Ordo viduarum nel suo aspetto giuridico

Ordo viduarum nel suo aspetto giuridico

Il Codice di diritto canonico di Giovanni Paolo II (1983) non contiene nessun canone sull’Ordine delle Vedove (Ordo Viduarum), mentre ne ha uno (can. 604 §§ 1-2)  sull’Ordine delle Vergini (Ordo Virginum). Ciò sorprende perché dei due Ordini quello delle Vedove ha radici apostoliche e ambedue, sviluppatisi in parallelo e quasi contemporaneamente, hanno avuto nella Chiesa per diversi secoli, una propria disciplina, un proprio Rituale, una propria collocazione nel popolo di Dio con  l’attribuzione di  funzioni specifiche all’interno della Chiesa locale. La ragione di questo diverso trattamento può essere vista nel fatto che l’Ordo Virginum  sin dall’anno 1970 aveva avuto un proprio Rituale preparato e approvato dalla Santa Sede: l’Ordo consecrationis virginum (Roma, 1970), mentre a tutt’oggi l’Ordine delle Vedove non ha un Rituale valevole per tutta la Chiesa, ma ha più rituali, piuttosto diversificati tra loro, valevoli per le diocesi nelle quali sono stati approvati dai rispettivi vescovi. Mi limito a segnalare un Rituale preparato in Francia, approvato dal Consiglio dell’Episcopato Francese, ad uso della  Fraternità della Madonna della Resurrezione di Parigi: Rituel de Bénédiction des veuves, Fraternité N.D. de la Résurrection (1984).

Delle vedove parla Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata, n. 7c. Il testo è nuovo e recita: «Torna ad essere oggi praticata anche la consacrazione delle vedove, nota fin dai tempi apostolici (cfr 1 Tm 5, 5.9-10; 1 Cor 7,8), nonché quella dei vedovi. Queste persone, mediante il voto di castità perpetua quale segno del Regno di Dio, consacrano la loro condizione  per dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa» (n. 7c).

Non è facile trattare dell’Ordo Viduarum dal punto di vista canonico. Mancano, infatti, espresse disposizioni di legge universale prodotte nei modi, con le forme e dall’autorità che regola l’ordinamento canonico. In conformità a quanto dispone il can. 19, non ci resta che fare riferimento alle «leggi date per casi simili», o ancora «ai principi generali del diritto applicati con equità canonica». Altra fonte da considerare sono le leggi particolari riguardanti l’Ordo Viduarum emanate dai Vescovi diocesani, ai quali compete governare la diocesi loro affidata. Da questo punto di vista, acquistano rilevanza le norme appositamente emanate sullo stato vedovile, gli statuti, i regolamenti come pure i Rituali liturgici legittimamente promulgati per il particolare gruppo delle vedove. C’è poi il diritto antico che ci consente di conoscere l’origine delle norme e di porle in relazione con la teologia dell’epoca. Il «diritto» che presento non è un diritto codificato valevole per tutta la Chiesa, ma un «diritto» che per ora è particolare. Quella che presento non è neppure una riflessione de iure condendo. Più semplicemente elenco e indico gli elementi giuridici che dovrebbero disciplinare l’Ordo viduarum,  tenendo conto del diritto antico, della tradizione canonica e delle attuali esperienze giuridiche diocesane.

Il Codice dei canoni delle Chiese orientali (1990) lascia al diritto particolare di ciascuna Chiesa sui iuris la costituzione  di «altre specie di asceti che imitano la vita eremitica, sia che appartengano a istituti di vita consacrata, oppure no; così pure  possono essere costituite vergini o vedove consacrate che professano nel secolo, ciascuna per conto proprio, la castità con professione pubblica» (CCEO can.570). Il CCEO rimanda al diritto particolare di ciascuna Chiesa sui iuris la costituzione di vergini o vedove consacrate che professano nel secolo, ciascuna per conto proprio, la castità con professione pubblica.

