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29 Aprile 2024 |
30 Aprile 2024-: San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)-: San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)30 Aprile 2024 - San Giuseppe Cottolengo Giuseppe Benedetto nasce a Bra nel 1886 e fatica a realizzare la sua vocazione per tutte le limitazioni che Napoleone impone in quegli anni ai seminari e agli istituti religiosi, ma fa in tempo ad essere ordinato prete alla soglia dei suoi 25 anni. Lo mandano viceparroco a Corneliano d’Alba e qui stupisce tutti perché prega, lavora, veglia i malati di notte, si dedica ai poveri con una generosità tale che ci rimette di salute e mamma è talmente preoccupata da convincerlo e riprendere gli studi ed a pensare un po’ di più a se stesso. Don Giuseppe ubbidisce fin troppo: torna a Torino, riprende i libri in mano, si laurea in teologia e diventa un canonico dotto, stimato e ricercato da molta gente come predicatore e confessore. Non si dimentica dei poveri, svolge addirittura una qualche attività sociale a favore dei più bisognosi, ma fondamentalmente resta un prete ben “sistemato”, con una bella camera, uno stipendio più che buono e la prospettiva di una carriera brillante. Tutto questo però gli lascia l’amaro in bocca, reso inquieto, incerto, talvolta scostante e burbero, spesso anche triste e taciturno: un prete insoddisfatto, insomma, che è quanto di meno ci si possa augurare, soprattutto se si considera che ad andare in crisi esistenziale non è un seminarista o un giovane prete, bensì un uomo di 42 anni. Che ha sì, come egli stesso scrive a mamma, «la faccia rotonda qual luna piena», il che sarebbe indice di buona salute, ma l’animo cupo di chi si accorge di non aver ancora fatto nulla di buono nella vita, tanto che il superiore gli ordina di leggere la vita di San Vincenzo de’ Paoli perché almeno abbia un argomento su cui discutere con i confratelli a tavola. La svolta (o «la grazia della Madonna», come la chiama lui) arriva il 2 settembre 1827, quando la misericordia irrompe nella sua vita in modo tragico e imprevedibile. In quella notte accorre, chiamato per gli ultimi sacramenti, accanto al pagliericcio di un dormitorio pubblico, su cui agonizza Giovanna Gonnet, una giovane francese, mamma di tre figli e in avanzato stato di gravidanza, non ricoverata negli ospedali torinesi perché incinta, rifiutata dal reparto di maternità perché tubercolotica. La vicenda si chiude nel modo più tragico, con una bimba nata prematura che vive poche ore appena, seguita subito nella tomba dalla mamma, uccisa dalla tubercolosi. Impietrito e sconvolto, domandandosi perché proprio a lui sia toccato essere testimone di una simile tragedia, improvvisamente si accorge che la misericordia ha fatto irruzione nella sua vita, sconvolgendola e rivoluzionandola in pieno. Per questo accende tutte le candele dell’altare, fa suonare le campane e intona le litanie lauretane: da quel giorno non sarà più il prete che fa anche «qualcosa per i poveri», perché la Madonna gli ha fatto la grazia di trasformarlo nel «prete dei poveri», che saranno i suoi veri «signori e padroni». D’ora in poi, tutta l’attività del Canonico, repentinamente convertito alla causa dei poveri, si svolge all’insegna del paolino «Caritas Christi urget nos!», motto che ci siamo abituati a veder inciso a caratteri cubitali, anche dalle nostre parti, ovunque sono state chiamate ad operare le suore del Cottolengo, quasi a esplicitare, se mai ce ne fosse bisogno, la forza motrice, che da quel momento letteralmente lo spinge. Talmente “spinto” da non poter perdere tempo: il 17 gennaio 1828, cioè appena pochi mesi dopo lo sconvolgente dramma vissuto il precedente 2 settembre, già prende in affitto alcune stanze nella casa detta della “Volta Rossa”, al civico 19 di Via Palazzo di Città, in pieno centro urbano, per farne il “Deposito de’ poveri infermi del Corpus Domini”. È costretto a vendere tutto, anche il mantello, per far fronte alle prime spese per i ricoverati, che non si fanno attendere, visto che in quella stessa giornata le porte già si aprono per accogliere i primi due, Giuseppe Dana e Margherita Andrà; di lei si sa che è completamente paralitica e senza parenti, abbandonata a se stessa. Fin dal primo giorno si delineano così le caratteristiche della nuova istituzione, nata per rispondere alle esigenze di chi non ha veramente nulla, neppure i parenti, e che nessuno vuole ricoverare, in quanto incurabile. Perché a Torino non mancherebbero le istituzioni di assistenza e beneficenza; sono piuttosto le rigidissime regole