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29 Aprile 2024 |
30 Aprile 2024-: San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)-: San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)30 Aprile 2024 - San Giuseppe Cottolengo Giuseppe Benedetto nasce a Bra nel 1886 e fatica a realizzare la sua vocazione per tutte le limitazioni che Napoleone impone in quegli anni ai seminari e agli istituti religiosi, ma fa in tempo ad essere ordinato prete alla soglia dei suoi 25 anni. Lo mandano viceparroco a Corneliano d’Alba e qui stupisce tutti perché prega, lavora, veglia i malati di notte, si dedica ai poveri con una generosità tale che ci rimette di salute e mamma è talmente preoccupata da convincerlo e riprendere gli studi ed a pensare un po’ di più a se stesso. Don Giuseppe ubbidisce fin troppo: torna a Torino, riprende i libri in mano, si laurea in teologia e diventa un canonico dotto, stimato e ricercato da molta gente come predicatore e confessore. Non si dimentica dei poveri, svolge addirittura una qualche attività sociale a favore dei più bisognosi, ma fondamentalmente resta un prete ben “sistemato”, con una bella camera, uno stipendio più che buono e la prospettiva di una carriera brillante. Tutto questo però gli lascia l’amaro in bocca, reso inquieto, incerto, talvolta scostante e burbero, spesso anche triste e taciturno: un prete insoddisfatto, insomma, che è quanto di meno ci si possa augurare, soprattutto se si considera che ad andare in crisi esistenziale non è un seminarista o un giovane prete, bensì un uomo di 42 anni. Che ha sì, come egli stesso scrive a mamma, «la faccia rotonda qual luna piena», il che sarebbe indice di buona salute, ma l’animo cupo di chi si accorge di non aver ancora fatto nulla di buono nella vita, tanto che il superiore gli ordina di leggere la vita di San Vincenzo de’ Paoli perché almeno abbia un argomento su cui discutere con i confratelli a tavola. La svolta (o «la grazia della Madonna», come la chiama lui) arriva il 2 settembre 1827, quando la misericordia irrompe nella sua vita in modo tragico e imprevedibile. In quella notte accorre, chiamato per gli ultimi sacramenti, accanto al pagliericcio di un dormitorio pubblico, su cui agonizza Giovanna Gonnet, una giovane francese, mamma di tre figli e in avanzato stato di gravidanza, non ricoverata negli ospedali torinesi perché incinta, rifiutata dal reparto di maternità perché tubercolotica. La vicenda si chiude nel modo più tragico, con una bimba nata prematura che vive poche ore appena, seguita subito nella tomba dalla mamma, uccisa dalla tubercolosi. Impietrito e sconvolto, domandandosi perché proprio a lui sia toccato essere testimone di una simile tragedia, improvvisamente si accorge che la misericordia ha fatto irruzione nella sua vita, sconvolgendola e rivoluzionandola in pieno. Per questo accende tutte le candele dell’altare, fa suonare le campane e intona le litanie lauretane: da quel giorno non sarà più il prete che fa anche «qualcosa per i poveri», perché la Madonna gli ha fatto la grazia di trasformarlo nel «prete dei poveri», che saranno i suoi veri «signori e padroni». D’ora in poi, tutta l’attività del Canonico, repentinamente convertito alla causa dei poveri, si svolge all’insegna del paolino «Caritas Christi urget nos!», motto che ci siamo abituati a veder inciso a caratteri cubitali, anche dalle nostre parti, ovunque sono state chiamate ad operare le suore del Cottolengo, quasi a esplicitare, se mai ce ne fosse bisogno, la forza motrice, che da quel momento letteralmente lo spinge. Talmente “spinto” da non poter perdere tempo: il 17 gennaio 1828, cioè appena pochi mesi dopo lo sconvolgente dramma vissuto il precedente 2 settembre, già prende in affitto alcune stanze nella casa detta della “Volta Rossa”, al civico 19 di Via Palazzo di Città, in pieno centro urbano, per farne il “Deposito de’ poveri infermi del Corpus Domini”. È costretto a vendere tutto, anche il mantello, per far fronte alle prime spese per i ricoverati, che non si fanno attendere, visto che in quella stessa giornata le porte già si aprono per accogliere i primi due, Giuseppe Dana e Margherita Andrà; di lei si sa che è completamente paralitica e senza parenti, abbandonata a se stessa. Fin dal primo giorno si delineano così le caratteristiche della nuova istituzione, nata per rispondere alle esigenze di chi non ha veramente nulla, neppure i parenti, e che nessuno vuole ricoverare, in quanto incurabile. Perché a Torino non mancherebbero le istituzioni di assistenza e beneficenza; sono piuttosto le rigidissime regole interne ad impedire di fatto che ne usufruiscano i più bisognosi, il più delle volte ad esclusivo carico di famiglie magari già ridotte in stato di indigenza o, peggio ancora, completamente abbandonati a se stessi. Ed è principalmente di questi che vuole farsi carico il Cottolengo, e con un tale ardore e così tanta abnegazione da incontrare fin da subito l’opposizione ed i contrasti dei parenti e dei confratelli, con l’unica eccezione del suo diretto superiore, che gli fa da sponda, raccomandando a tutti di «lasciarlo fare». A dar sollievo a chi lamenta che quella strada e quella casa sono ormai diventati ricettacolo di ogni umana miseria, arriva il colera, con la chiusura dell’ospedaletto per paura del contagio. Non conoscerebbe a fondo il Cottolengo chi pensasse che possa bastare un’epidemia per farlo desistere; da buon braidese esperto di orticoltura, sa benissimo che «i cavoli trapiantati riescono meglio» e con questa speranza in cuore, ad aprile 1832, “trapianta” la sua neonata creatura in zona Valdocco, Borgo Dora: non più semplice “ospedaletto” di emergenza sanitaria, ma vera e propria “Casa”, intitolata a chi di quella struttura è la vera unica proprietaria, cioè la Divina Provvidenza. Per non far torto alla quale non vuole saperne di contabilità o di rendiconti, profondamente convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede”. Lo sperimenta tutti i giorni, toccando con mano fin dove sa arrivare il buon Dio, con un‘eleganza ed una tempestività che ha dello strepitoso e che in pratica equivale al sigillo celeste sull’intera istituzione. In base alle esigenze che di volta in volta gli si appalesano, nascono numerosi gruppi che denomina “famiglie”: l’ospedale per i malati, la casa per uomini e donne anziani, le famiglie dei sordomuti, degli epilettici, dei disabili psichici detti “Buoni Figli” e “Buone Figlie”, dove l’aggettivo “buono” sembra aggiunto apposta per esplicitare la tenerezza di Dio nei confronti dei più poveri tra i poveri e che il Cottolengo si sforza di tradurre in gesti concreti di carità. Fior fior di medici e farmacisti, tra cui anche il farmacista regio, si alternano a volontari, professionisti, muratori e benefattori che mettono a servizio della Provvidenza e dei poveri le proprie capacità e il proprio tempo. Fioriscono come dal nulla le Suore Vincenzine, poi le Suore della Divina Pastora, a seguire le Carmelitane Scalze, le Suore del Suffragio e le Suore Penitenti; sul versante maschile, i Fratelli di San Vincenzo e i Sacerdoti della SS. Trinità. Non male per un prete che, appena qualche anno prima, tirava stancamente la sua vocazione, senza slancio e senza entusiasmo. Il “manovale della Provvidenza” muore a Chieri il 30 aprile 1842, a 56 anni, più di 40 dei quali vissuti nel più assoluto anonimato e solo gli ultimi 14 all’insegna della misericordia, che lo aveva tuttavia spinto a scelte concrete e a volte scomode per i poveri, come ad esempio quella di far fare anticamera al vescovo di Vercelli per terminare una partita di bocce con un ricoverato: perché l’amore e la tenerezza sanno dare anche queste precedenze.