Qualche dato storico

In tutte le società, la condizione delle vedove è sempre stata e ancora oggi è oggetto di attenzione in quanto è necessario sapere quali sono le loro risorse, in quale misura possono mantenere il controllo dei figli e la gestione del patrimonio, se sia opportuno o no che si risposino. Lungo i secoli sono state proposte soluzioni molto diverse. Il mondo greco si mostrò in proposito più indulgente di quanto non sia stata in seguito la legislazione romana.

Nella Prima Lettera a Timoteo, l’autore ci informa che a Efeso le vedove (5, 3-16) costituivano un gruppo a sé, ma non è chiaro se esercitassero funzioni speciali o avessero un’organizzazione propria. Paolo fa una netta distinzione tra le donne che sono vedove solo perché i loro mariti sono morti e quelle che svolgono un ruolo speciale nella Chiesa e che devono possedere i requisiti da lui elencati. Secondo 1 Tim 5, 3-16, la donna deve essere veramente vedova ed è rimasta sola (5,5), deve avere non meno di sessant’anni (5,9), deve essere stata moglie di un solo marito (e quindi non intende sposarne un altro: 5,8), i suoi figli o nipoti li ha già allevati e ormai non dipendono più da lei (5,10), e ha in suo favore la testimonianza delle opere buone e della preghiera (ivi). Se queste vedove si trovano in necessità e sono povere vanno soccorse dalla Chiesa con i beni della comunità (Atti, 6, 1). Da parte loro, esse devono pregare notte e giorno (cf. Lc 2, 36-37), praticare l’ospitalità anche nelle cose più umili, come «lavare i piedi dei santi», e venire in soccorso agli afflitti (5,5.10). Paolo ha un tono chiaramente ostile verso quelle vedove che non potevano essere ammesse al gruppo speciale delle vedove (5,12-16). Paolo crede che sia meglio che le vedove più giovani si risposino e abbiano figli, anziché dare scandalo (5,14). Delle norme che Paolo suggerisce a Timoteo per l’esercizio della sua attività pastorale, un gruppo omogeneo e sufficientemente ampio, riguarda il comportamento del vescovo con le vedove. La sezione 1 Tim 5, 3-16 attesta l’esistenza nell’epoca apostolica di un ordo viduarum. Resta difficile concludere, da questo testo, se le vedove costituissero, accanto ai presbiteri e ai diaconi, un vero ordo, investito di una funzione ufficiale propriamente detta.

Nella Lettera agli Smirnesi (13,1), Ignazio menziona «le vergini chiamate vedove»: forse il vescovo di Antiochia assimila le vedove alle vergini per la castità. Policarpo, nella Lettera ai Filippesi, qualifica le vedove come «altare di Dio» (4,3; cf. anche Didasc. III, 6,3 e Cost. Ap. II, 26,8). Tertulliano sembra alludere a un «Ordo viduarum» (cf. Virg. Vel. 9, 2-3; anche Monog. 11,1), alla possibilità di ricorrere alla loro intercessione da parte dei penitenti (cf. Pud. 13,7). Alcune vedove sono «istituite» per la preghiera, ma non ricevono l’imposizione delle mani (cf. Trad. ap.10,23; Didasc. III, 1,1 e III, 6,2). Esse svolgono anche attività all’interno della Chiesa, a favore soprattutto delle donne: prepararle al battesimo (Statuta Eccl. Ant., 12), essere presenti al loro battesimo, ungendole, coprendole con un velo quando scendono nella vasca battesimale; visitare le inferme, ma soprattutto si dedicano all’ascesi e alla preghiera (Didasc. III, 5,2). Marcella e Paola a Roma si dedicano a una intensa vita spirituale e ascetica (cf. Girolamo, Epp. 127 e 108). Monica, la mamma di S. Agostino, ha un grande ruolo nell’educazione del figlio. Altre vedove svolgono un ruolo attivo nel cristianizzare la società.

