La testimonianza delle monache agostiniane: “rimanere” declina l’amore

Pubblichiamo la testimonianza della priora suor Fulvia Sieni e delle sorelle Agostiniane dei Santi Quattro Coronati su questo tempo di emergenza sanitaria.

“RIMANERE” DECLINA L’AMORE

Don Camillo spalancò le braccia rivolto al Crocifisso: “Signore se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?” il Cristo sorrise: “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancora più fertile dal limo del fiume e il seme fruttificherà. (…) Bisogna salvare il seme: la fede”.

Queste parole che Guareschi mette sulle labbra del suo Crocifisso sembrano fare eco a quelle che la nostra amica Etty Hillesum scriveva una domenica mattina del 1942: “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. (…) Una cosa però diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. (…) E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.”

Mi sembra di poter dire che queste due intuizioni spirituali interpretino bene il modo in cui abbiamo vissuto e stiamo vivendo (ancora) questo tempo.

Tutti l’abbiamo percepito come l’arrivo di un temporale: sembrava passeggero e pareva bastassero ombrello e stivali; poi si è rivelato un’alluvione dirompente (“una tempesta” dirà Papa Francesco il 27 marzo), che si è abbattuta travolgendo gli argini delle routines quotidiane che ci davano sicurezza e scoperchiando i tetti della nostra malcelata vulnerabilità.

Il confinamento che sembrava un’ipotesi improbabile (lontana quanto la Cina) è divenuto presto realtà così come l’impossibilità a celebrare l’Eucarestia, a confessarsi (fatti distanti da noi romani almeno quanto l’Amazzonia)… impensabili e poi concreti da un giorno all’altro.

In modo ingenuo, direi semplice, qualcuno, forse per incoraggiarci, ci ha detto che tutto sommato per noi monache non sarebbe cambiato nulla: in clausura eravamo e in clausura restavamo. (Giravano anche vignette ironiche sul web)

Ma non è mai stato vero: anche per noi è cambiato tutto!

Questo tempo, a noi come a tutti, ci ha strappato da ogni distrazione, letteralmente cioè ha spazzato via ogni movimento, ogni spinta che potesse portarci lontano dalla realtà e dal suo dolore.

Emozioni, affetti, sentimenti, preghiera, pensieri, parole… Tutto si è impregnato delle angosce, del lutto e delle speranze che stavamo e stiamo vivendo (perché dobbiamo ricordarci che in alcune parti del mondo il virus è ancora molto violento). Il succedersi implacabile di cattive notizie ci ha coinvolto in modo forte regalandoci l’impressione certa non solo di sapersi, ma di sentirsi corpo, Corpo di Cristo, legate in modo indissolubile come membra vive gli uni agli altri; di appartenere ad un popolo, indispensabili nel tessere legami di reciprocità e di cura.

Abbiamo sentita interpellata la nostra fede. Il grido di paura in tutta la sua drammaticità, ci ha raggiunto, lo abbiamo ascoltato in noi e fuori di noi; abbiamo pianto, pregato, offerto quanto potevamo, proprio come tutti.

L’aver fatto interiormente e comunitariamente esperienza di questo sgomento, ci ha permesso di preoccuparci in modo molto concreto delle persone che, come noi, cercavano ragioni per sperare dicendo come Israele nel deserto: “il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7)
Il portone del Monastero si chiudeva, le porte di tutti si serravano come quelle delle chiese, anche della nostra, e noi abbiamo sentito nitida la chiamata ad uscire.

Subito dopo aver celebrato l’ultima messa, l’8 marzo, per Grazia abbiamo compreso di dover uscire noi, di far sentire fuori la voce della Parola e la forza della preghiera perché nessuno si sentisse solo. Questa inquietudine ci ha fatto aprire il cuore e la mente alla creatività dello Spirito che ci ha permesso di inventare nuovi modi per vivere il nostro ministero di presenza, preghiera e intercessione: così ogni giorno, per 81 giorni, abbiamo pubblicato in rete un breve video con un canto, il Vangelo del giorno e un nostro commento che voleva essere una parola di incoraggiamento e di aiuto a riconoscere la Buona Notizia che il quotidiano porta comunque con sé.

È stato impegnativo, laborioso e bellissimo!

