco dal quale, come frecce vive, i nostri figli sono lanciati in avanti”, possiamo interrogarci su che tipologia di “arco” siamo e come i nostri figli ci considerano.

Andrea, 15 anni, guarda i suoi genitori separati da diversi anni e dice «A ma’.. a pa’.. famose a capì, siete gli ultimi che possono dire quello che devo fare, voi avete fatto quello che volevate… Avevate promesso che era per sempre… siete un bluff!». Andrea ha problemi scolastici, una diagnosi di disturbi dell’apprendimento, fatica a rispettare le regole ed è stato sospeso più volte, fuma marijuana, ha relazioni con ragazze solo per avere rapporti sessuali, dichiarando che l’amore «è una fregatura».

Lo sguardo di Andrea è quello di un ragazzo ferito, arrabbiato e deluso, è un gran provocatore con tutti, specialmente con chi ha autorità; allo stesso tempo è schietto, sincero e analizza la realtà che vive in modo da far trasparire ciò che i suoi occhi hanno visto, ciò che ha imparato dal mondo adulto e costantemente richiama ad una autenticità nella relazione. Andrea vorrebbe maggiore coerenza da parte dei suoi genitori, maggiore fermezza nelle decisioni, anche nella punizione, se è giusto che ci sia, deve essere sostenuta; non tollera “il genitore amico”, sente di non avere un limite e nonostante dichiari di voler fare «come gli pare» al tempo stesso richiama i genitori ad essere fermi nelle regole e nel farle rispettare.

Incontrare e danzare con Andrea richiede autenticità, rispetto delle sue ferite, ascolto senza pregiudizi su ciò che Andrea dovrebbe fare o come dovrebbe essere. Si tratta di poter osservare se stessi rispetto a ciò che si dice e assumere la coerenza rispetto alle proprie azioni. I ragazzi sono dei buoni osservatori. (Laura Boccanera, psicologa e psicoterapeuta di coppia e di famiglia).

 

 I vostri figli non sono figli vostri…

sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.
Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.

 

Kahlil Gibran

Storie di vita nella Roma del ‘900, tra memoria e gratitudine

Don Pirro Scavizzi, don Umberto Terenzi, don Andrea Santoro, ma anche don Tonino e don Gianni. I coniugi Beltrame Quattrocchi, ma anche Nino e Tina o Luigi e Isabella. Le monache dei Santi Quattro Coronati, che aprirono la clausura nel 1944 per accogliere ebrei e perseguitati, ma anche suor Fulvia e suor Francesca. “Ritratti romani” del ‘900. Questa nuova rubrica di Romasette.it si prefigge lo scopo di raccontare storie di romani che ebbero un pensiero sia al denaro che all’amore, che al cielo.

Mi è tornato in mente, infatti, il titolo della trasposizione musicale dell’Antologia di Spoon River. Nella famosa opera di Edgar Lee Masters, composta sotto forma di rubrica fra il 1914 e il 1915 per il giornale Mirror di St. Louis, si faceva memoria di personaggi immaginari di un luogo immaginario: ognuno era meritevole di una lapide, di un poema, a dire che il dramma di ogni vita è meritevole di memoria. Fabrizio De André si fece eco di quel poema componendo l’album Non al denaro, non all’amore, né al cielo. Infatti, il poeta americano e il cantante nostrano si domandavano: “Dove se n’è andato Elmer che di febbre si lasciò morire? Dov’è Herman bruciato in miniera? Dove sono Bert e Tom?”. Per giungere infine al suonatore Jones che non si curò mai né del denaro, né dell’amore, né del cielo e che al suo fornitore di alcoolici domandava: “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”.

Anche questa serie di ritratti romani intende mostrare che tutte le storie umane, questa volta vere, sono meritevoli di memoria. Ma in più, rispetto a Spoon River, intende farlo a partire da quel senso di popolo, da quella coralità, da quella comunione, che sono caratteristiche della Chiesa. Gli uomini immaginari di Spoon River sono soli, troppo soli. Invece i preti, i laici, le consacrate, di cui parlerà questa rubrica sono stati costruttori della nostra città, del tessuto quotidiano che ci sostiene.