s          L’esistenza di un vero e proprio Ordo viduarum è constatabile alla fine del II secolo, agli inizi del III. La vedovanza, se soddisfa certe condizioni, costituisce uno stato ufficiale di vita, riconosciuto dalla Chiesa. Le vedove non fanno parte del clero, ma occupano nella comunità un posto speciale, distinto dall’insieme dei fedeli. Queste vedove aspirano a una vita cristiana più perfetta. Uno dei primi documenti che attesta l’esistenza di un ordine ufficiale di vedove è la Tradizione apostolica, che, scritta a Roma verso il 218, è una testimonianza della vita della comunità romana all’inizio del secolo III. Il testo (cap. X) è di capitale importanza: la vedova è «istituita» solo con la parola, ma non riceve l’imposizione delle mani, perché essa non offre l’oblazione e non presta un servizio liturgico. La vedovanza è essenzialmente uno stato ufficialmente riconosciuto e organizzato dalla Chiesa, il cui scopo principale è la preghiera. Il rito d’ingresso nell’Ordo, molto semplice in origine, seguirà lo sviluppo che si constata negli altri campi della liturgia.

            Attestata per Roma dalla Tradizione apostolica, l’esistenza di un Ordo delle vedove all’inizio del sec. III è menzionata, per l’Africa, dagli scritti di Tertulliano (220) e, per l’Oriente, dalla Didascalia, composta verso il 230 in Siria. Le testimonianze si moltiplicano nel sec. IV, fino a diventare esplicite nel secolo VI, specialmente per quanto riguarda il rito di ammissione. Anche i concili si occupano dell’Ordo viduarum ed emanano norme riguardanti le vedove e la loro ammissione all’Ordo. Contrariamente all’istituzione delle diaconesse che tende a scomparire in Occidente a partire dal sec. VI, l’istituzione delle vedove professe persisterà  sino in pieno medioevo. I testi liturgici e canonici dei sec. XII-XIII menzionano ancora il modo in cui si fa la professione di vedovanza.

            In Occidente il declino dell’Ordo viduarum inizia con l’affermarsi della vita comunitaria monastica. Le vedove professe per tutto il primo millennio vivevano nella propria casa. A partire dal sec. IX cresce l’ostilità contro questa usanza. I concili  (Parigi, 829; Lateranense II, 1139) e i Papi (Innocenzo III, decretale del 1199) sempre più proibiscono la professione di quelle vedove che restano nella propria casa. A partire dal sec. XIII sono rari i casi di vedove professe che vivono nel mondo. Il Pontificale Romano del 1485 non prevede più il rito della professione specifica di vedovanza. Le vedove che desiderano condurre una vita di perfezione, chiedono con insistenza di essere ammesse in una comunità di monache, dove sono accettate facilmente, perché non è più il caso di fare una distinzione tra le donne, siano esse nubili o vedove, dal momento che fruiscono della loro libertà, fanno voto di continenza e si sottopongono alle esigenze della regola.

            L’istituzione delle vedove professe che vivono nel mondo, ampiamente vissuta nell’antichità, proibita dalla Chiesa nel medioevo, divenne nuovamente oggetto di interesse, dopo la fine della prima guerra mondiale (1918), e la Chiesa non solo tollerò, ma favorì il movimento. Venne così ripristinato l’Ordo viduarum che, a partire dal sec. III fino al sec. XIV, era stato tenuto nella massima considerazione presso le comunità cristiane. Ne prende atto lo stesso Giovanni Paolo II che nell’esortazione postsinodale Vita consecrata (25 marzo 1996) scrive: «Torna ad essere oggi praticata anche la consacrazione delle vedove, nota fin dai tempi apostolici  (cf. 1 Tim 5,5.9-10; 1 Cor 7,8), nonché quella dei vedovi. Queste persone, mediante il voto di castità perpetua quale segno del Regno di Dio, consacrano la loro condizione per dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa nell’Ordo Viduarum» (n. 7c).

