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3 Aprile 2024-: Serva di Dio Lorena D'Alessandro (1964-1981)-: Serva di Dio Lorena D'Alessandro (1964-1981)3 Aprile 2024 - Serva di Dio Lorena D'Alessandro
“Non voglio fiori al mio funerale: i soldi che devono essere così inutilmente spesi siano inviati come aiuto alle missioni dei padri Benedettini Silvestrini. Non piangete, ma gioite per me, perché finalmente, se il Signore mi riterrà degna, potrò partecipare alla gioia eterna. Lascio i poveri del mondo, lascio chi soffre nello spirito e nel corpo, alle preghiere di tutti”. Così aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale, l’estate prima della sua morte, Lorena D’Alessandro, una ragazza che nella sua infermità aveva saputo sorridere alla vita e infondere tanto coraggio a chi gli stava accanto, che aveva scoperto il vero senso della sofferenza e aveva visto nel volto crudele della morte, avvenuta nel 1981 a soli 16 anni, il volto di “sorella morte” che spalanca le porte dell’eternità. Della giovane catechista romana l’8 aprile scorso, presso il Vicariato di Roma, si è chiusa la fase diocesana della causa di Beatificazione. La sua testimonianza, come quel giorno ha sottolineato egregiamente il Cardinale Vicario Camillo Ruini, “rappresenta quel sale della terra che potrà rendere meno insipida e insignificante la vita di tanti adolescenti che vivono nella nostra società in modo distaccato dai valori duraturi”. Lorena aveva appena 16 anni quando è morta. Era il 3 aprile 1981. Quel giorno il “fiore della Rustica” chiudeva i propri occhi alla vita della terra per aprirli a quella del Cielo. Una parabola umana, la sua, breve ma intensa. Nata il 20 novembre 1964, primogenita di tre figli, Lorena D’Alessandro aveva cominciato fin da piccola a frequentare la parrocchia intitolata alla Madonna di Czestochowa, tenuta dai padri Benedettini Silvestrini, alla periferia est della capitale, nel popolare quartiere della Rustica. La sua esistenza viene subito attraversata dalle sofferenze fisiche: a soli 10 anni viene ricoverata al Policlinico Gemelli, dove subisce un trapianto osseo a causa di un tumore alla gamba sinistra. Due anni dopo, un altro intervento chirurgico per un sospetto rigetto del chiodo utilizzato nella precedente operazione. I medici si accorgono che il tumore si sta riformando e chiedono ai genitori di Lorena, Giovanni e Alba, di poterle amputare l’arto nel tentativo di salvarle la vita. I genitori scelgono la vita e Lorena perde una gamba, al suo posto avrà una protesi che porterà con molto coraggio ed una certa disinvoltura. La ragazza ha accettato il proprio handicap, decidendo di aprirsi agli altri: nel 1979, impegnandosi in parrocchia come catechista, guida il suo primo gruppo di bambini. Studentessa al liceo classico, Lorena ama suonare la chitarra e cantare nell'animazione della Messa; entra a far parte del gruppo parrocchiale del Rinnovamento nello Spirito Santo. I suoi amici la ricordano sempre impegnata, sensibile e pronta ad aiutare gli altri. Nell'estate del 1980 Lorena va a Lourdes, insieme alla sua comunità, unendosi al pellegrinaggio organizzato dall'Opera Romana per i catechisti di Roma: “Nella sofferenza di tanti fratelli, ho incontrato la Madonna”, annota la ragazza. “Lourdes è una città stupenda e AMO MARIA, spero con tutta l'anima che lei possa essermi guida ed aiuto per tutto quest'anno, che spero di trascorrere per dare lode e gloria al Signore”. Alla fine dell'anno la sua parrocchia ospita 150 giovani di Taizé; alla ragazza tedesca che dormirà nella sua casa Lorena scriverà: “I giorni vissuti con te sono stati tra i più belli della mia vita, perché mi avete aiutato a riscoprire la gioia di credere in Cristo”. Poche settimane più tardi, nel gennaio 1981, le viene diagnosticato un tumore al polmone sinistro con metastasi diffuse, che la porterà alla morte in tre mesi appena. Ma il “fiore della Rustica” vive ancora.
Preghiera
Gesù, che con il dono del tuo Spirito hai plasmato il cuore e la mente di Lorena perché ti servisse con gioia e generosità nella sua breve esistenza terrena sulla via della croce nel sacrificio totale della sua giovinezza, ti preghiamo che sul suo esempio i giovani amino il dono della vita e sappiano costruire il terzo millennio cristiano alla luce del tuo vangelo. Ti chiediamo di glorificare anche in terra la tua serva Lorena per la maggior gloria tua e il bene dell’umanità da te redenta, concedendoci le grazie che per sua intercessione ti domandiamo. Amen
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12 Aprile 2024-: San Giuseppe Moscati (1880-1927)-: San Giuseppe Moscati (1880-1927)12 Aprile 2024 - San Giuseppe Moscati
Giuseppe Moscati fu uno dei medici più conosciuti della Napoli d’inizio Novecento. Per la sua capacità di coniugare scienza e fede, è riconosciuto come Santo dalla Chiesa cattolica a partire dal 1987. Ancora oggi riceve visite da persone di ogni parte del mondo, non solo per le infermità fisiche, ma anche per i mali che colpiscono l’animo degli uomini del nostro tempo. Contrariamente a quanto si possa credere, non nacque a Napoli, ma a Benevento, il 25 luglio 1890, da Francesco Moscati, magistrato, e Rosa de Luca; fu il settimo dei loro nove figli. Si trasferì nel capoluogo campano quando aveva quattro anni, dopo una breva permanenza ad Ancona, per via del lavoro del padre. L’8 dicembre 1888 ricevette la Prima Comunione da monsignor Enrico Marano nella chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, fondate da santa Caterina Volpicelli. Studiò presso il liceo «Vittorio Emanuele»; dopo il conseguimento del diploma di maturità classica, nel 1897, iniziò gli studi universitari presso la facoltà di Medicina. Il motivo di quella scelta, di rottura rispetto alla tradizione familiare (oltre al padre, anche suo nonno paterno e due fratelli avevano studiato Giurisprudenza), è forse dovuto al fatto che, dalla finestra della nuova abitazione, poteva osservare l’Ospedale degli Incurabili, che suo padre gl’indicava suggerendogli sentimenti di pietà per i pazienti ricoverati. Il primo ammalato con cui ebbe a che fare suo fratello Alberto, il quale, caduto da cavallo, subì un trauma cranico, che gli produsse una forma di epilessia. Quest’evento persuase il giovane da una parte della brevità della vita umana, dall’altra di doversi dedicare interamente alla professione medica. Nel frattempo, il 2 marzo 1898, fu cresimato da monsignor Pasquale de Siena, vescovo ausiliare del cardinal Sanfelice, arcivescovo di Napoli. All’epoca la facoltà di Medicina, insieme a quella di Filosofia, era quella più influenzata dalle dottrine del materialismo. Tuttavia Giuseppe se ne tenne a distanza, concentrandosi sulla preparazione degli esami. Concluse gli studi il 4 agosto 1903 con una tesi sull’urogenesi epatica, laureandosi col massimo dei voti. Nemmeno tre anni dopo, iniziò a emergere la sua capacità di agire tempestivamente: dopo aver assistito alle prime fasi dell’eruzione del Vesuvio dell’8 aprile 1906, si precipitò a Torre del Greco, dove gli Ospedali Riuniti di Napoli avevano una sede distaccata, e trasmise l’ordine di sgombero, caricando personalmente i pazienti, molti dei quali paralitici, sugli automezzi che li avrebbero condotti in salvo. Appena l’ultimo paziente fu sistemato, il tetto dell’ospedale crollò. Per sé il giovane medico non volle encomi, ringraziando invece il resto del personale, a suo dire più meritevole. Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia: i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni. Tra gli elogi che arrivavano da parte del mondo accademico, gli giunse anche la vittoria in un importante concorso, che lo inserì a pieno titolo nell’attività dell’Ospedale degli Incurabili. Portava avanti in parallelo l’esercizio della professione e la libera docenza universitaria. Furono numerose anche le sue pubblicazioni su riviste di settore e le partecipazioni a congressi medici internazionali. Un insegnamento di rilievo gli veniva dalle autopsie, nelle quali era tanto abile che, nel 1925, accettò di dirigere l’Istituto di anatomia patologica. Un giorno convocò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro non un caso clinico, ma la vittoria della vita sulla morte: «Ero mors tua, o mors», come diceva un cartello sovrastato da un crocifisso, fatto sistemare da lui su una delle pareti. In altri casi, mentre esaminava i cadaveri, fu udito affermare che la morte aveva qualcosa d’istruttivo. Non che fosse un personaggio cupo, tutt’altro. I suoi parenti e colleghi testimoniarono che dalla sua persona promanava un fascino distinto, che lo rendeva di buona compagnia. Era anche molto attento alla natura, all’arte e alla storia antica, come si evince dal racconto di un viaggio in Sicilia. Non si concedeva altri svaghi come andare a teatro o al cinema e non aveva neppure un’automobile sua, preferendo spostarsi a piedi o coi mezzi pubblici, anche sulla lunga distanza. Erano tutti modi con cui si esercitava a conservarsi sobrio e povero, come gli ammalati che prediligeva visitare. Numerosi sono i racconti di pazienti che si videro recapitare indietro la somma con cui l’avevano pagato, anche se ne aveva diritto essendo venuto da lontano. I poveri, per lui, erano «le figure di Gesù Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi». Viene quasi alla mente l’espressione che papa Francesco ha più volte pronunciato, definendoli “carne di Cristo”, quindi scendendo nel concreto della corporeità e del dolore. Il dottor Moscati insegnava a trattare questa manifestazione «non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità». E proprio la carità era, secondo lui, la vera forza capace di cambiare il mondo, come scrisse nel 1922 al dottor Antonio Guerricchio, un tempo suo assistente: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene». Nel dottor Moscati la scienza era compenetrata da un’acuta capacità diagnostica, tanto più sorprendente se si pensa che, alla sua epoca, erano sicuramente noti i raggi X, ma non le tecniche con le quali oggi s’indaga l’interno degli organi, come la TAC o altre. I sintomi che altri riconducevano a malattie di un certo tipo erano da lui riferiti a cause di natura diversa, per le quali disponeva terapie il più delle volte benefiche. Oltre ai suoi prediletti, ebbe due pazienti celebri: il tenore Enrico Caruso, a cui rivelò – dopo essere stato tardivamente consultato – la vera natura del male che lo condusse alla morte, e il fondatore del santuario della Madonna del Rosario di Pompei, il Beato Bartolo Longo. Tutte queste doti traevano la propria sorgente dall’Eucaristia, che riceveva quotidianamente, in particolare nella chiesa del Gesù Nuovo, non molto lontana dalla sua abitazione, in via Cisterna dell’Olio 10, dove viveva con la sorella Anna, detta Nina. Grande era anche la sua devozione alla Vergine Maria, sul cui esempio decise, nel pieno della maturità, di rimanere celibe, ma senza farsi religioso come san Riccardo Pampuri né diventare sacerdote, scelta che invece compì, a quarantacinque anni, il Servo di Dio Eustachio Montemurro. Qualcuno ha sospettato che fosse, per usare un eufemismo, incapace alla riproduzione o che avesse qualche tratto di misoginia. In realtà non si riteneva incline al matrimonio, che invece esortava ad abbracciare ai suoi giovani allievi: inoltre, se avesse preso moglie, non sarebbe più stato libero di visitare i suoi poveri. La morte lo colse per infarto al culmine di una giornata come tante, verso le 15 del 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette, poco dopo aver applicato a se stesso la capacità diagnostica che aveva salvato tanti, è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina. I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è quindi svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975. A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. In quel periodo si stava svolgendo la VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II»: non poteva esserci occasione migliore per indicarlo alla venerazione dei cattolici di tutto il mondo. Il 16 novembre del 1930 i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Sempre il 16 novembre, ma del 1977, quindi due anni dopo la beatificazione, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione canonica.
Preghiera
Amabilissimo Gesù, che ti degnasti venire sulla terra per curare la salute spirituale e corporale degli uomini e fosti tanto largo di grazie per San Giuseppe Moscati, facendolo un medico secondo il tuo Cuore, insigne nella sua arte e zelante nell’amore apostolico, e santificandolo nella tua imitazione con l’esercizio di questa duplice, amorevole carità verso il prossimo, ardentemente ti prego di voler glorificare in terra, il tuo servo nella gloria dei santi, concedendomi la grazia…. che ti chiedo, se è per la tua maggior gloria e per il bene delle anime nostre. Così sia. |
13 Aprile 2024 | 14 Aprile 2024 |
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17 Aprile 2024-: Santa Bernadette Soubirous (1844-1879)-: Santa Bernadette Soubirous (1844-1879)17 Aprile 2024 - Santa Bernadette Per tutta la vita santa Bernadette Soubirous cercò di assomigliare il più possibile alla Vergine Immacolata, che lei vide, ascoltò, amò. Fin dall’inizio delle apparizioni ella si trova implicata in una situazione del tutto paradossale: lei, che non sa né leggere, né scrivere e comprende soltanto il patois, si fa portavoce di un avvenimento soprannaturale, che fa eco in tutto il mondo. Bernadette che, dall’11 febbraio al 16 luglio 1858, aveva assistito a 18 apparizioni dell’Immacolata Concezione nella grotta di Massabielle, riesce a sbaragliare tutti: subisce numerosi interrogatori ufficiali perché è sospettata di impostura. Vogliono farla crollare, affinché cessi quell’incontrollato flusso di persone alla grotta delle guarigioni… Ma sono tutti sconcertati dalla sua limpidezza. Le sue risposte alla santa Giovanna d’Arco schivano tutte le trappole: non si confonde mai e non si contraddice. Scriverà di lei Monsignor Bertrand-Sévère Laurence, Vescovo di Tarbes, nella Lettera pastorale del 18 gennaio 1862: «Chi non ammira, avvicinandola, la semplicità, il candore, la modestia (…)? Mentre tutti parlano delle meraviglie che le sono state rivelate, solo lei mantiene il silenzio; parla soltanto quando viene interrogata (…) alle numerose domande che le vengono poste, dà, senza esitare, risposte nette, precise, pertinenti e piene di convinzione. (…) Sempre coerente, nei vari interrogatori a cui è stata sottoposta, ha mantenuto tutte le volte la stessa versione, senza togliere o aggiungere nulla». È semplice e mite, ma risoluta nella sua posizione e non è disposta a patteggiare con nessuno, così come non rinuncia al suo Rosario da quattro soldi: rifiuta a Monsignor Thibault, Vescovo di Montpellier, di scambiarlo con uno in oro e benedetto dal Papa. Di fronte agli scettici irriducibili si limita a dire: «Non sono stata incaricata di farvi credere. Sono stata incaricata di riferire». Fin dai tempi delle apparizioni esprime la volontà di farsi suora, senza che questo riguardi i tre segreti che la Vergine le aveva confidato e che lei non ha mai rivelato. Dove avrebbe potuto, meglio che nella vita religiosa, mettere in pratica quelle consegne di «preghiera» e di «penitenza per la conversione dei peccatori» che aveva ricevuto? Diventa suora della Carità e dell’Istruzione cristiana di Nevers. Fin dai tempi del noviziato Bernadette è stata una presenza costante in infermeria, malata al punto da essere ammessa a fare la professione in Articulo mortis, il 25 ottobre 1866. Nonostante le sue sofferenze, il rumore assordante, intorno a lei, non cessa, anzi. Con frequenza incessante è chiamata in parlatorio per incontri e domande. A suo avviso i circa cinquanta vescovi che sono andati a trovarla avrebbero fatto meglio a «restare nelle loro diocesi». Impara a leggere e a scrivere. Ha una buona mano per cucire e ricamare e poi è bravissima ad animare i giochi dei bambini. Vivace, disapprova ogni ipocrisia, ogni menzogna, ogni ingiustizia. Ha il carattere fiero, serio, onesto della sua gente, per cui ogni promessa è sacra. Si è fatta religiosa per nascondersi in Dio e invece, per obbedienza, deve essere in prima linea perché è sulla bocca di tutti. Questo problema viene da lei risolto nell’ottobre del 1873 ed è una specie di patto che si rifà alle parole dell’Immacolata: «Mi recherò con gioia in parlatorio (…). Dirò a Dio: sì, ci vado, a condizione che un’anima esca dal purgatorio o che convertiate un peccatore». La Madonna a Lourdes lasciò il dono dell’acqua miracolosa. Non parlò, però, dei malati fisici, bensì dei malati nell’anima e per essi Bernadette diede la sua giovane vita. Il peccato è il principale nemico dell’uomo, quello che corrompe e allontana da Dio sia spiritualmente che fisicamente. La salma incorrotta della bellissima santa Bernadette Soubirous è ancora lì, nella cappella del convento di Saint-Gildard, a testimoniare che la guarigione dell’anima è più importante della guarigione del corpo.