Pensiero
Se noi siamo rassegnati solo quando Iddio ci manda consolazioni e piaceri, credete pure, ci facciam pochi meriti, e non ci faremo mai santi: è necessario che ci mandi tribolazioni per provargli che siamo veramente figli della Divina Provvidenza; quantunque non avessimo di che nutrirci, di che vestirci, non dovremmo mai far questo torto al Signore con diffidare di lui, o mostrarcene tristi e malinconici. Via, siamo sempre allegri in Domino, egli pensa a noi più di quanto noi pensiamo a lui; e fa tutte le cose infinitamente meglio di quanto possiamo pensarle noi. |
1 Maggio 2024-: San Pellegrino Laziosi (1265-1345)-: San Pellegrino Laziosi (1265-1345)1 Maggio 2024 - San Pellegrino Laziosi Pellegrino nacque a Forlì intorno al 1265, dalla nobile famiglia dei Laziosi. C’è un episodio controverso dei vari agiografi, ed è quello in cui Forlì si trovò avvolta in tumulti popolari, avvenuti per l’interdetto ricevuto da papa Martino IV Il Priore Generale dei Servi di Maria, s. Filippo Benizi, che trovavasi in visita al convento di Forlì, fu percosso e scacciato dalla città, perché esortava i forlivesi a ritornare sotto l’ubbidienza al Pontefice, tra i ribelli c’era pure Pellegrino diciottenne. Nei vari racconti e citazioni susseguitesi nei secoli si narra che s. Filippo fu percosso con uno schiaffo da Pellegrino. Sui 30 anni (tra il 1290 e il 1295) entrò nell’Ordine dei Servi di Maria, ma non come sacerdote, per come sia avvenuta questa conversione non ci sono notizie certe, sembra che lo stesso s. Filippo gli abbia concesso l’abito. Contrariamente a quanto prescrivevano le regole antiche il noviziato fu fatto a Siena e non a Forlì. Trascorso il noviziato, dopo i 30 anni fu rimandato alla città natale dove rimase fino alla morte. Si distinse nell’osservanza della Regola e si dice che si prestava ad atti di profonda penitenza fra i quali prediligeva quello di stare in piedi senza sedersi, esercizio penitenziale che mantenne per trent’anni. Ma giunto sui sessant’anni, quella penitenza gli procurò una piaga alla gamba destra, causata da vene varicose. La malattia raggiunse un grado di gravità tale che i medici dell’epoca ritennero necessaria l’amputazione della gamba. Durante la notte precedente all’operazione, Pellegrino si alzò e a stenti raggiunse la sala capitolare e davanti all’immagine del crocefisso, pregò con fervore per ottenere la guarigione. Assopitasi sugli scanni, in sogno vide Gesù che sceso dalla Croce lo liberava dal male. Quindi risvegliatosi se ne tornò in cella, dove il mattino seguente il medico venuto per l’amputazione poté constatare l’avvenuta e totale guarigione. Il suo culto si è esteso in Italia e nel mondo al seguito dell’espandersi dell’Ordine dei Servi. Il 15 aprile 1609 papa Paolo V autorizzava con il titolo di beato un culto che da tempo immemorabile gli era già tributato e il 27 dicembre 1726 veniva proclamato santo da papa Benedetto XIII. È compatrono della città di Forlì, invocato come protettore contro le malattie cancerogene. È quasi sempre raffigurato sorretto dagli angeli, mentre Gesù scende dalla Croce per guarirlo.
-: San Riccardo Pampuri (1897-1930)-: San Riccardo Pampuri (1897-1930)1 Maggio 2024 - San Riccardo Pampuri Erminio Filippo Pampuri nasce il 2 agosto 1897 a Trivolzio (Pavia) da Innocenzo e Angela Campari. Decimo di undici figli, diventa orfano di madre a tre anni, per cui viene accolto dagli zii materni a Torrino, frazione di Trivolzio. Nel 1907 gli muore a Milano il padre. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di medicina nell'Università di Pavia, dove partecipa al Circolo Cattolico Severino Boezio e si laurea con il massimo dei voti il 6 luglio 1921. A 24 anni è medico “condotto” di Morimondo (Milano). Spesso non accetta nulla come onorario, anzi, porta ancora lui i medicinali e il denaro necessario alle famiglie più povere. Al mattino, dopo la Messa, fa ambulatorio in casa, poi riprende le visite. Porta con sé la corona del Rosario e prega la Madonna di sostenerlo e di illuminarlo. Erminio è tra i militari del servizio sanitario. Fin dalla chiamata alle armi, si prodiga con dedizione tra i soldati e feriti al fronte, rischiando sovente la pelle. Si racconta infatti che, conducendo un carro tirato da una coppia di buoi, per ventiquattro ore sotto la pioggia battente, pone in salvo il materiale sanitario precipitosamente abbandonato. Appena congedato, al termine della guerra, riprende gli studi di medicina e per l’impresa compiuta, viene decorato con medaglia di bronzo. Il 21 ottobre 1927 entra a Brescia nel noviziato dei Fatebenefratelli e vi emette la professione religiosa il 24 ottobre 1928: riceve l’umile saio di “fratello” e prende il nome di fra’ Riccardo. Gli viene affidato il gabinetto dentistico. Purtroppo nella primavera del 1929 la salute del “dottorino” peggiora per la tubercolosi. Il 18 aprile 1930 è trasferito nell'Ospedale del Fatebenefratelli di Milano, dove muore il 1 maggio, a soli 33 anni. Proclamato beato da Giovanni Paolo II il 4 ottobre 1981, è canonizzato il 1 novembre 1989. Nelle diocesi di Brescia e di Pavia la sua memoria si celebra il 16 maggio. Dall’Omelia per l’inizio dell’Anno Giubilare San Riccardo Pampuri pronunciata da S. Ecc. Mons. Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia (1 maggio 2019) «[…] San Riccardo: svolgendo con passione e attenzione la sua professione medica, non si è limitato a curare e guarire i suoi malati, o a dare qualche aiuto e sostegno per le situazioni di maggiore povertà, ma ha agito «nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno», ha reso presente con il suo modo di essere e di stare accanto alle persone la tenerezza e la forza di Gesù il Nazareno, colui che «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38), il vero buon Samaritano che si muove a compassione davanti all’uomo quasi senza vita, non passa oltre sulla strada, si china sull’umanità ferita e dolorante, si prende cura di noi, versando sulle piaghe dell’esistenza «l’olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio comune VIII, Gesù buon samaritano). Tanto che chi veniva a contatto con San Riccardo, chi incrociava la sua figura e la sua umanità vibrante e discreta, era provocato, quasi “costretto” a pensare a Gesù, ad accorgersi della verità e della realtà presente del Signore, nel volto e nell’esistenza di quest’uomo buono, saggio, lieto. La testimonianza del dottorino di Morimondo, divenuto poi fra Riccardo, è per tutti noi un dono da riscoprire, da custodire».
Preghiera Signore Gesù, che vi compiaceste di esaltare gli umili, di rivelarvi ai puri e di darvi in premio ai misericordiosi, concedetemi la grazia... che fiducioso vi chiedo per intercessione di San Riccardo Pampuri, esempio luminoso di umiltà, di purezza e di misericordia, a vostra maggior gloria e a salute dell’anima mia.
Preghiera per un ammalato San Riccardo, medico dei corpi e delle anime, prega per noi il Signore Gesù affinché questo nostro fratello ..... ammalato possa, riacquistare il vigore del corpo ed ottenere serenità dello spirito, pazienza nel dolore e, dopo una felice convalescenza, ritornare insieme con tutti noi a lodare il nome del Signore.