Il rito liturgico

Il Pontificale romano-germanico ebbe grande diffusione in tutto l’Occidente e soprattutto a Roma, dove divenne il libro al quale si ispireranno i liturgisti romani, anche per il rito della benedizione della vedova.      Il rituale della professione di vedovanza, inizialmente molto semplice, a partire dalla metà del sec. X diventerà una cerimonia ben strutturata, e tale resterà fino alla sua scomparsa (fine sec. XV). Se a Roma l’istituzione della vedova  si effettua soltanto «con la parola» (Trad. ap., cap. X), nei paesi franchi si aggiunge la benedizione e la consegna dell’abito. Il sacramentario detto «Il Gellone» (paesi franchi, data 790-800), contiene i tre elementi della cerimonia: benedizione dell’abito, benedizione della vedova, formula della messa. Secondo il Metz, all’inizio del sec. X ci troviamo in presenza di un numero variabile di formule di preghiera di origine diversa. Qua o là veniva  utilizzata l’una o l’altra di tali formule e riti, ma non esisteva un rituale definito per la professione di vedovanza. La professione delle vedove assunse la forma di un rito ben concatenato e armonico, dai contorni chiaramente definiti nel grande Pontificale denominato Pontificale romano-germanico, datato tra gli anni 950-962. Fino a questo Pontificale la consacrazione della vedova era del tutto sconosciuta.

Nel Pontificale romano-germanico, la professione delle vedove è così organizzata: Titolo: Consecratio viduae que fuerit  castitatem professa. Secondo il Metz non si tratta di una vera consacrazione, ma di una semplice benedizione. Nei pontificali posteriori (a partire dal sec. XII) la cerimonia porta il titolo: Benedictio. Ministro: il presbitero è competente, mentre per la consacrazione delle vergini il ministro è il vescovo. Posto della cerimonia: durante la messa, dopo la lettura del vangelo. Tutti i diversi elementi del rito sono ben concatenati: benedizione dell’abito e del velo, vestizione e prostrazione, canto delle litanie dei santi, benedizione propriamente detta della vedova (prefazio e orazione), presa del velo, preghiera dopo la presa del velo.

Altro importante rituale di benedizione della vedova è quello contenuto nel  Pontificale di Gugliemo Durand (1292-95), divenuto il Pontificale ufficiale della Chiesa di Roma, a partire dall’insediamento della Corte pontificia  in Avignone. In questo Pontificale il rito di benedizione della vedova riprende, in modo rinnovato e abbandonando qualche elemento, il rito del Pontificale romano-germanico. Titolo: De benedictione viduae. Ministro: il presbitero. Posto della cerimonia: durante la messa, ma tra l’epistola e il vangelo. Elementi del rito: 1) la vedova inginocchiata, dinanzi all’altare, porta in mano un cero acceso; 2) il presbitero la interroga  sul suo desiderio di consacrarsi a Cristo suo sposo e la vedova manifesta pubblicamente la sua intenzione di osservare in perpetuo la continenza; 3) canto dell’antifona: Ancilla Christi sum, con responsori della Schola; 4) prostrazione sul lato destro dell’altare e preghiera sulla vedova; 5) benedizione dell’abito e vestizione (scompare la presa del velo); 6) ultime preghiere. Il Rituale non menziona, come invece faceva il Pontificale romano-germanico, l’impegno assunto per scritto da parte della vedova (stabilito dal concilio di Toledo, a. 656; Decretum Gratiani, C. 20, q. 1, c. 16).

Nel Pontificale romano del 1485 (edizione ufficiale del Pontificale di Gugliemo Durand) viene soppresso il rito di benedizione della vedova, che non sarà più ripresa nelle varie edizioni del Pontificale romano, fatte nel corso dei secoli fino ai nostri giorni. La professione di vedovanza era stata assorbita dalla professione religiosa nei monasteri. Occorre, quindi, rifarsi al Pontificale di Guglielmo Durand per trovare l’ultima forma acquisita, attraverso i secoli, del cerimoniale della professione di vedovanza.

Ordo, consecratio, benedictio: quale il senso di questi termini? Ordo è proprio dei pontificali liturgici (ordo – ordines). Vanno tenuti presenti i termini ordinatio e consecratio, soprattutto per le ordinazioni episcopali. Per la vedova il termine più usato è benedictio; solamente il Pontificale romano-germanico del sec. X usa il termine consecratio. Probabilmente i redattori del Pontificale miravano a rivalorizzare il ruolo liturgico della vedova. A partire dai Pontificali del sec. XII si userà sempre la parola benedictio, termine che appare anche nel Pontificale di Guglielmo Durand.