Sostare a lungo insieme sulla Parola per produrre solo 20 secondi di commento ha aiutato prima di tutto noi a rimanere centrate sul Vangelo e, sappiamo, ha aiutato migliaia di persone che volentieri ascoltavano un annuncio sereno e allo stesso tempo forte, cui aggrapparsi per vivere l’emergenza e affrontare la paura un giorno alla volta.

Organizzandoci poi con mezzi semplici (e superando non poche difficoltà tecnologiche) abbiamo pensato di andare incontro a tutti ancora condividendo la Liturgia delle Ore, le Lodi, il Vespro e la Compieta tramite il canale YouTube; così anche la Settimana Santa nei suoi momenti di preghiera più intensi e poi fino alla Pentecoste. Abbiamo scoperto che centinaia di persone, bloccate in casa, si univano in diretta alla preghiera, molte di più di quanto la nostra piccola Basilica possa contenere. Abbiamo gustato fortissima la comunione, la forza dell’intercessione e la compagnia di un popolo orante.

Abbiamo scelto di vivere questo tempo come Aronne e Cur sul monte con Mosè, chiamati a sostenere le braccia della Chiesa in preghiera durante il gran combattimento della fede.

Nel frattempo, i contatti si sono moltiplicati: e-mail, messaggi, telefonate con richieste di ascolto soprattutto e di aiuto per affrontare la paura, l’ansia, la sfiducia e le difficoltà della improvvisa convivenza forzata.

Impropriamente chiamato clausura, il confinamento cui tutti sono stati sottoposti, ha snudato le relazioni già fragili e ha rivelato la difficoltà di molti a “rimanere” lì dove la storia e la loro vocazione li hanno collocati. Sappiamo che nel Vangelo il verbo “rimanere” è uno dei verbi in cui si declina l’amore; in molti, sebbene non tutti, abbiamo preso consapevolezza della nostra incapacità ad amare persino le persone più vicine. Non solo le famiglie ma anche alcune comunità di vita consacrata hanno patito il venir meno delle attività che normalmente vissute fuori di casa o dal convento, magari in parrocchia o con i giovani, portavano al rarefarsi della condivisione. Alcune sorelle ci hanno chiesto aiuto per rimodulare la loro vita comunitaria e per reimparare a stare insieme.

La nostra miglior risorsa, la vita fraterna, ci ha permesso di essere davvero prossime comprendendo le fatiche e aiutando a rasserenare anche situazioni complesse. Non che nella nostra vita manchino le difficoltà, ma la grazia di viverla ci insegna a riconoscerle e affrontarle. Siamo allenate ogni giorno a questo dalla “stabilità” che caratterizza il monachesimo.

Abbiamo trovato bellissima questa condivisione e queste relazioni di aiuto che inverano la forza e la reciprocità di ogni vocazione laddove ciascuna porta un annuncio a tutte le altre.

Nemmeno a noi è mancato il sostegno concreto di molti: la Provvidenza si è fatta presente attraverso persone amiche che hanno provveduto a noi per i farmaci, la spesa ordinaria, e poi la Caritas diocesana che ci ha aiutato con beni di prima necessità e ci ha permesso di aiutare altri Monasteri della città in difficoltà e numerose famiglie.

Per vivere con maggior consapevolezza abbiamo poi deciso di creare uno spazio di pensiero, trasformando il nostro incontro comunitario quotidiano in un laboratorio vero e proprio dove elaborare insieme il vissuto di questo tempo leggendo articoli, riflessioni, condividendo considerazioni, aiutandoci a verbalizzare il dolore, la paura, le preoccupazioni, ma anche e soprattutto la fede, le speranze, i sogni, le idee… Il laboratorio è ancora aperto!

Nessuna di noi prima d’ora, nemmeno le più anziane, aveva vissuto un tempo storico così difficile e delicato, e nemmeno così violento. Nessuna è testimone di guerre o eventi globali drammatici.
Questo momento crea in noi un prima e un dopo, e vogliamo che sia così: come deve esserci un’umanità di prima e una di post-Covid, così dovrà esserci una Chiesa, e una Chiesa di Roma, di prima e di post-Covid, e così vogliamo che sia per la nostra Comunità.

2 ottobre 2020