Con le parole di Bernadette: “O Gesù, dammi, ti prego, il pane dell’umiltà, “Ho sperato in Te, Signore, sii il mio rifugio, perché sei Tu la mia forza” “Mi basta Lui, Gesù solo come ricchezza” |
18 Aprile 2024 | 19 Aprile 2024 |
20 Aprile 2024-: Beata Chiara Bosatta (1858-1887)-: Beata Chiara Bosatta (1858-1887)20 Aprile 2024 - Beata Chiara Bosatta Nata a Pianello Lario (Como) il 27 maggio 1858, ultima di 11 fratelli, fu chiamata Dina. A tre anni, rimasta orfana di padre, un piccolo industriale della seta, la bambina fu presto avviata ai lavori della filanda. Ma la sorella Marcellina convinse i fratelli a lasciarla andare all'Istituto delle Madri Canossiane di Gravedona (1871), perché proseguisse gli studi, prestandosi contemporaneamente ai servizi domestici. Vi trascorse 6 anni che lasciarono una traccia assai profonda (1871-77). Dina ammirava la vita delle suore, ne maturò lo spirito, visse giorni di fervida pietà. Si credette chiamata alla vita religiosa, conforme al programma di S. Maddalena di Canossa che proclamava: “Dio solo!”. Le canossiane erano lusingate di accoglierla nel loro noviziato di Como. Per il suo carattere timido e riservato, incline al silenzio e alla contemplazione, più che all'azione, fu giudicata non idonea per quell'istituto e ritornò in famiglia. A Pianello Lario il parroco don Carlo Coppini aveva nel frattempo messo insieme un gruppetto di giovani: la Pia Unione delle Figlie di Maria, sotto la protezione di s. Orsola e s. Angela Merici (10 luglio 1871), ed aveva invitato ad entrarvi la sorella di Dina, Marcellina, che ne divenne superiora; con alcune di quelle fu possibile al parroco inaugurare (ottobre 1873) un provvidenziale ospizio per vecchi e bambini abbandonati. Dina entrò con fatica nella pia casa della quale non conosceva molto, ma che vedeva immersa in una grande attività per le bambine, le anziane e per aiutare i bisognosi del paese, mentre lei avrebbe preferito una casa tutta dedicata alla preghiera e alla contemplazione. Il 27 ottobre 1878 emise la professione, prendendo il nome di Chiara. Nel luglio 1881 morì il parroco e gli succedette il beato don Luigi Guanella. Nell'anno scolastico 1881-82 Dina completò la preparazione al diploma di maestra elementare, senza poter dare gli esami. Quindi, stabilitasi nell'ospizio di Pianello, attese all'educazione delle orfanelle con squisitezza materna e guidava la formazione delle postulanti e delle prime novizie. Il b. Luigi Guanella si dedicò alla trasformazione della Pia Unione delle Orsoline in una congregazione col titolo di Figlie di S. Maria della Provvidenza. Si dedicava anche alla formazione delle suore e fu direttore spirituale di suor Chiara, guidandola sulle vie della contemplazione più alta, specialmente della passione di Cristo, e impegnandola nel servizio della carità verso i più bisognosi. Il beato Luigi Guanella, su invito di don Lorenzo Guanella, suo fratello e prevosto ad Ardenno (Sondrio), avviò in quella parrocchia un'opera nella quale si alternarono suor Marcellina e suor Chiara, con un'altra suora. Fu un'esperienza che preparò suor Chiara al passaggio dell'istituzione da Pianello a Como (1886). Suor Chiara divenne subito il centro propulsore e amorevole di quella casa: delle suore, delle postulanti, delle ospiti, delle anziane bisognose, delle ragazze operaie in città. Nell'autunno 1886 si ammalò di etisia polmonare. Sperando che l'aria nativa le potesse giovare, fu trasportata a Pianello, dove morì il 20 aprile 1887. Lo stesso beato Guanella promosse l'apertura della causa di beatificazione di suor Chiara. Il processo informativo fu aperto a Como nel 1912; fu beatificata il 21 aprile 1991 da papa Giovanni Paolo II. Il suo corpo è venerato nel Santuario del S. Cuore in Como, accanto a quello del Beato Luigi Guanella.
Preghiera
Signore Dio nostro, che hai fatto della Beata Chiara Bosatta, una viva immagine del Tuo Figlio Gesù, adoratore del Padre e umile Servo degli uomini, ti preghiamo di poter anche noi seguire il suo esempio e di ottenere per sua intercessione la grazia.... che con fiducia ti chiediamo. Per Cristo nostro Signore, Amen Beata Chiara, intercedi per noi |
21 Aprile 2024 |
22 Aprile 2024 |
23 Aprile 2024-: Chiara Maria Bruno, Testimone (1991-2016)-: Chiara Maria Bruno, Testimone (1991-2016)23 Aprile 2024 - Chiara Maria Bruno Il cammino di Chiara Maria: dall’ospedale al Paradiso Chiara Maria Bruno una ragazza solare, con tanta voglia di vivere e piena di interessi: lo studio, la pallavolo, la sua comunità parrocchiale. Era sempre circondata da tanti amici; amava la vita e la malattia non l’ha cambiata. Nel 2010, all’età di 19 anni, appaiono sul suo corpo le prime macchie cutanee. Passano cinque lunghi anni di visite mediche, controlli ed esami clinici in cui queste manifestazioni cutanee venivano trattate, all’inizio, come fossero causate da stress e poi come forme allergiche. Nel luglio del 2015 la diagnosi: linfoma di Hodgkin di tipo T cutaneo, una rara malattia che colpisce, soprattutto, uomini adulti. Col progredire della malattia le macchie si trasformano in vere proprie lesioni cutanee che le provocano molto dolore. Dopo un primo momento di sgomento, Chiara non si diede per vinta e affrontò tutto con coraggio e determinazione; seguita da medici onco-ematologi, seguì un percorso di cura che partì da terapie più lievi fino ad arrivare alla chemioterapia. Tanti cicli che non le impedirono di continuare a studiare all’Università nella Facoltà di Chimica e Tecnologia farmaceutica, a frequentare con assiduità la sua “comunità”, senza mai dimenticare ed aiutare chi era in difficoltà. In un primo momento sembrò che le cure avessero effetto, anche se, Chiara, era perfettamente cosciente della gravità della malattia, ma non si chiese, mai, il perché Dio le avesse dato questa sofferenza, entrando nella Sua volontà senza riserve. La sua bellezza non sfiorì mai, sul suo volto c’era sempre il sorriso, anche quando perse tutti i suoi meravigliosi capelli. Si accese la speranza di un trapianto di midollo osseo, avendo la sorella una compatibilità completa con il suo, ma solo con la remissione completa della sua malattia. Chiara Maria voleva formare una famiglia con il sua amato fidanzato Stefano e quando seppe che il trapianto l’avrebbe resa sterile, con l’aiuto dei medici, conservò quella che sarebbe stata la fonte di vita. La situazione precipita il 5 marzo 2016, una crisi comiziale la portò in ospedale dove le venne comunicato che il tumore era arrivato al cervello e i giorni che seguirono, il Policlinico di Tor Vergata, il reparto di Ematologia Oncologica, diventò la strada della Passione che conduce a Gesù. I giorni che seguirono furono terribili ma nello stesso tempo, quel reparto, o meglio la piccola sala d’aspetto di quel reparto, divenne il centro del mondo dove la Shekhinah di Dio scese su tutti