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2 Maggio 2024 | 3 Maggio 2024 |
4 Maggio 2024-: Beato Luc, Monaco (1914-1996)-: Beato Luc, Monaco (1914-1996)4 Maggio 2024 - Beato Luc, Monaco Paul Dochier nacque a Bourg-de-Péage, nella regione francese della Drôme, il 31 gennaio 1914. A diciassette anni perse il fratello maggiore, André, malato di tubercolosi. Fu probabilmente questo a condurlo alla scelta di diventare medico. Iniziò la pratica ospedaliera nel 1934 e, quattro anni dopo, l’internato presso la facoltà di Medicina nell’università di Lione. Grazie a un collega, cominciò a frequentare l’abbazia trappista di Aiguebelle. Nel 1937, durante un soggiorno in quel luogo, si sentì profondamente sconvolto nel suo intimo: da allora, cominciò ad alternare le proprie giornate tra l’ospedale e l’abbazia. L’abate gli chiese di terminare gli studi, prima di entrare definitivamente. A confermarlo nella vocazione fu l’incontro con Marthe Robin (Venerabile dal 2014). Concluse l’università, ma poté discutere la tesi solo nel 1940, perché intanto aveva iniziato il servizio militare. Fu inviato inizialmente a Casablanca, ma chiese di essere trasferito a Goulimine, un importante centro carovaniero nel sud del Marocco. Rimase lì per due anni, anche dopo aver ottenuto la licenza di esercitare la medicina, tanto era rimasto colpito dalla povertà delle popolazioni del luogo. Poco dopo la morte della madre, il 7 dicembre 1941, Paul entrò nell’abbazia di Aiguebelle. Scelse volutamente di essere fratello converso, ossia lo stato di vita monastica che poteva permettergli un servizio più umile. In onore di san Luca, l’evangelista che la tradizione vuole fosse anche medico, assunse il nome di fratel Luc. Cominciò quindi il suo cammino ordinario, tra la lavanderia e la cucina dell’abbazia. Non molto tempo dopo, però, venne a sapere che un suo ex collega, padre di quattro figli, era prigioniero di guerra a Wupperthal, nell’Alta Renania tedesca. Nell’aprile 1943, quindi, partì per sostituirlo. Lo scambio fu accettato: da allora, fratel Luc cominciò a curare i feriti del campo di prigionia, specie quelli di nazionalità russa, i più abbandonati di tutti. Tornò ad Aiguebelle solo dopo la fine della guerra, nel 1945. Emise la professione semplice l’anno dopo, nella festa dell’Assunzione. Quindi partì per il monastero di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine, in Algeria, insieme ad altri cinque monaci. Il 15 agosto 1949 professò i voti perpetui, primo tra i fratelli conversi. Sin dal suo arrivo, fratel Luc fu incaricato del dispensario collegato al monastero. Quando iniziò la guerra per l’indipendenza dell’Algeria, ebbe il permesso di curare i malati sia nel dispensario, sia a domicilio, dato che le comunicazioni con la città erano diventate difficili per la gente di montagna. Il suo servizio gli valse il rispetto di tutti gli abitanti, che, secondo le categorie di pensiero musulmane, lo consideravano un uomo di Dio. Di fatto, anche in mezzo alle visite e alle incombenze, restava in atteggiamento orante. Nel luglio 1959, nel pieno della guerra, fratel Luc e un altro monaco furono rapiti dai nazionalisti armati. Vennero rilasciati dopo dieci giorni, solo perché uno dei rapitori riconobbe il primo come il medico che aveva curato alcuni suoi vicini. Fratel Luc ne uscì gravemente compromesso in salute. Venne quindi mandato in Francia per un periodo di riposo, nel monastero di Nostra Signora delle Nevi nell’Ardèche, proprio mentre la comunità di Tibhirine rischiava la chiusura. Nella nuova destinazione fu aperto un ambulatorio apposta per lui, ma desiderava ugualmente tornare in Algeria. L’appello venne accolto: nel 1965 fratel Luc poté rientrare a Tibhirine. Ricominciò i suoi compiti umili, a cominciare da quello di cuciniere-capo. Continuò anche a curare i malati, senza preoccuparsi di ciò che, apparentemente, li rendeva diversi da lui. Per loro mendicava sussidi e aiuti spirituali, curandosi poco di se stesso. La vita di preghiera dei monaci venne turbata quando le notizie di aggressioni e uccisioni cominciarono a moltiplicarsi. Il 14 dicembre 1993, a Tamesguida, vennero sgozzati dodici croati cristiani. I monaci li conoscevano perché venivano da loro a celebrare la Pasqua. L’accaduto seguiva di due settimane l’ultimatum lanciato dal Gruppo Islamico Armato (GIA), che aveva preso il potere: tutti gli stranieri dovevano lasciare l’Algeria, pena la morte. La notte del 24 dicembre 1993, alcuni uomini armati si presentarono alla porta del monastero e domandarono di vedere il superiore. Fratel Paul Favre-Mirille, che aveva aperto, andò a cercare padre Christian, il quale parlò col capo del gruppetto, Sayah Attiyah. Le condizioni da lui poste, ovvero che i monaci dessero loro dei soldi, che il loro medico, ovvero fratel Luc, venisse a curare i loro malati e che dessero anche delle medicine, non vennero accettate tutte dal priore, che comunque riferì che avrebbero potuto venire al dispensario del monastero. Fece poi notare all’uomo che stavano per celebrare la nascita del Principe della Pace, ovvero il Natale di Gesù. Gli armati si allontanarono, dopo aver chiesto una parola d’ordine e aver minacciato di tornare. I monaci erano salvi, ma non al sicuro. Si sentivano come presi tra due fuochi: da una parte quelli che chiamavano “fratelli della montagna”, ovvero gli islamisti, e i “fratelli della pianura”, ovvero i militari e le forze di sicurezza dell’esercito algerino. Fratel Luc non si sottrasse a curare i “fratelli della montagna” come gli era stato richiesto, gratuitamente come sempre. Anche lui, come gli altri confratelli, partecipò al lungo discernimento che si concluse con la scelta di restare, per non abbandonare il popolo algerino. Intensificò la propria preparazione alla morte, ma senza paura. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, fratel Luc venne rapito insieme a sei monaci. Dopo un mese, un comunicato del Gruppo Islamico Armato (GIA) riferì che i rapiti erano ancora vivi, ma conteneva la minaccia di sgozzarli se non fossero stati liberati alcuni terroristi detenuti. Un ulteriore comunicato, il numero 44, datato 21 maggio, riferì che ai monaci era stata tagliata la gola. Il 30 maggio le loro spoglie vennero ritrovate sul ciglio della strada per Médéa. Si trattava, però, solo delle teste: i corpi rimasero introvabili. Il 26 gennaio 2018 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto relativo al martirio dei religiosi. La memoria liturgica di tutto il gruppo cade l’8 maggio.
Pensieri «Col suo saper fare, il cuciniere contribuisce a mantenere un buon clima nella vita comune». «Io sono come un viaggiatore che, con le mani vuote, attende il treno sulla banchina»; così si definiva «Credo che, nel contesto di un monastero posto al centro di una popolazione talmente povera, il gesto di occuparsi di chi è malato, di chi ha fame, di chi è senza vestiti sia un gesto evangelico ed ecclesiale che si inscrive nella tradizione monastica». «Poiché è l’incontro con Dio, la morte non può essere oggetto di terrore. La morte è Dio» «Bisogna risolutamente, e probabilmente ancora a lungo, non indietreggiare davanti allo sforzo eroico di un amore perseverante, disinteressato e soprannaturale» “Che cosa ci potrà mai capitare? Di andare verso il Signore e di immergersi nella sua tenerezza. Dio è misericordioso, è Colui che perdona. Non c’è vero amore a Dio senza accogliere senza riserve la morte… la morte è Dio!”