Hanno avuto più di un pensiero al denaro, consapevoli che la nostra città di Roma ha bisogno di lavoro e che l’etica del lavoro la costruisce, mentre la mancanza di occupazione e di professionalità la svilisce. Hanno avuto più di un pensiero all’amore, perché delle relazioni e del dono è stata intessuta la loro vita. Hanno avuto più di un pensiero al cielo, perché hanno creduto e generato la fede in altri. Per queste ragioni la nota dominante di questa rubrica sarà la gratitudine. Noi siamo figli di queste storie. Ogni romano sa che il suo parroco ha dato volto al quartiere in cui è vissuto più ancora – lo dico con grande rispetto – del presidente del municipio. Quel parroco ha battezzato tutti i bambini che gli sono stati portati, ha sepolto tutti i morti di quel quartiere, anche quelli lontani dalla Chiesa; quel parroco ha educato con uno sguardo di lungo periodo generazioni e generazioni di figli, senza essere preoccupato solo che venissero o non venissero poi a Messa, aiutandoli a crescere nella carità, nel perdono, nell’intelligenza. Con lo stesso sguardo lungimirante ci hanno accompagnato prima ancora i nostri laicissimi genitori cristiani.

Pur raccontando ritratti di singoli romani, questa rubrica sarà corale, perché racconterà di un intero popolo che vive e ama in questa città, ed è tale anche perché si riconosce in figure concrete: sa bene, però, che queste, senza la compagnia di tutti, non potrebbero niente. Papa Francesco ha detto: «Nel grande disegno di Dio ogni dettaglio è importante, anche la tua, la mia piccola e umile testimonianza, anche quella nascosta di chi vive con semplicità la sua fede nella quotidianità dei rapporti di famiglia, di lavoro, di amicizia. Ci sono i santi di tutti i giorni, i santi “nascosti”, una sorta di “classe media della santità”, come diceva uno scrittore francese, quella “classe media della santità” di cui tutti possiamo fare parte». In fondo noi siamo “nani sulle spalle di giganti”, come diceva il teologo medioevale Bernardo di Chartres. Sono i nostri genitori, i nostri parroci, i nostri catechisti, sono coloro che hanno costruito Roma per noi, coloro sulle cui spalle noi saliamo per vedere un po’ più in su di loro. Senza la loro statura, la nostra sarebbe veramente ben misera.

Un ultimo appunto, prima di darci appuntamento al primo ritratto. In questa storia di bene è presente anche il peccato. Proprio chi è stato vicino alle persone di cui si parlerà ne conosce anche i limiti, così come un figlio conosce meglio i limiti dei suoi genitori, eppure conserva loro riconoscenza e affetto. In una bellissima novella del Decamerone di Boccaccio si racconta di un uomo di Francia che dice al suo amico di volersi fare cristiano e che, per questo, vuole prima recarsi in pellegrinaggio a Roma per vedere se veramente il Cristo ha generato uomini nuovi. L’amico già battezzato inventa mille scuse perché l’altro non vada, pensando che se l’amico avesse visto le turpitudini perpetrate a Roma avrebbe certamente smarrito il desiderio del battesimo. Invece costui ritorna e, dopo aver descritto i tanti peccati visti a Roma, esclama: «Se la Chiesa continua ad esistere dopo tanti secoli, nonostante tutto il male che vi ho visto, allora essa è veramente opera di Dio». E si fa battezzare.

Nei sentieri imperfetti della storia, anche noi non ci scandalizzeremo mai del male, bensì cercheremo di cogliere ancor più nelle righe storte degli uomini l’opera di Dio che scrive diritto la sua salvezza, anche e proprio a Roma.

12 dicembre 2017

«Smetto di mangiare»: i genitori e le adolescenti anoressiche

La notizia è dei giorni scorsi: la Polizia postale italiana ha oscurato un blog in cui le adolescenti erano spinte verso l’anoressia. La proprietaria del sito è stata denunciata per istigazione al suicidio. Non si tratta di un caso isolato. È, in realtà, un fenomeno noto da diversi anni (i blog di questo tipo sono diffusi in tutto il mondo e sono conosciuti come Pro-Ana).