coloro che erano attirati irrimediabilmente lì. Nei corridoi, nella Cappellina, nel cortile dell’ospedale non si fermava la preghiera incessante che tutti insieme rivolgevamo a Dio. Persone conosciute per caso, amici, fratelli di comunità, parenti, tutti arrivavano lì per dare conforto, ma ne ricevevano molto di più senza, nemmeno, poterla incontrare. Chiara da quel letto di ospedale era diventata una luce che illuminava tutti si è compiuta la parola: “quando sarò innalzato, attirerò tutti a me”. Stefano, il suo fidanzato, era guidato dalla Grazia, le portava conforto con il sorriso e la forza. Una Grazia, che gli ha permesso di starle accanto fino alla fine e fino al punto di volerla sposare. Chiara voleva ricevere l’Eucarestia ogni giorno. Era un grande sostegno per lei. Il sacerdote passava per darle la Comunione, anche se, delle volte, poteva deglutire solo una piccola parte dell’ostia ma il suo sguardo era colmo di gratitudine e felicità! Era vicina la Pasqua 2016 ed il presbitero della sua comunità le chiese di scrivere delle riflessioni sulle letture della Veglia Pasquale, alla quale lei, quell’anno, non avrebbe potuto partecipare, anche se lo desiderava ardentemente. Queste riflessioni, ora, sono raccolte in un libro che un suo amico volle scrivere immediatamente dopo la sua morte, per testimoniare gli avvenimenti di quei giorni, in cui Morte e Vita si sono congiunti in maniera straordinaria. Chiara Maria muore il 23 aprile 2016 all’età di 25 anni. Chiara Maria scrive in un diario: “Quando ti ammali di una malattia seria, è invitabile che il pensiero vada anche alla morte. Una delle mie più grandi paure, non è tanto quella di morire, ma è quella di morire lontana da Cristo”. “perchè perdiamo tanto tempo dietro a cose che non ci danno la vita, anzi, forse ce la tolgono anche, e non ci rendiamo conto delle cose che contano davvero e non capiamo che Dio ci ama per quello che siamo” “perciò prego Dio che mi doni la costanza nella preghiera quotidiana, che mi doni la fede ogni giorno, e che mi doni la forza di combattere la malattia sempre rispettando la Sua volontà”. E’ questa la straordinaria testimonianza che ci ha lasciati Chiara Maria, che è morta dicendo che avrebbe fatto la volontà di Dio, qualunque essa fosse: “Quello che vuole Dio, io lo faccio”. Così facendo – sostenendo dal letto del suo dolore i parenti e gli amici con quella grazia che le è stata donata dal Cielo – ci ha dimostrato in maniera tangibile che è possibile stare sulla croce e non bestemmiare Dio. E’ stato possibile a lei assieme alla sua comunità ed è possibile – se Dio ce lo chiederà e ci darà la forza – anche a noi.
Pensieri
“Sono riuscita – scrive Chiara a padre Domìnik – a mettermi a scrutare e a riflettere su queste splendide letture della Veglia di Pasqua, alla quale non potrò partecipare! […] I pensieri su ciò che ho letto e scrutato mi stanno accompagnando tanto in questi giorni un po’ difficili. […] Prega per me!! Buona Santa Pasqua!!!!!” (p. 99). Commentando la lettera ai Romani, Chiara Maria scrive: “Una delle mie più grandi paure, non è tanto quella di morire, ma è quella di morire lontana da Cristo”.
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24 Aprile 2024-: San Benedetto Menni (1841-1914)-: San Benedetto Menni (1841-1914)24 Aprile 2024 - San Benedetto Menni L'11 marzo del 1841 Angelo Ercole Menni nacque a Milano dal matrimonio di Luigi e Luisa Figini. Quinto di 15 fratelli, Il padre gestiva un modesto negozio, e grazie alle entrate di quest'attività la famiglia aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti. A 17 anni dopo un breve periodo di lavoro in banca, matura la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità. Diventa barelliere per trasportare i feriti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali, dozzine di corpi straziati di combattenti, sono trasportati dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli. La conoscenza dei Fatebenefratelli è decisiva nella sua vita, arriva, infatti, il momento di chiedere l'ingresso al noviziato. Il 1° maggio 1860 entra nel noviziato dell'ospedale di Santa Maria d’Araceli a Milano, qualche giorno dopo riceve l'abito e cambia il suo nome in Benedetto, dopo un anno emette i voti semplici e dopo tre emette la professione solenne. Frequenta gli studi filosofici e teologici prima nel Seminario di Lodi e poi nel Collegio Romano (Pontificia Università Gregoriana di Roma), è ordinato sacerdote nel 1866. Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un'impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l'Ordine dei Fatebenefratelli. Il 14 gennaio 1867 il giovane frate a 26 anni è ricevuto in udienza dal Papa Pio IX, che lo invia in Spagna per la restaurazione dell'Ordine dei Fatebenefratelli. Partì due giorni dopo. All'inizio non fu certo facile, oltre alla difficile situazione politica, in Spagna erano stati soppressi tutti gli ordini religiosi, Benedetto trovò degli ostacoli anche all'interno della chiesa, primo fra tutti il vescovo di Barcellona, ma non si scoraggiò ed iniziò la sua attività cercando risorse per costruire un ospedale pediatrico, che dopo qualche mese fu benedetto proprio dal vescovo che lo aveva ostacolato. Benedetto continuò la sua opera non senza rischi per la propria vita, fu espulso più volte dalla Spagna, ma puntualmente vi faceva ritorno da clandestino, una volta rientrando da Gibilterra dopo essere stato anche in Marocco. Fu infaticabile infermiere insieme ai suoi confratelli durante la guerra civile. Benedetto Menni fu nominato Provinciale della provincia della Spagna e rimase in carica per ben 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l'Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui: quattro ospedali ortopedici per bambini; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri. Alla restaurazione dell'Ordine in Spagna seguì anche, alla fine del secolo XIX la restaurazione dello stesso Ordine in Portogallo e, all'inizio del XX secolo, in Messico. Il 31 maggio del 1881 fondò la Congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, Istituto Religioso femminile specializzato nell'assistenza psichiatrica. Nel 1905 partecipa a Roma, ad un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, è richiamato dalla Santa Sede che lo nomina Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): iniziano viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X nel 1911 lo nomina Generale dell’Ordine. Accusato e accerchiato, all’interno dell’Ordine, da un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo poco più di un anno dalla nomina: era il 20 giugno 1912. Era a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si trasferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia, dove muore la mattina del 24 aprile 1914. I suoi resti riposano nella Casa Madre di Ciempozuelos.