interne ad impedire di fatto che ne usufruiscano i più bisognosi, il più delle volte ad esclusivo carico di famiglie magari già ridotte in stato di indigenza o, peggio ancora, completamente abbandonati a se stessi. Ed è principalmente di questi che vuole farsi carico il Cottolengo, e con un tale ardore e così tanta abnegazione da incontrare fin da subito l’opposizione ed i contrasti dei parenti e dei confratelli, con l’unica eccezione del suo diretto superiore, che gli fa da sponda, raccomandando a tutti di «lasciarlo fare». A dar sollievo a chi lamenta che quella strada e quella casa sono ormai diventati ricettacolo di ogni umana miseria, arriva il colera, con la chiusura dell’ospedaletto per paura del contagio. Non conoscerebbe a fondo il Cottolengo chi pensasse che possa bastare un’epidemia per farlo desistere; da buon braidese esperto di orticoltura, sa benissimo che «i cavoli trapiantati riescono meglio» e con questa speranza in cuore, ad aprile 1832, “trapianta” la sua neonata creatura in zona Valdocco, Borgo Dora: non più semplice “ospedaletto” di emergenza sanitaria, ma vera e propria “Casa”, intitolata a chi di quella struttura è la vera unica proprietaria, cioè la Divina Provvidenza. Per non far torto alla quale non vuole saperne di contabilità o di rendiconti, profondamente convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede”. Lo sperimenta tutti i giorni, toccando con mano fin dove sa arrivare il buon Dio, con un‘eleganza ed una tempestività che ha dello strepitoso e che in pratica equivale al sigillo celeste sull’intera istituzione. In base alle esigenze che di volta in volta gli si appalesano, nascono numerosi gruppi che denomina “famiglie”: l’ospedale per i malati, la casa per uomini e donne anziani, le famiglie dei sordomuti, degli epilettici, dei disabili psichici detti “Buoni Figli” e “Buone Figlie”, dove l’aggettivo “buono” sembra aggiunto apposta per esplicitare la tenerezza di Dio nei confronti dei più poveri tra i poveri e che il Cottolengo si sforza di tradurre in gesti concreti di carità. Fior fior di medici e farmacisti, tra cui anche il farmacista regio, si alternano a volontari, professionisti, muratori e benefattori che mettono a servizio della Provvidenza e dei poveri le proprie capacità e il proprio tempo. Fioriscono come dal nulla le Suore Vincenzine, poi le Suore della Divina Pastora, a seguire le Carmelitane Scalze, le Suore del Suffragio e le Suore Penitenti; sul versante maschile, i Fratelli di San Vincenzo e i Sacerdoti della SS. Trinità. Non male per un prete che, appena qualche anno prima, tirava stancamente la sua vocazione, senza slancio e senza entusiasmo. Il “manovale della Provvidenza” muore a Chieri il 30 aprile 1842, a 56 anni, più di 40 dei quali vissuti nel più assoluto anonimato e solo gli ultimi 14 all’insegna della misericordia, che lo aveva tuttavia spinto a scelte concrete e a volte scomode per i poveri, come ad esempio quella di far fare anticamera al vescovo di Vercelli per terminare una partita di bocce con un ricoverato: perché l’amore e la tenerezza sanno dare anche queste precedenze.
Pensiero
Se noi siamo rassegnati solo quando Iddio ci manda consolazioni e piaceri, credete pure, ci facciam pochi meriti, e non ci faremo mai santi: è necessario che ci mandi tribolazioni per provargli che siamo veramente figli della Divina Provvidenza; quantunque non avessimo di che nutrirci, di che vestirci, non dovremmo mai far questo torto al Signore con diffidare di lui, o mostrarcene tristi e malinconici. Via, siamo sempre allegri in Domino, egli pensa a noi più di quanto noi pensiamo a lui; e fa tutte le cose infinitamente meglio di quanto possiamo pensarle noi. |
1 Maggio 2024-: San Pellegrino Laziosi (1265-1345)-: San Pellegrino Laziosi (1265-1345)1 Maggio 2024 - San Pellegrino Laziosi Pellegrino nacque a Forlì intorno al 1265, dalla nobile famiglia dei Laziosi. C’è un episodio controverso dei vari agiografi, ed è quello in cui Forlì si trovò avvolta in tumulti popolari, avvenuti per l’interdetto ricevuto da papa Martino IV Il Priore Generale dei Servi di Maria, s. Filippo Benizi, che trovavasi in visita al convento di Forlì, fu percosso e scacciato dalla città, perché esortava i forlivesi a ritornare sotto l’ubbidienza al Pontefice, tra i ribelli c’era pure Pellegrino diciottenne. Nei vari racconti e citazioni susseguitesi nei secoli si narra che s. Filippo fu percosso con uno schiaffo da Pellegrino. Sui 30 anni (tra il 1290 e il 1295) entrò nell’Ordine dei Servi di Maria, ma non come sacerdote, per come sia avvenuta questa conversione non ci sono