Molti giornali hanno riportato una parte dei contenuti del blog incriminato. In primo luogo, ciò che colpisce sono i consigli che venivano dati alle ragazze – il disturbo riguarda in gran parte la popolazione femminile – che si collegavano al sito («essere magri è più importante che essere sani», «non sarai mai troppo magra», ecc.); ma sono soprattutto dolorosamente istruttivi i commenti che le adolescenti stesse facevano sul blog. Una scrive: «In questi giorni mi sono sentita come un maiale all’ingrasso…ed è stata una sensazione orribile… mi è mancata ana… mi sono mancati i morsi della fame», un’altra: «Non potete immaginare quanto mi conforti sapere che ci sono così tante ragazze che cercano la perfezione, mi aiutate a non sentirmi sola!».

Certamente, queste e decine di altre frasi che si trovavano nel blog sarebbero interessanti punti di partenza per una discussione clinica sul tema dei disturbi alimentari. Chiunque, per esempio, leggendole, noterà che certi contenuti paradossali che normalmente giacciono riposti in qualche angolo segreto del nostro animo, qui emergono tranquillamente in superficie: chi mangia è un maiale; oppure, dimagrire, lasciando letteralmente solo la pelle sopra le ossa, costituisce la perfezione e così via.

Potrà essere, però, molto più utile soffermarsi, qui, su un problema pratico: cosa deve fare (e non fare) un genitore che pensa di avere una figlia anoressica. Anzitutto, occorre evitare di sottovalutare il problema, quando c’è, ma anche di allarmarsi con troppa facilità. In forme blande, il cattivo rapporto con il cibo è così frequente da poter essere considerato un malessere sociale. Non basta che una ragazza avvii una dieta quando non ce n’è alcun bisogno o che si lamenti di continuo della propria forma fisica per considerarla anoressica.

Il disturbo, nelle sue forme più serie, è associato ad alcuni segnali non difficili da notare soprattutto quando si vive nella stessa casa: oltre, ovviamente, al dimagrimento eccessivo, si deve fare attenzione alla presenza di un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, anche quando è significativamente basso come, per esempio, il procurarsi il vomito dopo aver mangiato oppure l’assumere farmaci anoressizzanti o ancora praticare maniacalmente una attività fisica. Se questi segnali ci sono ed in particolare, se si manifestano tutti insieme, c’è anche il problema e non si può pensare di risolverlo in casa: occorre l’intervento di uno psicoterapeuta combinato con un trattamento medico-nutrizionale.

La prima difficoltà sarà probabilmente quella di convincere l’adolescente a svolgere un colloquio con un professionista. Molto spesso le anoressiche negano di avere un problema alimentare ed è il motivo per cui i blog Pro-Ana funzionano così bene: sono frequentati da persone che hanno un unico modo di vedere le cose. Non di rado, questo delicato passo può essere fatto grazie a una persona, anche esterna alla famiglia, della quale la ragazza si fida, in modo particolare può essere un parente, un amico di famiglia o il medico di base, che potrà peraltro metterla autorevolmente in guardia sui pericoli di certi comportamenti alimentari.

In genere, un genitore tende a fare il suo mestiere: rimprovera la figlia, la obbliga a mangiare oppure, in modo più sottile, imbandisce una tavola piena di prelibatezze per costringerla a cedere. In questo caso, però, i rimproveri e le forme di sfida non funzionano e anzi sono dannosi.

Bisognerà cominciare a riflettere sul fatto che, pur essendo molto varie le ragioni per cui una ragazza inclina verso comportamenti alimentari errati, non di rado i genitori hanno una parte di responsabilità. È, questo, un punto molto delicato, perché di solito un genitore, come verifichiamo continuamente nella nostra esperienza di consultorio, tende ad assumere due atteggiamenti opposti, entrambi poco utili: o va a cercare una colpa generica nel mondo (“le anoressiche sono così perché…”) oppure tende ad assumersi lui stesso colpe che spesso non ha.