Omelia di Giovanni Paolo II per la canonizzazione
"Vieni, benedetto da mio Padre; eredita il Regno preparato per te dalla creazione del mondo, ... perché ero malato e mi hai visitato" (Mt 25, 34.36). Queste parole del Vangelo proclamate oggi saranno senza dubbio familiari a Benito Menni, sacerdote dell'Ordine di San Giovanni di Dio. La sua dedizione ai malati, vissuta secondo il carisma dell'ospedale, ha guidato la sua esistenza. La sua spiritualità nasce dalla sua esperienza dell'amore che Dio ha per lui. Il grande devoto del Cuore di Gesù, re del cielo e della terra, e della Vergine Maria, trova in loro la forza della sua dedica caritatevole agli altri, specialmente a coloro che soffrono: gli anziani, i bambini scrofolosi e polio e i malati di mente. Il suo servizio all'Ordine e alla società ha svolto con umiltà l'ospitalità, con un'integrità impeccabile che lo rende un modello per molti. Promosse varie iniziative guidando alcune giovani donne che avrebbero formato il primo nucleo del nuovo istituto religioso, fondando a Ciempozuelos (Madrid) le Suore dell'Ospedale del Sacro Cuore di Gesù. Il suo spirito di preghiera lo ha portato ad approfondire il mistero pasquale di Cristo, una fonte di comprensione della sofferenza umana e un percorso verso la risurrezione. In questo giorno di Cristo Re, San Benedetto Menni illumina con l'esempio della sua vita coloro che vogliono seguire le orme del Maestro lungo i sentieri dell'accoglienza e dell'ospitalità.
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25 Aprile 2024-: Suore Poverelle, Serve di Dio (Nascita al cielo 1995)-: Suore Poverelle, Serve di Dio (Nascita al cielo 1995)25 Aprile 2024 - Sei “Poverelle” uccise dal virus Ebola A ridosso della Pasqua del 1995, tutti gli operatori sanitari, che nell’Ospedale generale di Kikwit avevano partecipato ad un intervento chirurgico su di un malato grave, morirono entro due settimane. Anche le Suore delle Poverelle ebbero una prima vittima: Suor Floralba Rondi, morta il 25 aprile. Era una delle prime cinque Suore inviate in Congo. Il 6 maggio successivo morì un’altra Religiosa, Suor Clarangela Ghilardi. Si trovava a Kikwit dal 1993, ma aveva iniziato la sua esperienza missionaria lì, nel 1959, rimanendovi per circa 11 anni; in seguito era stata a Tumikia e a Mosango. Due giorni dopo la sua morte arrivò la diagnosi definitiva: entrambe le Suore, ma anche gli altri medici e infermieri, erano morti a causa del virus Ebola. Era quindi in atto una vera e propria epidemia. Nel primo pomeriggio dell’11 maggio morì Suor Danielangela Sorti: aveva vegliato Suor Floralba sostituendosi a Suor Costanzina Franceschina, una consorella anziana anziana che pure era disponibile a partire da Tumikia verso Mosango. Contrasse il virus tagliandosi con una fialetta, mentre praticava un’iniezione alla consorella malata; in più, aveva lavato ininterrottamente le bende inzuppate di sangue a motivo delle continue emorragie, per risparmiare alle consorelle il lavoro nel giorno successivo. Anche Suor Dinarosa Belleri, forte dell’esperienza maturata in trent’anni di missione, fedele al carisma del Fondatore, scelse di dedicarsi totalmente ai malati in quell’epidemia. Ebbe i primi sintomi del contagio all’inizio del mese di maggio e morì il 14, tre giorni dopo Suor Danielangela. Suor Annelvira Ossoli, Superiora provinciale residente in Kinshasa, aveva affrontato un viaggio di oltre 500 chilometri pur di giungere a Kikwit e stare accanto a Suor Floralba. Con la stessa sollecitudine fu vicina alle altre consorelle, con dedizione continua e coraggiosa, finché non fu contagiata anche lei. La sua morte avvenne il 23 maggio, il giorno successivo alla memoria liturgica del loro Fondatore, il Beato Luigi Palazzolo, celebrata ogni anno il 22 maggio. L’ultima a morire, il 28 maggio, fu Suor Vitarosa Zorza: convinta che fosse solo una “diarrea rossa”, aveva riempito due valigie di medicinali, lasciato la missione di Kingasani cantando, per rispondere “sì” al Signore che la chiamava a Kikwit, e raggiungere ad ogni costo Suor Annelvira, collaborando nell’assistenza alle consorelle e ai contagiati.
Messaggi sconcertanti di morte e di speranza In quei dolorosi e terribili 33 giorni le Suore cercavano di far arrivare in Italia dallo Zaire le notizie su quanto accadeva. Da Kikwit a Kinshasa, l’unico mezzo di comunicazione era la “phonie”, una sorta di ricetrasmittente. I messaggi venivano poi trascritti a Kinshasa e inviati, via telefax, a Bergamo, in Casa Madre. Madre Gesuelda Paltenghi, in quel periodo Superiora generale della Congregazione, seguiva con apprensione quanto le consorelle comunicavano. Alle 10.20 del 25 aprile 1995 così riferirono circa la morte di Suor Floralba: «Restiamo unite nella sofferenza, nella preghiera e nell’offerta. Suor Floralba ci ha lasciate per il cielo proprio in questo momento. Il Padre, la Madonna e il Palazzolo l’avranno già abbracciata. Ci proteggerà dal cielo». Mentre l’epidemia avanzava e, alla distanza di pochi giorni tra loro, entro il 28 maggio seguiva incalzante la morte di altre cinque Sorelle, dai messaggi via fax traspariva sempre più frequente la richiesta di un miracolo al Fondatore, anche per ottenere la sua canonizzazione. Quella pur legittima richiesta, alla fine si trasformò in un’accettazione piena, anche se sofferta, della morte delle sei Sorelle. Quando morì Suor Vitarosa, le Sorelle dallo Zaire comunicavano: «“Tutto è compiuto!”. Il Signore si è portato con Sé nella gloria dei beati anche Suor Rosa, alle ore 2 di stanotte... Il mistero è grande, ci avvolge, e in uno sforzo supremo diciamo: “Padre, nelle tue mani mettiamo le loro e le nostre vite. Abbi pietà di noi”».
Le sei Cause per la beatificazione La vicenda delle sei Suore circolò immediatamente tramite la stampa e la televisione e, col passare del tempo, non fu dimenticata né dentro né fuori l’Istituto. La Congregazione delle “Poverelle”, dopo ponderata riflessione, chiese l’avvio della Causa di beatificazione per le sei Suore al Vescovo di Kikwit. Questi, ottenuto nel 2013 il Nulla osta da parte della Santa Sede, aprì le singole Inchieste per l’accertamento delle virtù eroiche delle sei Suore che avevano generosamente dato la vita durante l’epidemia di Ebola. L’apertura delle Inchieste diocesane è avvenuta nella Cattedrale di Kikwit domenica 28 aprile 2013; l’8 giugno 2013 sono seguite le rispettive Inchieste rogatoriali nella Diocesi di Bergamo, dove le Suore avevano vissuto parte della loro vita, concludendosi entro il gennaio 2014. La chiusura delle Inchieste diocesane è avvenuta a Kikwit il 23 febbraio 2014. Le Cause proseguono ora nella fase romana.