Dopo il concilio Vaticano II fino ad oggi, ancora non è stato pubblicato un rito apposito per la benedizione delle vedove valevole per la Chiesa universale. Tra i rituali diocesani esistenti segnalo  il Rituel de Bénediction des veuves, preparato in Francia, approvato dall’Arcivescovo di Parigi nel 1984, successivamente lodato e confermato dalla Congregazione per i sacramenti e per il culto divino. Il Rituale, concesso ad una determinata aggregazione – Fraternità di Nostra Signora della Risurrezione di Parigi - , non può essere ritenuto valevole per la Chiesa universale, ma può essere accolto da altri vescovi e adottato per eventuali celebrazioni, compiuti  i dovuti adattamenti. Nel rito, visto nel suo insieme, si trova espressa una totale consacrazione della persona a Dio fatta nell’offerta di tutta la persona della vedova. Faccio mia la conclusione alla quale perviene il P. Jean Beyer dopo aver esaminato il contenuto della benedizione rituale contenuta nel Rituel de Bénediction des veuves: «L’ordine delle vedove, rettamente inteso, è una forma antica e ora rinnovata di vita consacrata, nella quale si vive con una consacrazione più intima la vocazione stessa del battesimo, della cresima, ma anche del matrimonio».  Si può concludere che la benedizione rituale della vedova è una vera consacrazione a Dio espressa nel proposito di seguire Cristo da vicino praticando i consigli evangelici.

Pene per l’infrazione del voto di vedovanza

            Riprendo quanto scrive il prof. René Metz: «L’infedeltà all’impegno assunto dalla vedova è stata sempre considerata una mancanza grave, tanto che la Chiesa ha adottato misure disciplinari verso le vedove, verso i loro complici. Tuttavia non si nota alcuna uniformità in ciò che concerne la natura delle pene. Alcuni concili escludono dalla Chiesa la vedova infedele sino alla sua ammenda  (Worms [dell’868] c. 20); altri la scomunicano insieme con il complice (Orléans III [del 538] c. 19); altri chiedono che sia inflitta loro una pena, ma senza precisarne la natura (Orange [del 441] c. 26; Magonza [dell’888] c. 26); altri, infine, si limitano a richiamare l’obbligo grave della fedeltà all’impegno assunto (Parigi [del 614] c. 15».

Importanza e contenuto della benedizione rituale

        

           Dai testi liturgici antichi e attuali è possibile ricavare la natura di questa forma di vita consacrata, vissuta nella loro vita dalle vedove credenti. Nelle formule di consacrazione e nelle stesse preghiere di benedizione viene affermato che l’offerta che la vedova compie è una offerta di se stessa che ha come termine Dio, come caratteristiche la totalità e la perpetuità, come garanzia l’intervento della Chiesa, come fondamento i sacramenti del Battesimo, della Confermazione e del Matrimonio. Questa totale consacrazione appare espressa nell’insieme dei diversi momenti che formano il Rituel des Bénediction des veuves della Fraternità di Nostra Signora della Resurrezione di Parigi: si vedano la formula o «déclaration» di impegno, la formula del proposito riguardante il voto di castità, le interrogazioni rivolte alla vedova, le monizioni, la nuova benedizione della “fede” matrimoniale.

            La preghiera di benedizione esprime la consacrazione che la Chiesa opera nei confronti della vedova che dona totalmente la sua persona a Dio. Il «proposito» con il quale la vedova assume l’impegno della castità definitiva per il Regno di Dio è un vincolo sacro che la impegna a dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa. Nelle interrogazioni, il «proposito» viene posto in relazione con la sequela di Cristo come appare nel Vangelo. La vedova è chiamata a uno stile di vita evangelico (povero, obbediente, casto), perché donata totalmente a Cristo, desiderosa di conformarsi al suo Signore in ogni cosa.