Preghiera Signore, nostro Padre, noi ti lodiamo per la passione, la morte e la risurrezione di tuo Figlio Gesù, lui, il martire per eccellenza da cui viene la nostra salvezza. Tu hai voluto far condividere il suo martirio ai nostri fratelli e sorelle della Chiesa Algerina: Henri e Paul-Helene, Caridad e Esther, Jean, Charles, Alain e Christian, Angele-Marie e Bibiane, Odette, Christian Luc, Christophe, Michel, Bruno, Celestin e Paul, e al tuo vescovo Pierre. Noi ti preghiamo Padre, perché per loro intercessione, si rafforzi il dialogo, il rispetto e l’amore tra i tuoi figli cristiani e musulmani. Benedici l’Algeria e il suo popolo E noi ti renderemo grazie nella pace. Padre, noi invochiamo i nostri fratelli martiri per… (esprimere la grazia richiesta) E tu Maria, che tutti loro hanno amato e che sei venerata nell’Islam, ascolta la nostra preghiera e intercedi per noi presso tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen
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5 Maggio 2024 |
6 Maggio 2024-: Beata Anna Rosa Gattorno (1831-1900)-: Beata Anna Rosa Gattorno (1831-1900)6 Maggio 2024 - Beata Anna Rosa Gattorno Nacque a Genova, il 14 ottobre 1831, da una famiglia di agiate condizioni economiche, di buon nome sociale e di profonda formazione cristiana. Fu battezzata lo stesso giorno, nella parrocchia di S. Donato, con i nomi di Rosa Maria Benedetta. Giovinetta, le fu impartita l'istruzione in casa, come era d'uso nelle famiglie fortunate del tempo. Di carattere sereno, amabile, aperto alla pietà e alla carità, e tuttavia fermo, seppe reagire altresì alla conflittualità del clima politico e anticlericale dell'epoca, che non risparmiò nemmeno alcuni componenti della sua famiglia. A 21 anni sposò il cugino Gerolamo Custo, e si trasferì a Marsiglia. Un imprevisto dissesto finanziario turbò ben presto la felicità della novella famiglia, costretta a far ritorno a Genova nel segno della povertà. Disgrazie ancor più gravi incombevano: la primogenita Carlotta, colpita da un improvviso malore, rimase sordomuta per sempre; il tentativo di Gerolamo di far fortuna all'estero si concluse con un ritorno, aggravato da ferale malattia; la gioia degli altri due figli fu profondamente turbata dalla scomparsa del marito, che la lasciò vedova a meno di sei anni dalle nozze e, dopo qualche mese, dalla perdita dell'ultimo figlioletto. L'incalzare di tante tristi vicende segnò, nella sua vita, un cambiamento radicale che lei chiamerà la sua "conversione" all'offerta totale di sé al Signore, al suo amore e all'amore del prossimo. Purificata dalle prove, e resa forte nello spirito, comprese il vero senso del dolore, e si radicò nella certezza della sua nuova vocazione. Le Associazioni cattoliche in Genova se la contesero, così che pur amando il silenzio e il nascondimento, fu notato da tutti il carattere genuinamente evangelico del suo tenore di vita. A Piacenza diede inizio alla nuova famiglia religiosa, che denominò definitivamente "Figlie di S. Anna, madre di Maria Immacolata" (8 dicembre 1866). Vestì l'abito religioso il 26 luglio 1867, e l'8 aprile 1870 emise la professione religiosa insieme a 12 Consorelle. Affidata totalmente alla Provvidenza divina, e animata fin dal principio da un coraggioso slancio di carità, Rosa Gattorno diede inizio alla costruzione dell'Opera di Dio, in spirito di dedizione materna, attenta e sollecita verso ogni forma di sofferenza e miseria morale o materiale, con l'unico intento di servire Gesù nelle sue membra doloranti e ferite, e di "evangelizzare innanzitutto con la vita". Nacquero varie opere di servizio ai poveri e agli infermi di qualsiasi malattia, alle persone sole, anziane, abbandonate, ai piccoli e agli indifesi, alle adolescenti e alle giovani "a rischio", cui provvedeva a far impartire un'istruzione adeguata, e al successivo inserimento nel mondo del lavoro. A queste forme si aggiunse ben presto l'apertura di scuole popolari per l'istruzione ai figli dei poveri, e altre opere di promozione umano-evangelica, secondo i bisogni più urgenti del tempo, con una fattiva presenza nella realtà ecclesiale e civile. Nel 1878, inviava già le prime Figlie di S. Anna in Bolivia, poi in Brasile, Cile, Perù, Eritrea, Francia, Spagna. A Roma, dove aveva iniziato l'opera sua dal 1873, organizzò scuole maschili e femminili per i poveri, asili nido, assistenza ai neonati figli delle operaie della Manifattura dei tabacchi, case per ex prostitute, donne di servizio, infermiere a domicilio ecc. In tutto, alla sua morte, aveva avviato 368 Case nelle quali svolgevano la loro missione 3500 Suore. Espressione di un singolare disegno di Dio, nella sua triplice esperienza di sposa e madre, vedova, e poi religiosa-Fondatrice, Rosa Gattorno ha ben onorato la dignità e il "genio della donna" nella sua missione al servizio della umanità e della diffusione del Regno. Pur sempre fedele alla chiamata di Dio, e autentica maestra di vita cristiana ed ecclesiale, rimase soprattutto essenzialmente madre: dei suoi figli, che costantemente seguì; delle Suore, che profondamente amò; e dei bisognosi, dei sofferenti e degli infelici, nel cui volto contemplò quello stesso di Cristo, povero, piagato, crocifisso. Il suo carisma si è diffuso nella Chiesa col sorgere di altre forme di vita evangelica: Suore di vita contemplativa; Associazione religiosa Sacerdotale; Istituto secolare e Movimento ecclesiale di laici, attivamente operante nella Chiesa in quasi tutte le parti del mondo.
Pensieri "Mi dedicai con più fervore alle opere pie e a frequentare gli ospedali e i poveri infermi a domicilio, soccorrendoli quanto potevo e servirli in tutto". “Soffri ancora un poco per il Signore, che tutto Egli paga al centuplo per uno”.
Preghiera alla SS. Trinità composta dalla Beata Eterno Padre, ti offriamo il Cuore del Tuo Figlio Divino unito a quello della Tua diletta Figlia Maria Madre di Dio; per questi due Cuori uniti concedici la grazia... che ardentemente ti domandiamo. Pater, Ave, Gloria. Verbo incarnato, per le viscere di quella carità, che t'indusse ad immolarti sull'altare della Croce ed a morirvi per noi, concedici la grazia... che ardentemente ti domandiamo. Pater, Ave, Gloria. Spirito Santo, Fuoco Divino, per quella effusione d'amore onde nel concepimento del Figlio di Dio nel seno della SS. Vergine Maria, hai cooperato al gran mistero della nostra redenzione, concedici la grazia... che ardentemente ti domandiamo. Pater, Ave, Gloria.
Nacque a Genova, il 14 ottobre 1831, da una famiglia di agiate condizioni economiche, di buon nome sociale e di profonda formazione cristiana. Fu battezzata lo stesso giorno, nella parrocchia di S. Donato, con i nomi di Rosa Maria Benedetta. Giovinetta, le fu impartita l'istruzione in casa, come era d'uso nelle famiglie fortunate del tempo. Di carattere sereno, amabile, aperto alla pietà e alla carità, e tuttavia fermo, seppe reagire altresì alla conflittualità del clima politico e anticlericale dell'epoca, che non risparmiò nemmeno alcuni componenti della sua famiglia. A 21 anni sposò il cugino Gerolamo Custo, e si trasferì a Marsiglia. Un imprevisto dissesto finanziario turbò ben presto la felicità della novella famiglia, costretta a far ritorno a Genova nel segno della povertà. Disgrazie ancor più gravi incombevano: la primogenita Carlotta, colpita da un improvviso malore, rimase sordomuta per sempre; il tentativo di Gerolamo di far fortuna all'estero si concluse con un ritorno, aggravato da ferale malattia; la gioia degli altri due figli fu profondamente turbata dalla scomparsa del marito, che la lasciò vedova a meno di sei anni dalle nozze e, dopo qualche mese, dalla perdita dell'ultimo figlioletto. L'incalzare di tante tristi vicende segnò, nella sua vita, un cambiamento radicale che lei chiamerà la sua "conversione" all'offerta totale di sé al Signore, al suo amore e all'amore del prossimo. Purificata dalle prove, e resa forte nello spirito, comprese il vero senso del dolore, e si radicò nella certezza della sua nuova vocazione. Le Associazioni cattoliche in Genova se la contesero, così che pur amando il silenzio e il nascondimento, fu notato da tutti il carattere genuinamente evangelico del suo tenore di vita. A Piacenza diede inizio alla nuova famiglia religiosa, che denominò definitivamente "Figlie di S. Anna, madre di Maria Immacolata" (8 dicembre 1866). Vestì l'abito religioso il 26 luglio 1867, e l'8 aprile 1870 emise la professione religiosa insieme a 12 Consorelle. Affidata totalmente alla Provvidenza divina, e animata fin dal principio da un coraggioso slancio di carità, Rosa Gattorno diede inizio alla costruzione dell'Opera di Dio, in spirito di dedizione materna, attenta e sollecita verso ogni forma di sofferenza e miseria morale o materiale, con l'unico intento di servire Gesù nelle sue membra doloranti e ferite, e di "evangelizzare innanzitutto con la vita". Nacquero varie opere di servizio ai poveri e agli infermi di qualsiasi malattia, alle persone sole, anziane, abbandonate, ai piccoli e agli indifesi, alle adolescenti e alle giovani "a rischio", cui provvedeva a far impartire un'istruzione adeguata, e al successivo inserimento nel mondo del lavoro. A queste forme si aggiunse ben presto l'apertura di scuole popolari per l'istruzione ai figli dei poveri, e altre opere di promozione umano-evangelica, secondo i bisogni più urgenti del tempo, con una fattiva presenza nella realtà ecclesiale e civile. Nel 1878, inviava già le prime Figlie di S. Anna in Bolivia, poi in Brasile, Cile, Perù, Eritrea, Francia, Spagna. A Roma, dove aveva iniziato l'opera sua dal 1873, organizzò scuole maschili e femminili per i poveri, asili nido, assistenza ai neonati figli delle operaie della Manifattura dei tabacchi, case per ex prostitute, donne di servizio, infermiere a domicilio ecc. In tutto, alla sua morte, aveva avviato 368 Case nelle quali svolgevano la loro missione 3500 Suore. Espressione di un singolare disegno di Dio, nella sua triplice esperienza di sposa e madre, vedova, e poi religiosa-Fondatrice, Rosa Gattorno ha ben onorato la dignità e il "genio della donna" nella sua missione al servizio della umanità e della diffusione del Regno. Pur sempre fedele alla chiamata di Dio, e autentica maestra di vita cristiana ed ecclesiale, rimase soprattutto essenzialmente madre: dei suoi figli, che costantemente seguì; delle Suore, che profondamente amò; e dei bisognosi, dei sofferenti e degli infelici, nel cui volto contemplò quello stesso di Cristo, povero, piagato, crocifisso. Il suo carisma si è diffuso nella Chiesa col sorgere di altre forme di vita evangelica: Suore di vita contemplativa; Associazione religiosa Sacerdotale; Istituto secolare e Movimento ecclesiale di laici, attivamente operante nella Chiesa in quasi tutte le parti del mondo.