Le schede biografiche di ciascuna Suora
Suor Floralba (Rosina) Rondi † Mosango, Repubblica Democratica del Congo, 25 aprile 1995 Suor Clarangela (Alessandra) Ghilardi † Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 6 maggio 1995 Suor Danielangela (Anna) Sorti † Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 11 maggio 1995 Suor Dinarosa (Teresina) Belleri † Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 14 maggio 1995 Suor Annelvira (Celeste) Ossoli † Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 23 maggio 1995 Suor Vitarosa (Maria Rosa) Zorza † Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 28 maggio 1995
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26 Aprile 2024 | 27 Aprile 2024 | 28 Aprile 2024 |
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30 Aprile 2024-: San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)-: San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)30 Aprile 2024 - San Giuseppe Cottolengo Giuseppe Benedetto nasce a Bra nel 1886 e fatica a realizzare la sua vocazione per tutte le limitazioni che Napoleone impone in quegli anni ai seminari e agli istituti religiosi, ma fa in tempo ad essere ordinato prete alla soglia dei suoi 25 anni. Lo mandano viceparroco a Corneliano d’Alba e qui stupisce tutti perché prega, lavora, veglia i malati di notte, si dedica ai poveri con una generosità tale che ci rimette di salute e mamma è talmente preoccupata da convincerlo e riprendere gli studi ed a pensare un po’ di più a se stesso. Don Giuseppe ubbidisce fin troppo: torna a Torino, riprende i libri in mano, si laurea in teologia e diventa un canonico dotto, stimato e ricercato da molta gente come predicatore e confessore. Non si dimentica dei poveri, svolge addirittura una qualche attività sociale a favore dei più bisognosi, ma fondamentalmente resta un prete ben “sistemato”, con una bella camera, uno stipendio più che buono e la prospettiva di una carriera brillante. Tutto questo però gli lascia l’amaro in bocca, reso inquieto, incerto, talvolta scostante e burbero, spesso anche triste e taciturno: un prete insoddisfatto, insomma, che è quanto di meno ci si possa augurare, soprattutto se si considera che ad andare in crisi esistenziale non è un seminarista o un giovane prete, bensì un uomo di 42 anni. Che ha sì, come egli stesso scrive a mamma, «la faccia rotonda qual luna piena», il che sarebbe indice di buona salute, ma l’animo cupo di chi si accorge di non aver ancora fatto nulla di buono nella vita, tanto che il superiore gli ordina di leggere la vita di San Vincenzo de’ Paoli perché almeno abbia un argomento su cui discutere con i confratelli a tavola. La svolta (o «la grazia della Madonna», come la chiama lui) arriva il 2 settembre 1827, quando la misericordia irrompe nella sua vita in modo tragico e imprevedibile. In quella notte accorre, chiamato per gli ultimi sacramenti, accanto al pagliericcio di un dormitorio pubblico, su cui agonizza Giovanna Gonnet, una giovane francese, mamma di tre figli e in avanzato stato di gravidanza, non ricoverata negli ospedali torinesi perché incinta, rifiutata dal reparto di maternità perché tubercolotica. La vicenda si chiude nel modo più tragico, con una bimba nata prematura che vive poche ore appena, seguita subito nella tomba dalla mamma, uccisa dalla tubercolosi. Impietrito e sconvolto, domandandosi perché proprio a lui sia toccato essere testimone di una simile tragedia, improvvisamente si accorge che la misericordia ha fatto irruzione nella sua vita, sconvolgendola e rivoluzionandola in pieno. Per questo accende tutte le candele dell’altare, fa suonare le campane e intona le litanie lauretane: da quel giorno non sarà più il prete che fa anche «qualcosa per i poveri», perché la Madonna gli ha fatto la grazia di trasformarlo nel «prete dei poveri», che saranno i suoi veri «signori e padroni». D’ora in poi, tutta l’attività del Canonico, repentinamente convertito alla causa dei poveri, si svolge all’insegna del paolino «Caritas Christi urget nos!», motto che ci siamo abituati a veder inciso a caratteri cubitali, anche dalle nostre parti, ovunque sono state chiamate ad operare le suore del Cottolengo, quasi a esplicitare, se mai ce ne fosse bisogno, la forza motrice, che da quel momento letteralmente lo spinge. Talmente “spinto” da non poter perdere tempo: il 17 gennaio 1828, cioè appena pochi mesi dopo lo sconvolgente dramma vissuto il precedente 2 settembre, già prende in affitto alcune stanze nella casa detta della “Volta Rossa”, al civico 19 di Via Palazzo di Città, in pieno centro urbano, per farne il “Deposito de’ poveri infermi del Corpus Domini”. È costretto a vendere tutto, anche il mantello, per far fronte alle prime spese per i ricoverati, che non si fanno attendere, visto che in quella stessa giornata le porte già si aprono per accogliere i primi due, Giuseppe Dana e Margherita Andrà; di lei si sa che è completamente paralitica e senza parenti, abbandonata a se stessa. Fin dal primo giorno si delineano così le caratteristiche della nuova istituzione, nata per rispondere alle esigenze di chi non ha veramente nulla, neppure i parenti, e che nessuno vuole ricoverare, in quanto incurabile. Perché a Torino non mancherebbero le istituzioni di assistenza e beneficenza; sono piuttosto le rigidissime regole interne ad impedire di fatto che ne usufruiscano i più bisognosi, il più delle volte ad esclusivo carico di famiglie magari già ridotte in stato di indigenza o, peggio ancora, completamente abbandonati a se stessi. Ed è principalmente di questi che vuole farsi carico il Cottolengo, e con un tale ardore e così tanta abnegazione da incontrare fin da subito l’opposizione ed i contrasti dei parenti e dei confratelli, con l’unica eccezione del suo diretto superiore, che gli fa da sponda, raccomandando a tutti di «lasciarlo fare». A dar sollievo a chi lamenta che quella strada e quella casa sono ormai diventati ricettacolo di ogni umana miseria, arriva il colera, con la chiusura dell’ospedaletto per paura del contagio. Non conoscerebbe a fondo il Cottolengo chi pensasse che possa bastare un’epidemia per farlo desistere; da buon braidese esperto di orticoltura, sa benissimo che «i cavoli trapiantati riescono meglio» e con questa speranza in cuore, ad aprile 1832, “trapianta” la sua neonata creatura in zona Valdocco, Borgo Dora: non più semplice “ospedaletto” di emergenza sanitaria, ma vera e propria “Casa”, intitolata a chi di quella struttura è la vera unica proprietaria, cioè la Divina Provvidenza. Per non far torto alla quale non vuole saperne di contabilità o di rendiconti, profondamente convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede”. Lo sperimenta tutti i giorni, toccando con mano fin dove sa arrivare il buon Dio, con un‘eleganza ed una tempestività che ha dello strepitoso e che in pratica equivale al sigillo celeste sull’intera istituzione. In base alle esigenze che di volta in volta gli si appalesano, nascono numerosi gruppi che denomina “famiglie”: l’ospedale per i malati, la casa per uomini e donne anziani, le famiglie dei sordomuti, degli epilettici, dei disabili psichici detti “Buoni Figli” e “Buone Figlie”, dove l’aggettivo “buono” sembra aggiunto apposta per esplicitare la tenerezza di Dio nei confronti dei più poveri tra i poveri e che il Cottolengo si sforza di tradurre in gesti concreti di carità. Fior fior di medici e farmacisti, tra cui anche il farmacista regio, si alternano a volontari, professionisti, muratori e benefattori che mettono a servizio della Provvidenza e dei poveri le proprie capacità e il proprio tempo. Fioriscono come dal nulla le Suore Vincenzine, poi le Suore della Divina Pastora, a seguire le Carmelitane Scalze, le Suore del Suffragio e le Suore Penitenti; sul versante maschile, i Fratelli di San Vincenzo e i Sacerdoti della SS. Trinità. Non male per un prete che, appena qualche anno prima, tirava stancamente la sua vocazione, senza slancio e senza entusiasmo. Il “manovale della Provvidenza” muore a Chieri il 30 aprile 1842, a 56 anni, più di 40 dei quali vissuti nel più assoluto anonimato e solo gli ultimi 14 all’insegna della misericordia, che lo aveva tuttavia spinto a scelte concrete e a volte scomode per i poveri, come ad esempio quella di far fare anticamera al vescovo di Vercelli per terminare una partita di bocce con un ricoverato: perché l’amore e la tenerezza sanno dare anche queste precedenze.