Si deve invece considerare che non è affatto strano che un genitore, senza essere colpevole di nulla, avendo anzi messo tutto il suo impegno nella crescita dei figli, sia suo malgrado una delle cause delle loro difficoltà. Anche se non è facile, ci vuole coraggio e la possibilità di accedere ad altre risorse: se il motore del disturbo è dentro la famiglia, come spesso è, molto difficilmente la famiglia stessa, da sola, riuscirà a trovare una soluzione. Di solito, dunque, la soluzione a questi problemi, cui con un po’ di pazienza immancabilmente si arriva, comincia con un genitore che prende atto dei propri limiti e va a cercare aiuto all’esterno. (Tiziana Lania, psicologa e psicoterapeuta)

 

15 dicembre 2017

Colloqui con gli insegnanti, tanti dettagli e le proiezioni sui figli

La scorsa settimana sono stato ai colloqui pomeridiani con gli insegnanti di mio figlio. Il giorno dopo ho incontrato i genitori degli studenti della mia scuola.  Mio figlio frequenta il secondo anno, io insegno al triennio. Avendo ricevuto anche i genitori della mia classe terza, mi sono trovato in due giorni nella doppia veste di insegnante e genitore di ragazzi praticamente coetanei. Un punto di vista particolare, che vorrei raccontare.

Nella scuola di mio figlio i colloqui sono iniziati presto. Ho cercato di arrivare per tempo ma la fila era già lunga. Una volta entrato ho provato a saltare da una coda all’altra, con la speranza di parlare con più professori possibili. Come spesso capita c’erano insegnanti che riuscivano a fare progredire i colloqui velocemente ma, come spesso capita, c’era anche l’insegnante che aveva creato una coda infinita. Incontrati tutti i professori più rapidi mi sono fatto coraggio, con un «te tocca» mi sono messo in coda, nell’attesa mi sono messo a chiacchierare (poco) e ad ascoltare (molto).

A un certo punto ho assistito a uno scambio tra genitori che discutevano sugli impegni scolastici dei figli. Ciò che mi ha colpito è stato il grado di precisione con cui descrivevano le verifiche, gli argomenti svolti, il lavoro di gruppo e mille altri definitissimi dettagli che a un certo punto mi hanno fatto temere di essere finito nella fila sbagliata, perché io di quella valanga di informazioni ero assolutamente all’oscuro. Tornato a casa racconto a mia moglie dei colloqui ma soprattutto le condivido un dubbio: «Ma gli altri genitori sapevano tutto! Ma non è che noi saremo troppo assenti?». «Ma no – mi rassicura lei – mica ci andiamo noi a scuola! Dai ne parliamo domani, ora ceniamo». Ma il dubbio era lì.

Il giorno dopo anche nella mia scuola i colloqui iniziano presto. Cerco di gestire la coda, avendo tre classi è semplice. Dopo un po’ entrano la madre e il padre di un’alunna dal rendimento discreto. Inizio a parlare ma dopo poco sono loro che indirizzano il discorso su dettagli di verifiche, compiti e attività svolte dalla figlia in modo per me assolutamente sorprendente. E non che mi dia fastidio, tutt’altro. Resto però stupito dal grado di consapevolezza, ma soprattutto di partecipazione giornaliera, che immagino una tale presenza comporti. Li saluto, vado avanti con i genitori, constato che la coppia super informata non è l’unica, entrano altri genitori con lo stesso piglio. Terminati i colloqui, in macchina verso casa, penso ancora a quei due, su per giù miei coetanei. Lo spettro del dubbio del giorno prima inizia di nuovo ad aleggiare: già mi vedo alle prese con mia moglie e con un «quei genitori sapevano tutto! Ma non è che noi saremo troppo assenti?», e lei: «Ma no dai, mica ci andiamo noi a scuola! Ne parliamo domani, ora ceniamo».

Ovviamente i temi da tirare in ballo sarebbero molti. La questione della libertà e della responsabilità nella relazione educativa, oppure molto più mediaticamente tutta la tirata su genitori “spazzaneve” e figli inabilitati al fallimento, tanto per citarne qualcuno. Eppure, pur riservandomi il dubbio di un eccesso di retorica in certe discussioni, mi trovo a riflettere su un altro aspetto. Al netto del rischio semplificatorio, a me pare che dopo la generazione dei nostri genitori (oggi nonni dei nostri figli), nella gran parte dei casi fatta di storie familiari, lavorative, personali in genere riuscite, complice il periodo storico e sociale favorevole, oggi i genitori degli adolescenti vivano un paradosso comune. Le esistenze si sono complicate, le precarietà di ogni tipo aumentate. Succede allora che in modo più o meno inconscio le proiezioni sui figli aumentino in modo smisurato.