Pensieri "Mi dedicai con più fervore alle opere pie e a frequentare gli ospedali e i poveri infermi a domicilio, soccorrendoli quanto potevo e servirli in tutto". “Soffri ancora un poco per il Signore, che tutto Egli paga al centuplo per uno”.
Preghiera alla SS. Trinità composta dalla Beata Eterno Padre, ti offriamo il Cuore del Tuo Figlio Divino unito a quello della Tua diletta Figlia Maria Madre di Dio; per questi due Cuori uniti concedici la grazia... che ardentemente ti domandiamo. Pater, Ave, Gloria. Verbo incarnato, per le viscere di quella carità, che t'indusse ad immolarti sull'altare della Croce ed a morirvi per noi, concedici la grazia... che ardentemente ti domandiamo. Pater, Ave, Gloria. Spirito Santo, Fuoco Divino, per quella effusione d'amore onde nel concepimento del Figlio di Dio nel seno della SS. Vergine Maria, hai cooperato al gran mistero della nostra redenzione, concedici la grazia... che ardentemente ti domandiamo. Pater, Ave, Gloria.
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7 Maggio 2024 | 8 Maggio 2024 | 9 Maggio 2024 |
10 Maggio 2024-: Beato Enrico Rebuschini (1860-1938)-: Beato Enrico Rebuschini (1860-1938)10 Maggio 2024 - Beato Enrico Rebuschini Nato a Gravedona (Como) nel 1860, il beato Enrico Rebuschini a 18 anni comincia un cammino vocazionale, che però non viene ben visto dalla famiglia, appartenente alla buona borghesia lombarda. Soprattutto dal padre, il quale però alla fine cede ed Enrico entra 24enne nel seminario di Como. Qui fanno presto a scoprire le sue doti, e lo mandano a studiare teologia nell’Università Gregoriana di Roma. Poi lo aggredisce una forma grave di depressione. Perciò, ritorno in famiglia, poi ricovero in casa di cura. La ripresa è lenta, e non certo definitiva. Ma questa sofferenza lo orienta. Gli precisa la vocazione. Enrico Rebuschini scopre il mondo degli ammalati e scopre che dovrà vivere con loro e per loro: anche perché è come loro. Un’illuminazione simile a quella che nel ’500 ha orientato il soldato di ventura Camillo de Lellis, ricoverato all’ospedale romano di San Giacomo degli Incurabili con una piaga sempre aperta in un piede. San Camillo lo “cattura” attraverso la frequentazione degli ammalati, la preghiera, i suggerimenti del suo confessore. Nel 1887, a 27 anni, Enrico va a Verona ed entra come novizio tra i Ministri degli infermi. Dopo due anni di noviziato, il 14aprile 1889 è ordinato sacerdote da monsignor Giuseppe Sarto, vescovo di Mantova e futuro papa Pio X. Lavora per dieci anni a Verona, insegnando ai novizi dell’ordine e assistendogli ammalati. Nel 1899, eccolo con i Camilliani a Cremona, prima nella casa di cura di via Colletta, poi in quella di via Mantova. Per quasi 39 anni, fino alla morte. Fedelissimo agli Ordini et modi prescritti ai suoi da san Camillo per il rapporto con gli infermi, partendo da “carità” e “diligenza”, e terminando con “piacevolezza” “mansuetudine”, “rispetto”, “onore”. Per Enrico Rebuschini, tutti coloro che la malattia costringe a letto sono i “Signori malati”; vicini a Dio, e perciò potenti, proprio a causa della loro sofferenza. Per lui sono tutti così, nello spirito camilliano, credenti e non credenti. Anzi, per questi ultimi sa magnificamente associare l’attenzione con la delicatezza. E tutto questo in mezzo all’andata e ritorno della sua depressione. Come è detto nella documentazione canonica sulle sue virtù in grado eroico: «più volte nel corso della sua vita portò la croce di grandi sofferenze interiori, che non gli impedirono tuttavia di progredire nelle vie del Signore». E ha continuato sempre a sostenere ogni altro “portatore di croce”, fino all’ultimo giorno. Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato nel 1997. Il suo corpo è custodito nella cappella della Casa di cura “San Camillo” a Cremona. Pensieri «Iddio operò la mia salute col darmi la confidenza nella sua infinita bontà e misericordia». «Io invoco Dio in questa estrema mia necessità. Io non voglio temere se non l’offesa di Dio. Mio Dio, misericordia».
Preghiera Signore Gesù, che nel Beato Enrico Rebuschini, ardente del tuo spirito di amore, hai unito alla mitezza e umiltà il servizio dei poveri e dei malati, concedi a noi, per sua intercessione, di vivere umilmente il tuo Vangelo e di servirti con opere di carità nei fratelli infermi. Per Cristo nostro Signore |
11 Maggio 2024 |
12 Maggio 2024-: Beato Alvaro del Portillo (1914-1994)-: Beato Alvaro del Portillo (1914-1994)12 Maggio 2024 - Beato Alvaro del Portillo Figlio di Clementina Diez de Sollano (messicana) e di Ramón del Portillo y Pardo (spagnolo), Álvaro del Portillo nacque a Madrid l’11 marzo 1914. Dopo il diploma nella scuola Nuestra Señora del Pilar di Madrid, si iscrisse alla Scuola di Ingegneria civile, che terminò nel 1941. Successivamente lavorò in vari enti pubblici occupandosi di questioni idrografiche. Studiò inoltre Lettere e Filosofia (indirizzo storico), laureandosi nel 1944 con la tesi "Scoperte ed esplorazioni sulle coste della California". Nel 1935 entrò nell’Opus Dei, istituzione della Chiesa Cattolica che era stata fondata sette anni prima da san Josemaría Escrivá. Ricevette direttamente dal fondatore la formazione e lo spirito propri di questo nuovo cammino di fede. Sviluppò un ampio lavoro di evangelizzazione tra i suoi compagni di studio e colleghi di lavoro. Il 25 giugno 1944 fu ordinato sacerdote. Nel 1946 si trasferì a Roma, pochi mesi prima che san Josemaría vi fissasse la sua residenza. Fu un periodo cruciale per l’Opus Dei, che ricevette allora le prime approvazioni giuridiche della Santa Sede. Anche per lui iniziò un’epoca decisiva, in cui, tra l'altro, sviluppò, con la sua attività intellettuale accanto a san Josemaría e con il suo lavoro presso la Santa Sede, una profonda riflessione sul ruolo e la responsabilità dei fedeli laici nella missione della Chiesa, attraverso il lavoro professionale e le relazioni sociali e familiari. Promosse attività di formazione cristiana, offrendo i suoi servizi sacerdotali a numerose persone. Della scia che il suo lavoro ha lasciato in Italia parlano oggi le varie strade e piazze che gli sono state dedicate in varie città e paesi. Durante i suoi anni romani, i diversi Papi succedutisi al soglio pontificio (da Pio XII a Giovanni Paolo II) lo chiamarono a svolgere numerosi incarichi, come membro o consultore di 13 organismi della Santa Sede. Partecipò attivamente al Concilio Vaticano II. La vita di Álvaro del Portillo è strettamente unita a quella del fondatore. Rimase sempre al suo fianco fino al momento della morte, che avvenne il 26 giugno 1975. Il 15 settembre 1975, nel congresso generale convocato dopo la morte del fondatore, don Álvaro del Portillo fu eletto a succedergli a capo dell’Opus Dei. Il 28 novembre 1982, quando il beato Giovanni Paolo II eresse l’Opus Dei in Prelatura personale, lo nominò Prelato della nuova prelatura. Nel corso degli anni in cui fu a capo dell’Opus Dei, Álvaro del Portillo promosse l’inizio dell'attività della Prelatura in 20 nuovi paesi. Nei suoi viaggi pastorali, che lo portarono in tutti e cinque i continenti, parlò a migliaia di persone di amore alla Chiesa e al Papa e predicò con convinzione il messaggio cristiano di san Josemaría sulla santità nella vita ordinaria. Come Prelato dell'Opus Dei, Álvaro del Portillo diede impulso alla nascita di numerose iniziative sociali ed educative. Allo stesso modo, la Pontificia Università della Santa Croce (dal 1985) e il seminario internazionale Sedes Sapientiae (dal 1990), entrambi a Roma, così come il Collegio ecclesiastico internazionale Bidasoa (Pamplona, Spagna), hanno formato per le diocesi migliaia di candidati al sacerdozio, inviati dai vescovi di tutto il mondo. Queste realtà evidenziano la preoccupazione di mons. del Portillo per il ruolo del sacerdote nel mondo, tema al quale ha dedicato buona parte delle sue energie, come fu evidente negli anni del Concilio Vaticano II. Mons. Álvaro del Portillo morì a Roma la mattina del 23 marzo 1994. È stato beatificato il 27 settembre 2014 a Valdebebas. La sua memoria liturgica è fissata al 12 maggio, giorno della sua prima Comunione.