Pensiero
Se noi siamo rassegnati solo quando Iddio ci manda consolazioni e piaceri, credete pure, ci facciam pochi meriti, e non ci faremo mai santi: è necessario che ci mandi tribolazioni per provargli che siamo veramente figli della Divina Provvidenza; quantunque non avessimo di che nutrirci, di che vestirci, non dovremmo mai far questo torto al Signore con diffidare di lui, o mostrarcene tristi e malinconici. Via, siamo sempre allegri in Domino, egli pensa a noi più di quanto noi pensiamo a lui; e fa tutte le cose infinitamente meglio di quanto possiamo pensarle noi. |
1 Maggio 2024-: San Pellegrino Laziosi (1265-1345)-: San Pellegrino Laziosi (1265-1345)1 Maggio 2024 - San Pellegrino Laziosi Pellegrino nacque a Forlì intorno al 1265, dalla nobile famiglia dei Laziosi. C’è un episodio controverso dei vari agiografi, ed è quello in cui Forlì si trovò avvolta in tumulti popolari, avvenuti per l’interdetto ricevuto da papa Martino IV Il Priore Generale dei Servi di Maria, s. Filippo Benizi, che trovavasi in visita al convento di Forlì, fu percosso e scacciato dalla città, perché esortava i forlivesi a ritornare sotto l’ubbidienza al Pontefice, tra i ribelli c’era pure Pellegrino diciottenne. Nei vari racconti e citazioni susseguitesi nei secoli si narra che s. Filippo fu percosso con uno schiaffo da Pellegrino. Sui 30 anni (tra il 1290 e il 1295) entrò nell’Ordine dei Servi di Maria, ma non come sacerdote, per come sia avvenuta questa conversione non ci sono notizie certe, sembra che lo stesso s. Filippo gli abbia concesso l’abito. Contrariamente a quanto prescrivevano le regole antiche il noviziato fu fatto a Siena e non a Forlì. Trascorso il noviziato, dopo i 30 anni fu rimandato alla città natale dove rimase fino alla morte. Si distinse nell’osservanza della Regola e si dice che si prestava ad atti di profonda penitenza fra i quali prediligeva quello di stare in piedi senza sedersi, esercizio penitenziale che mantenne per trent’anni. Ma giunto sui sessant’anni, quella penitenza gli procurò una piaga alla gamba destra, causata da vene varicose. La malattia raggiunse un grado di gravità tale che i medici dell’epoca ritennero necessaria l’amputazione della gamba. Durante la notte precedente all’operazione, Pellegrino si alzò e a stenti raggiunse la sala capitolare e davanti all’immagine del crocefisso, pregò con fervore per ottenere la guarigione. Assopitasi sugli scanni, in sogno vide Gesù che sceso dalla Croce lo liberava dal male. Quindi risvegliatosi se ne tornò in cella, dove il mattino seguente il medico venuto per l’amputazione poté constatare l’avvenuta e totale guarigione. Il suo culto si è esteso in Italia e nel mondo al seguito dell’espandersi dell’Ordine dei Servi. Il 15 aprile 1609 papa Paolo V autorizzava con il titolo di beato un culto che da tempo immemorabile gli era già tributato e il 27 dicembre 1726 veniva proclamato santo da papa Benedetto XIII. È compatrono della città di Forlì, invocato come protettore contro le malattie cancerogene. È quasi sempre raffigurato sorretto dagli angeli, mentre Gesù scende dalla Croce per guarirlo.
-: San Riccardo Pampuri (1897-1930)-: San Riccardo Pampuri (1897-1930)1 Maggio 2024 - San Riccardo Pampuri Erminio Filippo Pampuri nasce il 2 agosto 1897 a Trivolzio (Pavia) da Innocenzo e Angela Campari. Decimo di undici figli, diventa orfano di madre a tre anni, per cui viene accolto dagli zii materni a Torrino, frazione di Trivolzio. Nel 1907 gli muore a Milano il padre. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di medicina nell'Università di Pavia, dove partecipa al Circolo Cattolico Severino Boezio e si laurea con il massimo dei voti il 6 luglio 1921. A 24 anni è medico “condotto” di Morimondo (Milano). Spesso non accetta nulla come onorario, anzi, porta ancora lui i medicinali e il denaro necessario alle famiglie più povere. Al mattino, dopo la Messa, fa ambulatorio in casa, poi riprende le visite. Porta con sé la corona del Rosario e prega la Madonna di sostenerlo e di illuminarlo. Erminio è tra i militari del servizio sanitario. Fin dalla chiamata alle armi, si prodiga con dedizione tra i soldati e feriti al fronte, rischiando sovente la pelle. Si racconta infatti che, conducendo un carro tirato da una coppia di buoi, per ventiquattro ore sotto la pioggia battente, pone in salvo il materiale sanitario precipitosamente abbandonato. Appena congedato, al termine della guerra, riprende gli studi di medicina e per l’impresa compiuta, viene decorato con medaglia di bronzo. Il 21 ottobre 1927 entra a Brescia nel noviziato dei Fatebenefratelli e vi emette la professione religiosa il 24 ottobre 1928: riceve l’umile saio di “fratello” e prende il nome di fra’ Riccardo. Gli viene affidato il gabinetto dentistico. Purtroppo nella primavera del 1929 la salute del “dottorino” peggiora per la tubercolosi. Il 18 aprile 1930 è trasferito nell'Ospedale del Fatebenefratelli di Milano, dove muore il 1 maggio, a soli 33 anni. Proclamato beato da Giovanni Paolo II il 4 ottobre 1981, è canonizzato il 1 novembre 1989. Nelle diocesi di Brescia e di Pavia la sua memoria si celebra il 16 maggio. Dall’Omelia per l’inizio dell’Anno Giubilare San Riccardo Pampuri pronunciata da S. Ecc. Mons. Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia (1 maggio 2019) «[…] San Riccardo: svolgendo con passione e attenzione la sua professione medica, non si è limitato a curare e guarire i suoi malati, o a dare qualche aiuto e sostegno per le situazioni di maggiore povertà, ma ha agito «nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno», ha reso presente con il suo modo di essere e di stare accanto alle persone la tenerezza e la forza di Gesù il Nazareno, colui che «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38), il vero buon Samaritano che si muove a compassione davanti all’uomo quasi senza vita, non passa oltre sulla strada, si china sull’umanità ferita e dolorante, si prende cura di noi, versando sulle piaghe dell’esistenza «l’olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio comune VIII, Gesù buon samaritano). Tanto che chi veniva a contatto con San Riccardo, chi incrociava la sua figura e la sua umanità vibrante e discreta, era provocato, quasi “costretto” a pensare a Gesù, ad accorgersi della verità e della realtà presente del Signore, nel volto e nell’esistenza di quest’uomo buono, saggio, lieto. La testimonianza del dottorino di Morimondo, divenuto poi fra Riccardo, è per tutti noi un dono da riscoprire, da custodire».
Preghiera Signore Gesù, che vi compiaceste di esaltare gli umili, di rivelarvi ai puri e di darvi in premio ai misericordiosi, concedetemi la grazia... che fiducioso vi chiedo per intercessione di San Riccardo Pampuri, esempio luminoso di umiltà, di purezza e di misericordia, a vostra maggior gloria e a salute dell’anima mia.
Preghiera per un ammalato San Riccardo, medico dei corpi e delle anime, prega per noi il Signore Gesù affinché questo nostro fratello ..... ammalato possa, riacquistare il vigore del corpo ed ottenere serenità dello spirito, pazienza nel dolore e, dopo una felice convalescenza, ritornare insieme con tutti noi a lodare il nome del Signore.