Disciplina canonica dell’Ordo Viduarum

 

            Il rapido excursus storico delineato e le brevi considerazioni teologiche sviluppate, ci consentono di tracciare la disciplina canonica dell’Ordo Viduarum. Oltre al diritto antico e alla tradizione, terremo presente lo sviluppo dell’Ordo dopo il concilio Vaticano II.

  • Ordo Viduarum: il termine Ordo Viduarum ha un’antica tradizione. La parola ordo va intesa nel senso di una aggregazione o categoria di fedeli che hanno in comune una o più realtà. Le persone considerate sono le vedove cristiane che si consacrano a Dio mediante il proposito di castità perpetua per dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa. Nella Chiesa dei primi secoli alla condizione vedovile era riservata una speciale onorabilità. Nella Chiesa del terzo millennio sempre più si rafforza la persuasione che la vedovanza consacrata è un dono dello Spirito offerto alla Chiesa. Le vedove consacrate si distinguono, dentro la compagine ecclesiale, per il fatto di avere in comune il dono della consacrazione della vedovanza. Per questo esse occupano un posto speciale nella comunità cristiana. Con le parole di Giovanni Paolo II possiamo dire che l’Ordo Viduarum è formato da vedove che «mediante il voto di castità perpetua quale segno del Regno di Dio, consacrano la loro condizione per dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa». Le vedove che fanno parte dell’Ordo Viduarum emettono liberamente, in forma definitiva, il proposito di permanere per sempre nella condizione vedovile e, mediante il Rito liturgico di Benedizione, vengono consacrate per aderire ad una forma di vita nella quale vivere più intensamente la consacrazione battesimale e la confermazione, come pure la vocazione propria del matrimonio, acquisendo così una particolare identità riconosciuta e approvata dalla Chiesa. Il Rito liturgico di Benedizione non incorpora in un istituto, né religioso né secolare, né in una associazione, ma dà luogo ad una consacrazione individuale, per sua natura definitiva, che consacra la condizione della vedova a dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa.
  • Condizioni per l’ammissione: per essere ammesse al solenne Rito di Benedizione ed essere ascritte all’Ordo Viduarum, le vedove devono assolvere alle seguenti condizioni necessarie:
  • Avere ricevuto i sacramenti del battesimo e della confermazione e avere validamente contratto il matrimonio canonico, poi sciolto per la morte del coniuge. Non può essere ammessa all’Ordo la vedova che si è di nuovo sposata dopo il primo matrimonio.
  • Avere una determinata età: le fonti, di ieri e di oggi, contengono disposizioni molto diverse. Eccone alcune: aver compiuto «almeno 50 anni» (Didascalia, Siria, terzo secolo), «almeno 60 anni» (Costituzioni apostoliche, composte tra il 381-394), «almeno 45 anni di età unitamente al decorso di un congruo numero di anni dalla morte del coniuge» (Statuto “Ordo Viduarum Ambrosianus”, approvato nel 2002, rivisto nel 2005), «non ci sono limiti di età» (Statuto dell’Arcidiocesi di Palermo, dove si aggiunge: «purché si accettino le norme dello Statuto»), «circa l’età della candidata, sarà tenuto in considerazione non precipuamente il dato anagrafico, che pure va attentamente vagliato (cf. 1 Tim 5,11-14), quanto piuttosto il cammino spirituale e la maturità della persona chiamata a testimoniare questo dono» (Statuto dell’Ordo Viduarum della Diocesi di Roma, 2013): a mio avviso è preferibile la direttiva dello Statuto dell’Ordo Viduarum della Diocesi di Roma.
