Storie di vita nella Roma del ‘900, tra memoria e gratitudine

Al via una serie di racconti su figure di preti, religiosi, laici che hanno contribuito a costruire il tessuto della città. Pienamente parte di un popolo che ci vive e la ama

Don Pirro Scavizzi, don Umberto Terenzi, don Andrea Santoro, ma anche don Tonino e don Gianni. I coniugi Beltrame Quattrocchi, ma anche Nino e Tina o Luigi e Isabella. Le monache dei Santi Quattro Coronati, che aprirono la clausura nel 1944 per accogliere ebrei e perseguitati, ma anche suor Fulvia e suor Francesca. “Ritratti romani” del ‘900. Questa nuova rubrica di Romasette.it si prefigge lo scopo di raccontare storie di romani che ebbero un pensiero sia al denaro che all’amore, che al cielo.

Mi è tornato in mente, infatti, il titolo della trasposizione musicale dell’Antologia di Spoon River. Nella famosa opera di Edgar Lee Masters, composta sotto forma di rubrica fra il 1914 e il 1915 per il giornale Mirror di St. Louis, si faceva memoria di personaggi immaginari di un luogo immaginario: ognuno era meritevole di una lapide, di un poema, a dire che il dramma di ogni vita è meritevole di memoria. Fabrizio De André si fece eco di quel poema componendo l’album Non al denaro, non all’amore, né al cielo. Infatti, il poeta americano e il cantante nostrano si domandavano: “Dove se n’è andato Elmer che di febbre si lasciò morire? Dov’è Herman bruciato in miniera? Dove sono Bert e Tom?”. Per giungere infine al suonatore Jones che non si curò mai né del denaro, né dell’amore, né del cielo e che al suo fornitore di alcoolici domandava: “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”.

Anche questa serie di ritratti romani intende mostrare che tutte le storie umane, questa volta vere, sono meritevoli di memoria. Ma in più, rispetto a Spoon River, intende farlo a partire da quel senso di popolo, da quella coralità, da quella comunione, che sono caratteristiche della Chiesa. Gli uomini immaginari di Spoon River sono soli, troppo soli. Invece i preti, i laici, le consacrate, di cui parlerà questa rubrica sono stati costruttori della nostra città, del tessuto quotidiano che ci sostiene.

Hanno avuto più di un pensiero al denaro, consapevoli che la nostra città di Roma ha bisogno di lavoro e che l’etica del lavoro la costruisce, mentre la mancanza di occupazione e di professionalità la svilisce. Hanno avuto più di un pensiero all’amore, perché delle relazioni e del dono è stata intessuta la loro vita. Hanno avuto più di un pensiero al cielo, perché hanno creduto e generato la fede in altri. Per queste ragioni la nota dominante di questa rubrica sarà la gratitudine. Noi siamo figli di queste storie. Ogni romano sa che il suo parroco ha dato volto al quartiere in cui è vissuto più ancora – lo dico con grande rispetto – del presidente del municipio. Quel parroco ha battezzato tutti i bambini che gli sono stati portati, ha sepolto tutti i morti di quel quartiere, anche quelli lontani dalla Chiesa; quel parroco ha educato con uno sguardo di lungo periodo generazioni e generazioni di figli, senza essere preoccupato solo che venissero o non venissero poi a Messa, aiutandoli a crescere nella carità, nel perdono, nell’intelligenza. Con lo stesso sguardo lungimirante ci hanno accompagnato prima ancora i nostri laicissimi genitori cristiani.

Pur raccontando ritratti di singoli romani, questa rubrica sarà corale, perché racconterà di un intero popolo che vive e ama in questa città, ed è tale anche perché si riconosce in figure concrete: sa bene, però, che queste, senza la compagnia di tutti, non potrebbero niente. Papa Francesco ha detto: «Nel grande disegno di Dio ogni dettaglio è importante, anche la tua, la mia piccola e umile testimonianza, anche quella nascosta di chi vive con semplicità la sua fede nella quotidianità dei rapporti di famiglia, di lavoro, di amicizia. Ci sono i santi di tutti i giorni, i santi “nascosti”, una sorta di “classe media della santità”, come diceva uno scrittore francese, quella “classe media della santità” di cui tutti possiamo fare parte». In fondo noi siamo “nani sulle spalle di giganti”, come diceva il teologo medioevale Bernardo di Chartres. Sono i nostri genitori, i nostri parroci, i nostri catechisti, sono coloro che hanno costruito Roma per noi, coloro sulle cui spalle noi saliamo per vedere un po’ più in su di loro. Senza la loro statura, la nostra sarebbe veramente ben misera.

Un ultimo appunto, prima di darci appuntamento al primo ritratto. In questa storia di bene è presente anche il peccato. Proprio chi è stato vicino alle persone di cui si parlerà ne conosce anche i limiti, così come un figlio conosce meglio i limiti dei suoi genitori, eppure conserva loro riconoscenza e affetto. In una bellissima novella del Decamerone di Boccaccio si racconta di un uomo di Francia che dice al suo amico di volersi fare cristiano e che, per questo, vuole prima recarsi in pellegrinaggio a Roma per vedere se veramente il Cristo ha generato uomini nuovi. L’amico già battezzato inventa mille scuse perché l’altro non vada, pensando che se l’amico avesse visto le turpitudini perpetrate a Roma avrebbe certamente smarrito il desiderio del battesimo. Invece costui ritorna e, dopo aver descritto i tanti peccati visti a Roma, esclama: «Se la Chiesa continua ad esistere dopo tanti secoli, nonostante tutto il male che vi ho visto, allora essa è veramente opera di Dio». E si fa battezzare.

Nei sentieri imperfetti della storia, anche noi non ci scandalizzeremo mai del male, bensì cercheremo di cogliere ancor più nelle righe storte degli uomini l’opera di Dio che scrive diritto la sua salvezza, anche e proprio a Roma.

12 dicembre 2017