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2 Maggio 2024 | 3 Maggio 2024 |
4 Maggio 2024-: Beato Luc, Monaco (1914-1996)-: Beato Luc, Monaco (1914-1996)4 Maggio 2024 - Beato Luc, Monaco Paul Dochier nacque a Bourg-de-Péage, nella regione francese della Drôme, il 31 gennaio 1914. A diciassette anni perse il fratello maggiore, André, malato di tubercolosi. Fu probabilmente questo a condurlo alla scelta di diventare medico. Iniziò la pratica ospedaliera nel 1934 e, quattro anni dopo, l’internato presso la facoltà di Medicina nell’università di Lione. Grazie a un collega, cominciò a frequentare l’abbazia trappista di Aiguebelle. Nel 1937, durante un soggiorno in quel luogo, si sentì profondamente sconvolto nel suo intimo: da allora, cominciò ad alternare le proprie giornate tra l’ospedale e l’abbazia. L’abate gli chiese di terminare gli studi, prima di entrare definitivamente. A confermarlo nella vocazione fu l’incontro con Marthe Robin (Venerabile dal 2014). Concluse l’università, ma poté discutere la tesi solo nel 1940, perché intanto aveva iniziato il servizio militare. Fu inviato inizialmente a Casablanca, ma chiese di essere trasferito a Goulimine, un importante centro carovaniero nel sud del Marocco. Rimase lì per due anni, anche dopo aver ottenuto la licenza di esercitare la medicina, tanto era rimasto colpito dalla povertà delle popolazioni del luogo. Poco dopo la morte della madre, il 7 dicembre 1941, Paul entrò nell’abbazia di Aiguebelle. Scelse volutamente di essere fratello converso, ossia lo stato di vita monastica che poteva permettergli un servizio più umile. In onore di san Luca, l’evangelista che la tradizione vuole fosse anche medico, assunse il nome di fratel Luc. Cominciò quindi il suo cammino ordinario, tra la lavanderia e la cucina dell’abbazia. Non molto tempo dopo, però, venne a sapere che un suo ex collega, padre di quattro figli, era prigioniero di guerra a Wupperthal, nell’Alta Renania tedesca. Nell’aprile 1943, quindi, partì per sostituirlo. Lo scambio fu accettato: da allora, fratel Luc cominciò a curare i feriti del campo di prigionia, specie quelli di nazionalità russa, i più abbandonati di tutti. Tornò ad Aiguebelle solo dopo la fine della guerra, nel 1945. Emise la professione semplice l’anno dopo, nella festa dell’Assunzione. Quindi partì per il monastero di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine, in Algeria, insieme ad altri cinque monaci. Il 15 agosto 1949 professò i voti perpetui, primo tra i fratelli conversi. Sin dal suo arrivo, fratel Luc fu incaricato del dispensario collegato al monastero. Quando iniziò la guerra per l’indipendenza dell’Algeria, ebbe il permesso di curare i malati sia nel dispensario, sia a domicilio, dato che le comunicazioni con la città erano diventate difficili per la gente di montagna. Il suo servizio gli valse il rispetto di tutti gli abitanti, che, secondo le categorie di pensiero musulmane, lo consideravano un uomo di Dio. Di fatto, anche in mezzo alle visite e alle incombenze, restava in atteggiamento orante. Nel luglio 1959, nel pieno della guerra, fratel Luc e un altro monaco furono rapiti dai nazionalisti armati. Vennero rilasciati dopo dieci giorni, solo perché uno dei rapitori riconobbe il primo come il medico che aveva curato alcuni suoi vicini. Fratel Luc ne uscì gravemente compromesso in salute. Venne quindi mandato in Francia per un periodo di riposo, nel monastero di Nostra Signora delle Nevi nell’Ardèche, proprio mentre la comunità di Tibhirine rischiava la chiusura. Nella nuova destinazione fu aperto un ambulatorio apposta per lui, ma desiderava ugualmente tornare in Algeria. L’appello venne accolto: nel 1965 fratel Luc poté rientrare a Tibhirine. Ricominciò i suoi compiti umili, a cominciare da quello di cuciniere-capo. Continuò anche a curare i malati, senza preoccuparsi di ciò che, apparentemente, li rendeva diversi da lui. Per loro mendicava sussidi e aiuti spirituali, curandosi poco di se stesso. La vita di preghiera dei monaci venne turbata quando le notizie di aggressioni e uccisioni cominciarono a moltiplicarsi. Il 14 dicembre 1993, a Tamesguida, vennero sgozzati dodici croati cristiani. I monaci li conoscevano perché venivano da loro a celebrare la Pasqua. L’accaduto seguiva di due settimane l’ultimatum lanciato dal Gruppo Islamico Armato (GIA), che aveva preso il potere: tutti gli stranieri dovevano lasciare l’Algeria, pena la morte. La notte del 24 dicembre 1993, alcuni uomini armati si presentarono alla porta del monastero e domandarono di vedere il superiore. Fratel Paul Favre-Mirille, che aveva aperto, andò a cercare padre Christian, il quale parlò col capo del gruppetto, Sayah Attiyah. Le condizioni da lui poste, ovvero che i monaci dessero loro dei soldi, che il loro medico, ovvero fratel Luc, venisse a curare i loro malati e che dessero anche delle medicine, non vennero accettate tutte dal priore, che comunque riferì che avrebbero potuto venire al dispensario del monastero. Fece poi notare all’uomo che stavano per celebrare la nascita del Principe della Pace, ovvero il Natale di Gesù. Gli armati si allontanarono, dopo aver chiesto una parola d’ordine e aver minacciato di tornare. I monaci erano salvi, ma non al sicuro. Si sentivano come presi tra due fuochi: da una parte quelli che chiamavano “fratelli della montagna”, ovvero gli islamisti, e i “fratelli della pianura”, ovvero i militari e le forze di sicurezza dell’esercito algerino. Fratel Luc non si sottrasse a curare i “fratelli della montagna” come gli era stato richiesto, gratuitamente come sempre. Anche lui, come gli altri confratelli, partecipò al lungo discernimento che si concluse con la scelta di restare, per non abbandonare il popolo algerino. Intensificò la propria preparazione alla morte, ma senza paura. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, fratel Luc venne rapito insieme a sei monaci. Dopo un mese, un comunicato del Gruppo Islamico Armato (GIA) riferì che i rapiti erano ancora vivi, ma conteneva la minaccia di sgozzarli se non fossero stati liberati alcuni terroristi detenuti. Un ulteriore comunicato, il numero 44, datato 21 maggio, riferì che ai monaci era stata tagliata la gola. Il 30 maggio le loro spoglie vennero ritrovate sul ciglio della strada per Médéa. Si trattava, però, solo delle teste: i corpi rimasero introvabili. Il 26 gennaio 2018 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto relativo al martirio dei religiosi. La memoria liturgica di tutto il gruppo cade l’8 maggio.
Pensieri «Col suo saper fare, il cuciniere contribuisce a mantenere un buon clima nella vita comune». «Io sono come un viaggiatore che, con le mani vuote, attende il treno sulla banchina»; così si definiva «Credo che, nel contesto di un monastero posto al centro di una popolazione talmente povera, il gesto di occuparsi di chi è malato, di chi ha fame, di chi è senza vestiti sia un gesto evangelico ed ecclesiale che si inscrive nella tradizione monastica». «Poiché è l’incontro con Dio, la morte non può essere oggetto di terrore. La morte è Dio» «Bisogna risolutamente, e probabilmente ancora a lungo, non indietreggiare davanti allo sforzo eroico di un amore perseverante, disinteressato e soprannaturale» “Che cosa ci potrà mai capitare? Di andare verso il Signore e di immergersi nella sua tenerezza. Dio è misericordioso, è Colui che perdona. Non c’è vero amore a Dio senza accogliere senza riserve la morte… la morte è Dio!”
Preghiera Signore, nostro Padre, noi ti lodiamo per la passione, la morte e la risurrezione di tuo Figlio Gesù, lui, il martire per eccellenza da cui viene la nostra salvezza. Tu hai voluto far condividere il suo martirio ai nostri fratelli e sorelle della Chiesa Algerina: Henri e Paul-Helene, Caridad e Esther, Jean, Charles, Alain e Christian, Angele-Marie e Bibiane, Odette, Christian Luc, Christophe, Michel, Bruno, Celestin e Paul, e al tuo vescovo Pierre. Noi ti preghiamo Padre, perché per loro intercessione, si rafforzi il dialogo, il rispetto e l’amore tra i tuoi figli cristiani e musulmani. Benedici l’Algeria e il suo popolo E noi ti renderemo grazie nella pace. Padre, noi invochiamo i nostri fratelli martiri per… (esprimere la grazia richiesta) E tu Maria, che tutti loro hanno amato e che sei venerata nell’Islam, ascolta la nostra preghiera e intercedi per noi presso tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen
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5 Maggio 2024 |