C’è sempre stata questa cosa, si dirà. È vero, ma oggi più che mai mi pare che, in un’epoca di difficoltà generalizzata, se c’è un fallimento che non possa essere più tollerato, questo sia proprio quello dei figli. Ma non da parte del figlio, come spesso si dice, quanto proprio da parte dei genitori che almeno su quel figlio ripongono speranze di riscatto, anzitutto per loro stessi. Ecco allora come ogni impegno, sforzo, attimo di tempo venga sempre più investito in una guerra che a un certo punto non si sa più per chi sia combattuta.

Il problema, o per l’appunto il paradosso, è che tali propositi poggiano su un tavolo per definizione precario: l’adolescenza, il momento in cui tutto deve traballare, proprio perché un nuovo equilibrio si crei; il tempo in cui il panorama è continuamente mutevole, dove i fallimenti spesso sono passaggi di ulteriori sviluppi non per forza funesti. Nasce quindi la domanda su quanto sia legittima questa corsa a cercare di imballare a prova d’urto un sistema che per definizione è del tutto instabile, su quanto questo concorra realmente al bene dei nostri ragazzi. A riguardo non ho risposte nette e certe, non angustierei continuamente mia moglie in caso contrario. Credo però che la domanda vada posta e che soprattutto il porcela sia assolutamente utile per i nostri figli (e questo lo si dice spesso) ma soprattutto utile per noi stessi (e questo lo si dice un po’ meno spesso). A tra quindici giorni.

20 dicembre 2017

Hostiles, il western di Cooper sulla questione razziale

Anche questa edizione numero 12 della Festa del Cinema di Roma si è conclusa sabato 4 novembre senza premi. Da tre anni infatti, per esplicita volontà del direttore Antonio Monda, la competizione è stata abolita per lasciare spazio libero e maggiore scioltezza alla selezione ufficiale. 36 titoli hanno costituito la sezione “centrale”, spaziando liberamente attraverso vicende, nazioni, epoche differenti. L’apertura è toccata a un film appartenente ad un genere fin troppo nobile e carico di tanti successi, ricordi, suggestioni. Stiamo parlando del western, per alcuni critici il “genere” per eccellenza, quello che è insieme storia e realismo ma al tempo stesso metafora e poema. Hostiles – Ostili – è il film che ha segnato il primo incontro con il pubblico, con un impatto subito forte e incisivo.

Ambientato nel 1892, racconta la storia di un capitano dell’Esercito (Joseph Blocker) che, con non poca riluttanza, obbedisce all’ordine di scortare un capo Cheyenne gravemente malato (Falco Giallo) e la sua famiglia fino alle loro terre natie. Divisi da una vecchia e profonda rivalità, da un odio atavico e difficile da ricomporre, i due partono con la scorta di soldati per un viaggio fatto di contraddizioni e incognite alla volta delle praterie del Montana. Durante il viaggio incontrano Rosalee, una giovane la cui famiglia (marito e tre figli) è stata da poco assalita e sterminata dalle tribù Comanche. La donna accetta di unirsi alla carovana, disposta ad affrontare ogni tipo di rischio. Blocker, Falco Giallo e Rosalee diventano i protagonisti di una vicenda che per tutta la prima parte procede tra sospetto e rabbia. Una sorta di radicato pregiudizio mette gli uni contro gli altri in una sorta di odio tenuto a lungo nascosto e sottotraccia. Ma il viaggio è lungo, durante un percorso di mille miglia succedono tante cose e gli esseri umani possono andare incontro a cambiamenti ritenuti impossibili.

«Ho sempre voluto fare un western – dice il regista Scott Cooper – ma volevo farlo alle mie condizioni e volevo che avesse una reale rilevanza su quanto sta succedendo in America oggi, con tutte le questioni sulla razza e la cultura». La sensazione che la sceneggiatura avrebbe potuto essere ambientata in qualunque momento della storia americana è stata decisiva per convincere Christian Bale – già protagonista de Il Fuoco della vendetta, precedente film di Cooper – ad accettare di mettersi al centro della storia nel ruolo di Blocker. Ancora una volta il viaggio si conferma elemento portante di una vicenda che parte dal profondo West, affida ai personaggi principali il compito di creare caratteri, mettere a fuoco ricordi, memorie, la nascita insomma e il crescere di una nazione e al contempo la sua capacità di mettere in atto uno sguardo critico e indagatore sul passato, su ciò che il Paese ha fatto per diventare grande e sentirsi forte e protetto.