Sua caratteristica principale è la fedeltà: fedeltà a Dio, anzitutto, nel compimento della sua volontà; fedeltà alla Chiesa e al Papa; fedeltà al sacerdozio; fedeltà alla vocazione cristiana in ogni istante ed in ogni circostanza della vita (decreto sulle virtù, pag.1). La santificazione del lavoro è stata perseguita in ogni momento della sua vita: prima come ingegnere, poi come sacerdote e, infine, come Vescovo. Da quando fu alla guida dell'Opus Dei (1975) si prodigò all'estensione degli apostolati svolti dai fedeli della Prelatura al servizio della Chiesa, viaggiò in tutto il mondo per incoraggiare i fedeli della Prelatura e tanti altri cristiani. Mons. Álvaro del Portillo visse con un profondo senso della filiazione divina, che lo portava a cercare l'identificazione con Cristo in un fiducioso abbandono alla volontà del Padre (decreto sulle virtù, pag.3)
«Dette prova di eroismo in particolare nell’affrontare le malattie – nelle quali vedeva la Croce di Cristo –, il carcere per un certo tempo durante la persecuzione religiosa in Spagna (1936-1939) e gli attacchi che dovette subire per la sua fedeltà alla Chiesa. Uomo di profonda bontà ed affabilità, era capace di trasmettere pace e serenità alle anime. Nessuno ricorda un gesto poco cortese da parte sua, il minimo moto di impazienza dinanzi alle contrarietà, una sola parola di critica o di protesta per le difficoltà: aveva imparato dal Signore a perdonare, a pregare per i persecutori, ad accogliere tutti con un sorriso e con cristiana comprensione.»
-: San Leopoldo Mandic (1866-1942)-: San Leopoldo Mandic (1866-1942)12 Maggio 2024 - San Leopoldo Mandic Leopoldo nacque a Castelnuovo di Cattaro (l'odierna Herceg-Novi in Montenegro) il 12 maggio 1866, penultimo dei sedici figli di Pietro Mandić e di Carolina Zarević, famiglia cattolica croata. Al battesimo ricevette il nome di Bogdan Ivan (Adeodato Giovanni). Suo bisnonno paterno Nicola Mandić era oriundo da Poljica, nell'arcidiocesi di Spalato (Split), dove i suoi antenati erano giunti dalla Bosnia, nel lontano secolo XV. A Castelnuovo di Cattaro, all'epoca situato nella Provincia di Dalmazia, a sua volta parte dell'Impero Austriaco, prestavano la loro opera i frati francescani Cappuccini della Provincia Veneta (vi si trovavano fin dal 1688, epoca del dominio della Repubblica di Venezia). Frequentando l'ambiente dei frati, in occasione delle funzioni religiose e del doposcuola pomeridiano, il piccolo Bogdan manifestò il desiderio di entrare nell'Ordine dei Cappuccini. Per il discernimento della vocazione religiosa, fu accolto nel seminario cappuccino di Udine e poi, diciottenne, il 2 maggio 1884 al noviziato di Bassano del Grappa (Vicenza), dove vestì l'abito francescano, ricevendo il nuovo nome di "fra Leopoldo" e impegnandosi a vivere la regola e lo spirito di san Francesco d'Assisi. Dal 1885 al 1890 completò gli studi filosofici e teologici nei conventi di Santa Croce a Padova e del Santissimo Redentore a Venezia. In quegli anni la formazione religiosa ricevuta dalla famiglia ricevette l'impronta definitiva nello studio e nella conoscenza della Sacra Scrittura e della letteratura patristica e nell'acquisizione della spiritualità francescana. Il 20 settembre 1890, nella basilica della Madonna della Salute a Venezia, fu ordinato sacerdote per mano del card. Domenico Agostini. Di intelligenza aperta, padre Leopoldo Mandić aveva una buona formazione filosofica e teologica e per tutta la vita continuerà a leggere i padri e i dottori della Chiesa. Sin dal 1887, si era sentito chiamato a promuovere l'unione dei cristiani orientali separati con la Chiesa cattolica. Nella prospettiva di un ritorno nella terra natia come missionario, si dedicò all'apprendimento di diverse lingue slave, compreso un po' di greco moderno. Fece domanda di partire per le missioni d'Oriente nella propria terra, secondo quell'ideale ecumenico, divenuto poi voto, che coltiverà fino alle fine dei suoi giorni, ma la salute cagionevole sconsigliò i superiori dall'accettare la richiesta. Infatti, a causa dell'esile costituzione fisica e di un difetto di pronuncia, non poteva dedicarsi alla predicazione. I primi anni passarono nel silenzio e nel nascondimento del convento di Venezia, addetto al confessionale e agli umili lavori del convento, con un po' di esperienza da questuante di porta in porta. Nel settembre del 1897, ricevette l'incarico di presiedere il piccolo convento cappuccino di Zara in Dalmazia. Durò poco la speranza di poter realizzare l'aspirazione alla missione: già nell'agosto del 1900 fu richiamato a Bassano del Grappa (Vicenza) come confessore. Si aprì un'altra breve parentesi di attività missionaria nel 1905 come vicario del convento di Capodistria, nella vicina Istria, dove sì rivelò subito consigliere spirituale apprezzato e ricercato. Ma, ancora una volta, dopo un solo anno, venne richiamato in Veneto, al santuario della Madonna dell'Olmo di Thiene (Vicenza). Tra il 1906 e il 1909 vi prestò servizio come confessore, salvo una breve parentesi a Padova. A Padova, al convento di piazzale Santa Croce, padre Leopoldo arrivò nella primavera del 1909. Nell'agosto del 1910, fu nominato direttore degli studenti, cioè dei giovani frati cappuccini che, in vista del ministero sacerdotale, frequentavano lo studio della Filosofia e della Teologia. Furono anni di intenso studio e dedizione. A differenza di altri docenti, padre Leopoldo – che insegnava Patrologia – si distinse per benevolenza, che qualcuno riteneva eccessiva e in contrasto con la tradizione dell'Ordine. Anche per questo, probabilmente, nel 1914 padre Leopoldo fu improvvisamente sollevato dall'insegnamento. E fu un nuovo motivo di sofferenza. Così, a partire dall'autunno del 1914, a quarantott'anni di età, a padre Leopoldo venne chiesto l'impegno esclusivo nel ministero della confessione. Le sue doti di consigliere spirituale erano note da tempo, tanto che, nel giro di qualche anno, divenne confessore ricercato da persone di ogni estrazione sociale, che per incontrarlo arrivavano anche da fuori città. Fortemente legato alla sua terra d'origine, padre Leopoldo