«Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti»: la frase di De Merode, l’arcivescovo belga vissuto nell’800, con cui Papa Francesco ha aperto nella mattina di giovedì 21 dicembre il discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, dice già tutto sulla concretezza con cui ha affrontato il tema del servizio della Curia Romana. Il punto di partenza del suo intervento dedicato alla Curia “ad extra” («al servizio della Parola e dell’annuncio della Buona Novella») sono stati i «principi basilari e canonici della Curia», la sua stessa storia ma anche la «visione personale che ho cercato di condividere con voi nei discorsi degli ultimi anni, nel contesto dell’attuale riforma in corso».
È ancora nella mente il discorso del 2014, quando elencò 15 “malattie curiali”, e quello dell’anno successivo quando definì alcuni “antibiotici curiali” attraverso un’analisi. Anche quest’anno le immagini non mancano: dai “sensi” (tanto da definire i dicasteri della Curia come “sensi istituzionali”), con un riferimento di matrice ignaziana, alle “antenne”, chiamate ad essere sia “emittenti” che “riceventi”. Il filo conduttore del discorso è un richiamo al servizio – parla di «atteggiamento diaconale», Francesco -, alla comunione e alla fedeltà, che emerge soprattutto nella parte iniziale con un richiamo molto preciso.
Il primo invito del Papa – che ringrazia per l’indirizzo di omaggio il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio – è a «superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano – nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni – un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano».
Poi la sottolineatura di un «pericolo»: quello «dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma, non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità, si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia”…, invece di recitare il “mea culpa”. Accanto a queste persone – aggiunge il Papa – ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene». Senza dimenticare, chiarisce Francesco, «la stragrande parte di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità».
Sull’impegno “ad extra” della Curia Romana il Papa indica alcuni aspetti fondamentali: il rapporto con le nazioni innanzitutto, nell’ambito del quale parla del compito della diplomazia vaticana, «al servizio dell’umanità e dell’uomo, della mano tesa e della porta aperta», come testimoniano tanti passi compiuti in questi anni. Ancora, il rapporto con le Chiese particolari, con le proficue “visite ad limina” degli episcopati in un clima di «ascolto sincero», e quello con le Chiese orientali, detentrici di «inestimabili ricchezze». E qui sottolinea «la testimonianza eroica di tanti nostri fratelli e sorelle orientali che purificano la Chiesa accettando il martirio e offrendo la loro vita per non negare Cristo». Infine, il dialogo ecumenico, definito «irreversibile e non in retromarcia», e quello interreligioso, guidato da «tre orientamenti fondamentali: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni».
La conclusione del discorso, sul senso del Natale, è un monito che interpella tutti. «Il Natale – afferma Francesco – ci ricorda però che una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta. In realtà, una fede soltanto intellettuale o tiepida è solo una proposta di fede, che potrebbe realizzarsi quando arriverà a coinvolgere il cuore, l’anima, lo spirito e tutto il nostro essere, quando si permette a Dio di nascere e rinascere nella mangiatoia del cuore, quando permettiamo alla stella di Betlemme di guidarci verso il luogo dove giace il Figlio di Dio, non tra i re e il lusso, ma tra i poveri e gli umili».
21 dicembre 2017