Nello snodarsi dell’azione, la violenza si impone come un tema portante della soluzione dei problemi, richiamando titoli sia classici (Sentieri selvaggi di John Ford) sia di derivazione (C’era una volta il West di Sergio Leone). Chiudendo però con gesti di comprensione e di pacificazione, che partono da fine Ottocento ma si allungano su uno svolgimento più contemporaneo. Così il western si conferma veramente territorio di sconfinata duttilità narrativa.

6 novembre 2017

“La casa di famiglia”, convince l’opera prima di Augusto Fornari

Alex, Oreste, Giacinto e Fanny, quattro fratelli, di fronte al padre in coma da cinque anni, decidono di vendere la bella villa di famiglia in campagna. Ma dopo qualche tempo, in modo del tutto inaspettato, l’uomo riprende conoscenza. Ora il problema è come dirgli che la casa non è più sua… «Le storie di famiglia mi hanno sempre affascinato. Le peripezie di fratelli, sorelle, cugini, nipoti che litigano, partono, si dividono, si odiano, si fanno del bene e del male, hanno avuto da sempre su di me l’effetto dei grandi romanzi d’avventura…». Così Augusto Fornari introduce questa sua opera prima, La casa di famiglia, alla quale arriva dopo un quindicennio di attività come attore con film come Il principe abusivo di Alessandro Siani (2015); Gli ultimi saranno gli ultimi di Massimiliano Bruno (2016); Torno indietro e cambio vita di Carlo Vanzina (2016).

L’approccio è giusto e positivo, lo svolgimento corre lungo binari tranquilli, animati da improvvisi sussulti, battibecchi, scontri, spia di pregressi disaccordi appartenenti all’età della giovinezza. In effetti i quattro fratelli esprimono caratteristiche differenti che producono anche reazioni talvolta opposte e distinte. Il padre (quando guarisce) si posiziona tra loro con sfumature ancora più sfaccettate, tali da non riuscire a ricomporre una unità tra loro. Nel finale forse tutto si aggiusta (non diremo come), cedendo il posto ad un’imprevista pacificazione.

«La famiglia – prosegue Fornari – è il luogo da dove veniamo, dove ci formiamo e, cosa più importante, quello che diventiamo. Nessuno può dire di aver compiuto un passo verso la conoscenza di se stesso se non ha ben sondato gli intricati meccanismi dei rapporti familiari». Il copione corre con serenità verso la meta, il più delle volte mantenendo un passo fragile e dolce, diviso tra risate, pianto, commozione, gioia.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=14&v=G6k7ASRbHnA

Funzionano i molti imbarazzi che i fratelli devono escogitare quando il padre sembra vicino a scoprire la verità e viene ogni volta rimandato indietro all’ultimo momento. Nell’andare avanti il confronto tra il padre e i figli si fa più serrato e incalzante, pur senza raggiungere toni dispersivi o frammentari. Si resta sempre all’interno della commedia, che in questa occasione si propone più che mai come il terreno più adatto ad “ospitare” una vicenda che si muove con delicatezza e leggerezza, gettando uno sguardo pensoso e un po’ malinconico su una vicenda di piccole/grandi rinunce quotidiane.

Anche nella scelta degli interpreti il film conferma la propensione a preferire nomi misurati e di sicura affidabilità. A cominciare dai quattro fratelli: i tre uomini sono Lino Guanciale (Alex), Stefano Fresi (Oreste), Libero De Rienzo (Giacinto). La donna è Matilde Gioli (Fanny): si tratta di attori di generazioni diverse, duttili e pronti a muoversi all’interno di vicende di differente spessore. Ne deriva in conclusione un film godibile e piacevole da vedere con tranquillità come prodotto italiano affidato ad uno sguardo simpatico e curioso, multiforme come le mille facce della casa di famiglia.

20 novembre 2017

Al Vittoriano il corridoio delle ninfee di Monet

Un corridoio di ninfee virtuale apre e chiude la mostra di Monet (1840-1926). Empaticamente il visitatore scivola su uno specchio d’acqua in dissolvenza, alla ricerca di quelle impressioni che Monet, come un demiurgo, traeva dalla natura e fissava sulla tela, dipingendo non quel vedeva, ma la visione stessa dei fiori, con l’ambizione di misurarsi con l’impalpabile, l’aria e la luce. Una pittura nuova che apriva la strada alla modernità.