aveva mantenuto la cittadinanza austriaca. Le scelta, motivata dalla speranza che i documenti d'identità favorissero un suo ritorno missionario in patria, si muta però in problema, nel 1917, con la rotta di Caporetto. Come altri 'stranieri' residenti in Veneto, nel 1917 fu sottoposto a indagini di polizia e, visto che non intendeva rinunciare alla cittadinanza austriaca, venne mandato al confino nel Sud d'Italia. Nel corso del viaggio, a Roma incontrò anche papa Benedetto XV. A fine settembre del 1917, raggiunse il convento dei Cappuccini di Tora (Caserta), dove iniziò a scontare il provvedimento di confino politico. L'anno successivo passò al convento di Nola (Napoli) e poi di Arienzo (Caserta). Al termine della Prima guerra mondiale fece ritorno a Padova. Durante il viaggio visitò i santuari di Montevergine, Pompei, Santa Rosa a Viterbo, Assisi, Camaldoli, Loreto e Santa Caterina di Bologna. Il 27 maggio 1919 giunse al convento di Cappuccini di Santa Croce in Padova, dove riprese il proprio posto nel confessionale. La sua popolarità aumentò a dispetto del carattere schivo. Gli Annali della Provincia Veneta dei Cappuccini riportano: “Nella confessione esercita un fascino straordinario per la grande cultura, per il fine intuito e specialmente per la santità della vita. A lui affluiscono non solo popolani, ma specialmente persone intellettuali e aristocratiche, a lui professori e studenti dell'Università e il clero secolare e regolare”. Nell'ottobre del 1923 i superiori religiosi lo trasferirono a Fiume (Rijeka), dopo che il convento era passato alla Provincia Veneta. Ma, soltanto una settimana dopo la sua partenza, il vescovo di Padova, mons. Elia Dalla Costa, interprete della cittadinanza, invitò il Ministro provinciale dei francescani Cappuccini, padre Odorico Rosin da Pordenone, a farlo ritornare. Così, per il Natale di quell'anno padre Leopoldo, obbedendo ai superiori e congedando il sogno di lavorare sul campo per l'unità dei cristiani, era di nuovo a Padova. Da Padova non si allontanerà più per il resto della vita. Qui, spenderà ogni momento del suo ministero sacerdotale nell'ascolto sacramentale delle confessioni e nella direzione spirituale. Domenica 22 settembre 1940, nella chiesa del convento di Santa Croce, si festeggiarono le nozze d'oro sacerdotali, cioè il 50º anniversario dell'ordinazione presbiterale. Le spontanee, generali e grandiose manifestazioni di simpatia e stima a padre Leopoldo fecero chiaramente conoscere quanto vasta e profonda fosse l'opera di bene da lui svolta in cinquant'anni di ministero. Negli ultimi mesi del 1940 la sua salute andò sempre più peggiorando. All'inizio di aprile 1942 fu ricoverato all'ospedale: ignorava di avere un tumore all'esofago. Rientrato in convento continuò a confessare, pur in condizioni sempre più precarie. Com'era solito fare, il 29 luglio 1942 confessò senza sosta, trascorrendo poi gran parte della notte in preghiera. All'alba del 30 luglio, nel prepararsi alla santa messa, svenne. Riportato a letto, ricevette il sacramento dell'unzione degli infermi. Pochi minuti dopo, mentre recitava le ultime parole della preghiera Salve Regina, tendendo le mani verso l'alto, spirò.
Pensieri “Quando il Padrone Iddio ci tira per la briglia, direttamente o indirettamente, lo fa sempre da Padre, con infinita bontà. Cerchiamo di comprendere questa mano paterna che con infinito amore si degna di prendersi cura di noi”. “L’amore di Gesù è un fuoco che viene alimentato con la legna del sacrificio e l’amore della croce; se non viene nutrito così, si spegne”.
Preghiera del malato O caro san Leopoldo, tu hai sempre aiutato e consolato quanti ricorrevano a te nelle loro necessità spirituali e materiali. Animato da grande confidenza, anch’io ricorro a te, così ricco di benevolenza e generosità. Nella tua vita hai provato il turbamento e la fatica di vivere con il tumore: stammi vicino. Tu conosci la mia angustia e trepidazione: vieni in mio aiuto. Sorreggi la mia fede, rafforza la mia speranza, ottienimi la grazia di affrontare la sofferenza e le cure del mio male, superando positivamente questa prova. Intercedi presso il Padre affinché il mio cuore trovi la pace e la serenità vera. Fa’ che io possa, con animo riconoscente, ringraziare quel Dio misericordioso che tu stesso proclamavi “medico e medicina”.
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13 Maggio 2024 | 14 Maggio 2024 | 15 Maggio 2024 |
16 Maggio 2024-: Beata Madre di Misericordia-: Beata Madre di Misericordia16 Maggio 2024 - Beata Madre di Misericordia Il titolo di «Madre di misericordia», che per primo sant'Oddone († 942), abate di Cluny, si ritiene abbia attribuito alla Madonna, giustamente celebra la santa Vergine, sia perché ci ha generato Gesù Cristo, che è la misericordia visibile dell'invisibile Dio misericordioso, sia perché è madre spirituale dei fedeli, piena di grazia e di misericordia: la beata Vergine è chiamata «madre della misericordia» - scrive san Lorenzo da Brindisi -, il che significa che è infinitamente misericordiosa, madre clementissima e tenerissima, madre dolcissima». La Madre di Gesù, che ora è in cielo, presenta le necessità dei fedeli al Figlio suo, che, quando era in terra, supplicò per gli sposi a Cana (Gv 2,1-11). Nel formulario della messa la beata Vergine è celebrata anche come: - profetessa che esalta la misericordia di Dio; due volte nel cantico «Magnificat» ha lodato Dio che usa misericordia: «Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono»; «ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1,50.54). Per questo i fedeli desiderano vivamente «magnificare con Maria la bontà infinita» di Dio; - donna che ha fatto un 'esperienza della misericordia di Dio: «la regina clemente, esperta della benevolenza (di Dio), accoglie quanti nella tribolazione ricorrono a lei. Scrive Giovanni Paolo Il riguardo alla beata Vergine: «Maria (...) in modo particolare ed eccezionale - come nessun altro - ha sperimentato la misericordia; (...) avendo fatto esperienza della misericordia in una maniera straordinaria» (Lettera Enciclica Dives in misericordia, 9).