  • Aver conseguito un’adeguata preparazione: le fonti antiche non si occupano della preparazione e nemmeno della formazione permanente delle vedove. Gli Statuti attuali da me esaminati, contengono pochi cenni sulla formazione. Forse è un segno che si è in una fase di riflessione e di ricerca. La formazione iniziale è indispensabile. Gli Statuti dell’Arcidiocesi di Palermo prevedono «un anno di probandato e uno di noviziato», necessari per l’ammissione ai voti temporanei, ma non viene indicato il programma formativo. Per i voti perpetui, che potranno essere emessi nel terzo anno, è richiesto alla vedova che abbia dato «per un periodo congruo una fervente testimonianza di preghiera e servizio, nella fedeltà alla Chiesa locale e al suo Vescovo» (Statuti, art. 6). Lo Statuto dell’Ordo Viduarum della Diocesi di Roma stabilisce che la formazione delle vedove che scelgono di consacrarsi deve essere diviso in due momenti: uno previo di preparazione al momento della consacrazione e uno permanente, che guidi, sostenga e nutra il cammino spirituale e la fedeltà ad esso della vedova consacrata. La fase previa è divisa in tappe progressive, mentre quella permanente è condotta in forma comunitaria sotto la guida dell’Assistente (Statuto dell’Ordo Viduarum della Diocesi di Roma, art. 4). Gli Statuti della Diocesi di Milano demandano ai Regolamenti la disciplina del cammino di formazione, iniziale e permanente. In questa Diocesi, dal 2002 è iniziato un cammino regolare, cadenzato da incontri mensili, distinto per le candidate e le aspiranti e per le consacrate. Sono dell’avviso che sia indispensabile la formazione iniziale, affidata a una o più vedove consacrate. Ugualmente non potrà mancare la formazione continua o permanente. Nella elaborazione dei cammini formativi si deve tener conto della particolare condizione delle vedove. La loro vita si svolge nel servizio della propria famiglia e della Chiesa locale, in stretta comunione con il Vescovo. A mio avviso, difficilmente si può scandire la vita e l’itinerario formativo delle vedove applicando ad esse l’itinerario formativo della vita religiosa: postulanti, novizie, professe temporanee, professe perpetue. Una volta consacrata con la sacra benedizione, la vedova è chiamata a vivere l’impegno assunto in forma definitiva.
  • Aver presentato domanda scritta al Vescovo. Lo Statuto della Diocesi di Milano stabilisce che spetta al Vescovo compiere un adeguato discernimento dei segni positivi della “chiamata vocazionale” a vivere la vedovanza con spirito evangelico. Lo Statuto dell’Arcidiocesi di Palermo stabilisce che l’ammissione ai voti temporanei richiede l’approvazione dell’assistente spirituale e della responsabile diocesana. Anche lo Statuto dell’Ordo Viduarum della Diocesi di Roma stabilisce che la vedova deve manifestare in una domanda scritta rivolta al Cardinale Vicario il desiderio di intraprendere il cammino verso la consacrazione e di ricevere la benedizione (art. 3). A mio avviso il discernimento e l’ammissione dovrebbero essere compito del vescovo diocesano. Il vescovo diocesano è il garante della comunione ecclesiale. Alla sua cura sono affidate tutte le forme di vita consacrata e la cura si esprime sia nell’incoraggiamento che nella vigilanza (Pastores gregis, n. 50). Sarà dovere delle vedove consacrate accogliere cordialmente le indicazioni pastorali del vescovo, mirando a una piena comunione con la vita e la missione della Chiesa particolare ove dimorano.
  • Il Rito liturgico di benedizione: nei libri liturgici del primo e del secondo millennio il termine più usato nei titoli dei riti liturgici riguardanti le vedove è benedictio. Solamente il Pontificale Romano-Germanico del decimo secolo usa il termine consecratio. A partire dal Pontificale Romano del secolo XII si usa sempre il termine benedictio, termine che si ripete nel Pontificale Romano del Medioevo II, il Pontificale della Curia romana e nel Pontificale Romano III, il Pontificale di Guillaume Durand. Anche per le vergini consacrate i termini usati sono consecratio e benedictio. Il Pontificale di Guillaume de Durand usa indistintamente i due termini di benedictio e di consecratio. La diversità delle formule è indicativa di una certa gradualità nella comprensione della virginità consacrata o della vedovanza dedicata al Signore. L’Ordo consecrationis virginum del 1970 ricupera il termine consecratio, mantenendo il termine ordo che è proprio dei pontificali. Per quanto riguarda le vedove i due rituali di Parigi e di Milano mantengono il termine tradizionale benedictio. Lo Statuto “Ordo Viduarum Ambrosianus” così descrive il rito di benedizione:

«La solenne Benedizione delle vedove, compiuta secondo il rito liturgico approvato e fatta in luogo pubblico, è presieduta dall’Arcivescovo o dal Vicario episcopale delegato per l’Ordo. Mediante la benedizione e l’emissione del proposito definitivo di permanere nella vedovanza le vedove benedette entrano a far parte dell’”Ordo Viduarum Ambrosianus” della Chiesa di Milano. I loro nomi sono iscritti nell’apposito Albo diocesano dell’Ordo». La questione del termine da usare – consecratio o benedictio - è, forse, soltanto terminologica. È importante che sia ben definita la consacrazione, nei suoi contenuti come sopra illustrati (importanza e contenuto della benedizione rituale). La consacrazione avviene con la preghiera di benedizione del vescovo diocesano o del vicario episcopale delegato e con l’atto della vedova che emette il proposito definitivo di permanenza nella vedovanza. La vedova diviene così «persona benedetta» o «consacrata», che implica la donazione a Dio di tutta la persona e la dedizione alla preghiera e al servizio della Chiesa nell’Ordo Viduarum.

  • La responsabilità del vescovo per le vedove benedette (consacrate): la sollecitudine pastorale nei confronti delle vedove benedette (consacrate) e delle donne che aspirano a ricevere la benedizione sulla loro professio viduitatis è parte del ministero ordinario del vescovo diocesano. Il vescovo è chiamato a favorire il cammino di tutti i fedeli per il compimento dell’unica vocazione alla santità, operando un sapiente discernimento per riconoscere tutte le vocazioni e i carismi. È compito del vescovo, oltre al discernimento vocazionale, di “benedire” (consacrare) le vedove chiamate, di assicurare loro una adeguata cura pastorale e di vigilare affinché sia sempre custodito il carisma originario dell’Ordo. Egli (può) affida(re) a un vicario episcopale come proprio delegato le funzioni di collegamento tra l’Ordo e il proprio ministero episcopale. Il vescovo, secondo l’opportunità, nomina uno o più assistenti spirituali per seguire l’animazione e la formazione spirituale delle vedove e l’accompagnamento delle stesse nel loro cammino formativo, iniziale e permanente.
  • Impegni della vedova benedetta (consacrata): con il solenne rito liturgico della Benedizione la vocazione alla consacrazione della vedova è riconosciuta e accolta come un dono alla Chiesa diocesana. Assieme al voto di castità perpetua, segno del Regno di Dio, il primo e irrinunciabile impegno della vedova benedetta (consacrata) è quello della preghiera e del servizio della Chiesa. La vita di preghiera sarà insieme personale e familiare, sarà anche commemorazione del marito defunto e intercessione per lui. L’obbligo della preghiera è anzitutto morale. Potrà essere concretizzato con la partecipazione frequente della Santa Messa e la recita della liturgia delle ore (lodi mattutine e vespertine) e del rosario. Sarà suo dovere partecipare alla vita liturgica della parrocchia e della diocesi. Il programma di vita spirituale deve condurre a far sì che la vita della vedova benedetta diventi offerta, preghiera e servizio. Il servizio potrà attuarsi nella famiglia, nella comunità parrocchiale, nella Diocesi e nello stesso Ordo Viduarum dove potrà concretizzarsi in forme di collaborazione ai diversi incarichi e iniziative.

Nel concludere segnalo che restano altre questioni da trattare. In alcuni statuti all’espressione «voto di castità perpetua», usato da Giovanni Paolo II in Vita consacrata n. 7c, viene preferito il termine «proposito» attribuendo ad esso lo stesso significato che assume nell’Ordo Virginum. Ci sono buone ragioni per accogliere il termine «proposito». Gli statuti trattano, inoltre, del regolamento dell’Ordo Viduarum, una volta approvati gli statuti, delle strutture dell’Ordo Viduarum (coordinatrice o presidente, segreteria, programma, ecc.), dell’eventuale abbandono o uscita definitiva e della dimissione dall’Ordo. Sono tutte questioni che lascio al dibattito dell’assemblea.

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