Guy de Maupassant lo definì «il cacciatore di immagini», altri «il barometro vivente e meteorologo dell’anima». Il pittore, che amava catturare e fissare sulla tela il mutar del cielo, del sole e delle nubi, fino a far confondere quasi l’acqua con il cielo, passava le giornate ad accarezzare con lo sguardo l’espressione più bella della natura: i fiori, che voleva ritrarre anche nelle più impercettibili sfumature, messe in luce dal sole. E a tal fine ripeteva  il soggetto con rapide pennellate, alterandosi facilmente quando il cielo si copriva di nuvole. Tele che all’unisono raccontano le due passioni di Monet: la pittura e il giardinaggio. A 42 anni, infatti, Monet si era trasferito nel borgo di Giverny, tra le colline del Vexin e la riva destra della Senna, a una settantina di chilometri da Parigi con la sua famiglia allargata (i figli del primo e secondo matrimonio). Nella casa dall’intonaco rosa coltiverà due giardini: quello privato e quello che circondava la casa. Di entrambi la mostra dà conto. Per quanto riguarda il primo, Monet ritrasse i figli, i suoi piccoli modelli, abbozzandoli non solo perché era difficile mantenerli in posizione, ma anche per coglierne la natura intima di esseri in divenire. Un album di famiglia che mai espose: è un’occasione dunque il poter ammirare il “Ritratto di Michel Monet” neonato, con berretto a pompon e con maglia blu.  Per quanto riguarda il terreno della proprietà, Monet lo trasformò con amore nel suo giardino, piantandovi alberi e fiori, come il papavero, il nontiscordardimé, rose, salici piangenti e ciliegi giapponesi, che paragonava ai fiori di Hokusai (su cui è in corso una mostra in altro museo). Soggetti che costituiranno l’essenza o meglio il simbolo della sua pittura.

E pensare che le Grandi decorazioni, una serie di pannelli monumentali dipinti all’età di 75 anni, dedicate esclusivamente allo stagno delle ninfee, caddero per lungo tempo nell’oblio. Medesima sorte che era toccata, molti anni prima, al capolavoro in mostra “Impressione, levar del sole”: una marina dall’indefinito soggetto, abbozzata nel 1872 dalla finestra di una camera di un hotel di Le Havre, città della sua infanzia. Capolavoro al quale si deve la definizione di impressionismo, sia pure inizialmente usata con derisione e disprezzo, per connotare pittori come Renoir, Degas, Pissarro, Manet, Zandomeneghi e lo stesso Monet, per citarne alcuni.

Il percorso espositivo illustra anche gli esordi di Monet. Non interessato agli studi scolastici – per sua ammissione, aveva assimilato «quattro regolette e un po’ d’ortografia», divertendosi a riempire i margini dei libri e quaderni con decorazioni fantasiose, il pittore eseguiva ritratti caricaturali dei suoi insegnanti e dei cittadini di Le Havre, che si riconoscevano in essi, o figure tipo, come quella del dandy (in mostra anche la celebre “La donna normanna”). Del resto, la caricatura era una raffigurazione in auge in Francia grazie alla stampa popolare. Seguendo il consiglio dell’amico Boudin, Monet cominciò a dedicarsi alla pittura e compì numerosi viaggi lungo la costa della Normandia, a Londra, Parigi e in Italia, per poi trasferirsi definitivamente a Giverny.

Concludono la mostra, le ultime opere dell’artista dedicate al ponte giapponese e al viale delle rose, in cui predominano il rosso o l’arancione, il blu e il verde. Colori meno delicati e sfumati rispetto alle opere precedenti, tali da non consentire quasi la visione del soggetto rappresentato. Colori dovuti anche alle conseguenze della cataratta, sebbene Monet vedesse bene da vicino. In esse la sua pittura, ancora una volta, poetica ed evocativa, s’avvicina all’astrazione e alle sperimentazioni espressive dei nuovi pittori del ‘900.