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17 Maggio 2024 | 18 Maggio 2024 | 19 Maggio 2024 |
20 Maggio 2024 | 21 Maggio 2024 |
22 Maggio 2024-: Beata Domenica Brun Barbantini (1789-1868)-: Beata Domenica Brun Barbantini (1789-1868)22 Maggio 2024 - Beata Domenica Brun Barbantini Maria Domenica nasce a Lucca il 17 gennaio 1789 da Pietro Brun di origine elvetica e da Giovanna Granucci di Pariana, piccolo centro della provincia lucchese. Di carattere aperto e intelligente, la piccola trascorre felicemente la prima infanzia tra le cure della madre e la rigida educazione paterna. La sua adolescenza è invece segnata da quattro lutti: la morte del padre e quella di tre fratellini a breve distanza uno dall’altro. Con l’aiuto della paziente guida materna, Maria Domenica supera il dramma dei lutti ed entra nella giovinezza carica di sogni e di speranze, tutta impegnata nello studio delle discipline umanistiche e religiose, proprie del ceto medio borghese della sua epoca e della sua città. Il 22 aprile del 1811, nella cattedrale di S. Martino in Lucca, Maria Domenica sposa il concittadino Salvatore Barbantini. È un matrimonio d’amore e di molteplici attese, ma dopo appena cinque mesi dalle nozze, "lo sposo adorato" muore improvvisamente lasciando tragicamente sola Maria Domenica già in attesa di un figlio. Di fronte alla dolorosa prova, la vedova, appena ventiduenne, piange e singhiozza, ma non si lascia prendere dalla disperazione: ella s’inginocchia davanti al Crocifisso, la notte stessa della immane tragedia e, abbracciandolo, pronuncia il suo fiat con questa parole: "Oh mio Dio... Dio del mio cuore... mi avete percossa a sangue... voi solo, Crocifisso mio bene, sarete da qui innanzi il dolcissimo sposo dell’anima mia... il mio unico e solo amore, la mia eterna porzione". Una consacrazione totale ed irrevocabile che nasce sul calvario di un dolore immenso e crudele, illuminato però da una fede viva, da una speranza senza confini, da un amore teologale autentico. Da quel momento nasce in lei la "passione" di servire le inferme povere e sole della sua città. Poiché le cure del figlio le occupano l’intera giornata, ella dedica eroicamente alcune ore della notte all’assistenza delle inferme in case private. Ma un’altra prova attende la giovane vedova: Lorenzino, il figlio amatissimo, che era tutta la consolazione di Maria Domenica sulla terra, muore quasi improvvisamente, colpito da grave malattia, all’età di soli otto anni. La povera madre è sconvolta: "Non so come non perdessi il senno", scrive lei stessa e, mentre il suo cuore straziato piange lacrime di sangue, ancora una volta ella trasforma in offerta quel dramma indicibile: "Guardavo il cielo — afferma — e oppressa dal dolore, replicavo l’offerta di quell’unico amato figlio e dell’eccessivo mio dolore". Da un matrimonio infranto e da una maternità spezzata, Maria Domenica seppe elevarsi attraverso l’abbandono totale a Dio ad una sponsalità cristica totale e ad una maternità spirituale ed universale. D’ora in poi, il suo cuore materno brucerà d’amore, di tenerezza e di cure per i malati poveri e soli, per gli abbandonati, per i morenti. Di giorno e di notte, sotto il sole cocente o la pioggia dirompente, ella percorre, con la lanterna accesa, le vie strette e buie della città di Lucca per raggiungere al capezzale le inferme più gravi e sole. Una notte, assalita da un uragano, le si spegne il lumicino; brancolando a lungo nel buio, ella arriva finalmente al domicilio desiderato, e, con gli abiti intrisi d’acqua, compie assistenza per tutta la notte non curandosi affatto di sé ma di Gesù, presente "nelle membra inferme" di quella persona malata. Spesso, dopo una intera notte di servizio, faceva seguire anche il giorno senza prendere cibo. Talvolta assalita da un sonno terribile, mentre prestava assistenza, arrivò a mettersi il tabacco negli occhi; tale rimedio le procurava una sofferenza grave, ma efficace per tenerla sveglia e non privare le inferme del suo aiuto e conforto. Talvolta, nel cuore della notte, era inseguita da ignoti male intenzionati; donna forte e coraggiosa non si faceva intimidire da nessuno; ella aveva in cuore una fiamma che non poteva spegnere: servire e curare Gesù stesso nascosto nel volto dei malati e sofferenti. La ricchezza delle sue doti umane e spirituali, tra cui intelligenza, creatività, coraggio e intraprendenza, non sfuggirono all’attenzione del Vescovo e del clero della sua città. Essi infatti le affidarono il compito di stabilire in Lucca un Monastero della Visitazione per l’educazione della gioventù. Maria Domenica, docile alla voce dei pastori e sensibile alle istanze della Chiesa, accettò l’impegno con generosità e determinazione. Il suo zelo per la gloria di Dio, la rendeva capace di affrontare ogni difficoltà. Dopo circa sei anni intensi di lavoro e di tribolazioni, ella riuscì nell’intento di dare alla città di Lucca il monastero desiderato, ancor oggi esistente e ricco di vitalità spirituale e apostolica. Compiuta l’opera della Visitazione, emerge chiara, prorompente in Maria Domenica la vocazione profetica: fondare una Congregazione religiosa di Sorelle Oblate Infermiere per servire Cristo nelle membra doloranti dei malati e sofferenti, a tempo pieno e per tutta la vita. Il 23 gennaio 1829 Maria Domenica dà inizio alla prima comunità delle Sorelle Oblate Infermiere. Povere e con poca salute, ma ricche di zelo e di amore per Cristo, la Fondatrice e le prime sorelle compirono prodigi di carità al capezzale delle inferme e morenti, nelle abitazioni povere, dove giacevano sole e abbandonate anche le moribonde. La testimonianza di evangelica carità della Fondatrice e delle figlie, indusse mons. Domenico Stefanelli, Arcivescovo di Lucca, ad approvare le Regole e l’Istituto di Maria Domenica; ciò avvenne il 5 agosto 1841. Nella sua lunga vita, Maria Domenica cercò unicamente "la volontà di Dio e la sua maggior gloria". Nel suo cammino di configurazione a Cristo, assaporò l’amarezza della calunnia, che accolse: "pregando, perdonando, e amando i suoi persecutori". Dedicò tempo e fatiche alla formazione spirituale e carismatica delle figlie. Morì in Lucca il 22 maggio 1868, lasciando l’Istituto piccolo nel numero, ma forte nello spirito, generoso nel servizio ai malati. Il 17 maggio 1995 Giovanni Paolo II ha proclamato solennemente "Beata" Maria Domenica Brun Barbantini, indicandola al mondo quale testimone autentica "di un amore evangelico concreto per gli ultimi, gli emarginati, i piagati; un amore fatto di gesti di attenzione, di cristiana consolazione, di generosa dedizione e di instancabile vicinanza nei confronti degli ammalati e dei sofferenti"
Pensieri (Le Ministre degli Infermi) "serviranno Nostro Signore Gesù Cristo nelle persone delle inferme con generosità e purità d’intenzione, pronte sempre ad esporre la propria vita per amore di Cristo morto sopra una croce per noi". "Visitare, assistere e servire il Dio umanato agonizzante nell’orto o spirante sulla croce nelle persone delle inferme povere e moribonde"… E tutto ciò "con un cuore tutto avvampante della carità di Cristo". Preghiera O Dio, nostro Padre, che nella beata Maria Domenica ci hai offerto la viva testimonianza di una donna in continua ricerca della tua volontà, interamente consacrata a diffondere nel mondo la tenerezza della tua misericordia verso i malati e i sofferenti, per la sua intercessione concedi a me e ai miei cari la salute del corpo e dello spirito e la grazia che ti chiedo…
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30 Maggio 2024-: Santa Dinfna (VII secolo)-: Santa Dinfna (VII secolo)30 Maggio 2024 - Santa Dinfna Dinfna era figlia del re irlandese Damon, pagano del VII secolo, e della sua ignota consorte, cristiana. In seguito alla morte prematura della moglie, il sovrano mostra segni di squilibrio sempre più gravi, fino ad avanzare mire incestuose sulla stessa figlia, all’epoca adolescente. Dinfna, battezzata in segreto mentre la madre era ancora in vita, confida le proprie inquietudini al confessore, Gerebernus, che decide di allontanarla dal padre, agevolandone la fuga dall’Irlanda verso le coste dell’attuale Belgio. È a Geel, nei pressi di Anversa, che i due vengono raggiunti dal sovrano irlandese. Il primo a farne le spese è il sacerdote, al quale presto si aggiunge Dinfna, che muore vergine e martire, colpita da una violenza che secoli dopo, in circostanze così diverse eppure così simili, avrebbe ucciso Maria Goretti. Ancora oggi i dintorni di Geel conservano il ricordo della sepoltura di Dinfna e Gerebernus, in semplici sarcofaghi bianchi di epoca preromanica, oltre a quelle che si dicono essere le reliquie della giovane santa, mentre i resti del sacerdote sarebbero conservati a Xanten, in Germania. Nel Medio Evo, a causa dei frequenti pellegrinaggi, si formò a Geel una numerosa comunità di malati di mente tanto che, per accoglierli, nel 1286 venne costruita una casa. Dato però il loro numero sempre crescente, le autorità ecclesiastiche si rivolsero direttamente ai cittadini della città, chiedendo di condividere i loro sforzi e di aiutarli nel gestire i malati. Essi quindi venivano accolti e assistiti presso le famiglie del luogo: in termini moderni i malati venivano deistituzionalizzati partecipando alla vita sociale del paese. Questa sorta di anticipazione delle moderne “case famiglia”, costituì un fatto importante per la storia delle terapie e della carità cristiana nei loro confronti. Qui nel IX secolo venne fondato un vero e proprio istituto psichiatrico e ancora oggi a Geel si praticano cure avanzate, ad esempio occupando i pazienti con attività lavorative durante il giorno. E ancora oggi molte famiglie della località hanno l'abitudine di accogliere un malato nella propria casa, come fosse un figlio in più, un parente o un amico.
Preghiera O Dio, che hai dato Santa Dinfna alla tua Chiesa come modello perfetto di virtù e hai consentito che la tua creatura sigillasse gli insegnamenti del Vangelo col suo sangue innocente e con numerosi miracoli perché fosse diffusa la fede in te, per intercessione di Santa Dinfna concedimi la grazia che ti chiedo (…): liberàti dal male e vinte le avversità, fortificàti nella fede ad imitazione delle sue virtù, dona a tutti i de - voti di Santa Dinfna di ottenere una nuova vita dalla tua bontà infinita. Per Cristo nostro Signore. Amen |
31 Maggio 2024 | 1 Giugno 2024 | 2 Giugno 2024 |