Monet. Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi c/o Complesso del Vittoriano . Fino all’11/02/18 Curatore: Marianne Mathieu. Catalogo Arthemisia Books.Orari:dal lunedì al giovedì 9.30 – 19.30; venerdì e sabato 9.30 – 22.00; domenica 9.30 – 20.30. Biglietti (audioguida inclusa):Intero € 15; Ridotto € 13; universitari (senza limiti d’età) € 7 ogni martedì, escluso i festivi. Per tutte le informazioni (comprese quelle per le aperture straordinarie previste nelle festività natalizie): tel. 06. 8715111.

7 dicembre 2017

“Keyla la rossa” di Isaac Singer, il romanzo delle radici spezzate

Ci sono libri che si leggono e poi si dimenticano. E quelli che invece lasciano il segno e ci restano dentro. “Keyla la rossa” di Isaac Singer (Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi, pp. 280, 20 euro) appartiene a quest’ultima schiera. Apparso per la prima volta a puntate in lingua yiddish sul leggendario “Forverts” di New York tra la fine del 1976 e l’ottobre dell’anno successivo, non venne più ripubblicato dall’autore – che nel 1978 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura – sebbene fosse stato tradotto in inglese dal nipote Joseph, figlio di Israel Joshua Singer, come di norma sempre accadeva. In questi casi però Isaac sfoltiva il testo originale che noi invece oggi leggiamo, nella versione di Marina Morpurgo, nella sua interezza, proprio come accadde ai primi lettori. I quali, emigrati a Manhattan dopo essere sfuggiti alle terribili persecuzioni antisemite europee, prima ancora della Shoah, ritrovarono se stessi nei personaggi del romanzo: dall’indimenticabile protagonista, una giovane prostituta di Varsavia, alla cerchia dei suoi compari, Yarme il Ladro, Itche il Guercio e Max lo Storpio.

L’atmosfera del ghetto nella malfamata via Krochmalna, dove lo scrittore nacque e si formò prima di fuggire negli Stati Uniti seguendo il fratello Israel, è quella tipica dei racconti singeriani in cui gli ambienti religiosi coi devoti curvi sui rotoli delle sinagoghe si mischiano alle osterie sordide dove ubriaconi e mentecatti, poeti e ricettatori di ogni risma, affogano nell’acquavite le loro tragiche esistenze. Gli individui si incontrano e si scontrano senza apparente ragione, quasi fossero governati da un burattinaio costretto a improvvisare per chissà quale pubblico cosmico il suo incredibile spettacolo di miseria e nobiltà. Il romanzo è diviso in due parti, come tutta l’opera di Isaac Singer: la prima, carica di storie intrecciate fra di loro nella tradizione ebraica profonda, è polacca; la seconda, interamente rivolta al futuro nella speranza di una nuova prospettiva, americana. All’inizio Keyla si sposa con Yarme, poi si ribella e, nel tentativo di sottrarsi alla tratta delle bianche, scappa a New York con Bunem, il figlio del rabbino, anche lui alla ricerca di un valore esistenziale che sembra sfuggirgli. Il passato torna a bussare alla porta dei due fuggitivi sconvolgendo ancora una volta la loro vita.

“Keyla la rossa” è il romanzo delle radici spezzate che oggi possiamo leggere con sensibilità nuova pensando agli immigrati che sbarcano da noi. Non ha la forza di “Ombre sull’Hudson”, capolavoro pubblicato sempre sul “Forverts” vent’anni prima, ma proviene dalla stessa pasta. Proprio nello scenario di Brooklyn, dove si ammassano i rifugiati ebrei, ritroviamo il Singer più intenso: quello capace di rappresentare con potenza narrativa ineguagliata lo scarto fra vecchio e nuovo mondo. Le persone anziane si erano portate dietro dall’Europa i testi sacri ricevuti in eredità ma i loro figli sembra che non sappiano cosa farne. «Pareva che a New York tutti fossero solo di passaggio, come se l’intera città fosse un enorme scalo ferroviario». Ad Attorney Street, coi bidoni dell’immondizia piazzati davanti ai portoni d’ingresso delle abitazioni, perfino la Gemarah sembra diventata lettera morta. I ragazzi d’estate giocano con gli idranti e lanciano sassi contro le case abbandonate. «E Dio – commenta lo scrittore – faceva il suo mestiere: stava zitto».

11 dicembre 2017

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