notizie certe, sembra che lo stesso s. Filippo gli abbia concesso l’abito. Contrariamente a quanto prescrivevano le regole antiche il noviziato fu fatto a Siena e non a Forlì. Trascorso il noviziato, dopo i 30 anni fu rimandato alla città natale dove rimase fino alla morte. Si distinse nell’osservanza della Regola e si dice che si prestava ad atti di profonda penitenza fra i quali prediligeva quello di stare in piedi senza sedersi, esercizio penitenziale che mantenne per trent’anni. Ma giunto sui sessant’anni, quella penitenza gli procurò una piaga alla gamba destra, causata da vene varicose. La malattia raggiunse un grado di gravità tale che i medici dell’epoca ritennero necessaria l’amputazione della gamba. Durante la notte precedente all’operazione, Pellegrino si alzò e a stenti raggiunse la sala capitolare e davanti all’immagine del crocefisso, pregò con fervore per ottenere la guarigione. Assopitasi sugli scanni, in sogno vide Gesù che sceso dalla Croce lo liberava dal male. Quindi risvegliatosi se ne tornò in cella, dove il mattino seguente il medico venuto per l’amputazione poté constatare l’avvenuta e totale guarigione. Il suo culto si è esteso in Italia e nel mondo al seguito dell’espandersi dell’Ordine dei Servi. Il 15 aprile 1609 papa Paolo V autorizzava con il titolo di beato un culto che da tempo immemorabile gli era già tributato e il 27 dicembre 1726 veniva proclamato santo da papa Benedetto XIII. È compatrono della città di Forlì, invocato come protettore contro le malattie cancerogene. È quasi sempre raffigurato sorretto dagli angeli, mentre Gesù scende dalla Croce per guarirlo.
-: San Riccardo Pampuri (1897-1930)-: San Riccardo Pampuri (1897-1930)1 Maggio 2024 - San Riccardo Pampuri Erminio Filippo Pampuri nasce il 2 agosto 1897 a Trivolzio (Pavia) da Innocenzo e Angela Campari. Decimo di undici figli, diventa orfano di madre a tre anni, per cui viene accolto dagli zii materni a Torrino, frazione di Trivolzio. Nel 1907 gli muore a Milano il padre. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di medicina nell'Università di Pavia, dove partecipa al Circolo Cattolico Severino Boezio e si laurea con il massimo dei voti il 6 luglio 1921. A 24 anni è medico “condotto” di Morimondo (Milano). Spesso non accetta nulla come onorario, anzi, porta ancora lui i medicinali e il denaro necessario alle famiglie più povere. Al mattino, dopo la Messa, fa ambulatorio in casa, poi riprende le visite. Porta con sé la corona del Rosario e prega la Madonna di sostenerlo e di illuminarlo. Erminio è tra i militari del servizio sanitario. Fin dalla chiamata alle armi, si prodiga con dedizione tra i soldati e feriti al fronte, rischiando sovente la pelle. Si racconta infatti che, conducendo un carro tirato da una coppia di buoi, per ventiquattro ore sotto la pioggia battente, pone in salvo il materiale sanitario precipitosamente abbandonato. Appena congedato, al termine della guerra, riprende gli studi di medicina e per l’impresa compiuta, viene decorato con medaglia di bronzo. Il 21 ottobre 1927 entra a Brescia nel noviziato dei Fatebenefratelli e vi emette la professione religiosa il 24 ottobre 1928: riceve l’umile saio di “fratello” e prende il nome di fra’ Riccardo. Gli viene affidato il gabinetto dentistico. Purtroppo nella primavera del 1929 la salute del “dottorino” peggiora per la tubercolosi. Il 18 aprile 1930 è trasferito nell'Ospedale del Fatebenefratelli di Milano, dove muore il 1 maggio, a soli 33 anni. Proclamato beato da Giovanni Paolo II il 4 ottobre 1981, è canonizzato il 1 novembre 1989. Nelle diocesi di Brescia e di Pavia la sua memoria si celebra il 16 maggio. Dall’Omelia per l’inizio dell’Anno Giubilare San Riccardo Pampuri pronunciata da S. Ecc. Mons. Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia (1 maggio 2019) «[…] San Riccardo: svolgendo con passione e attenzione la sua professione medica, non si è limitato a curare e guarire i suoi malati, o a dare qualche aiuto e sostegno per le situazioni di maggiore povertà, ma ha agito «nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno», ha reso presente con il suo modo di essere e di stare accanto alle persone la tenerezza e la forza di Gesù il Nazareno, colui che «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38), il vero buon Samaritano che si muove a compassione davanti all’uomo quasi senza vita, non passa oltre sulla strada, si china sull’umanità ferita e dolorante, si prende cura di noi, versando sulle piaghe dell’esistenza «l’olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio comune VIII, Gesù buon samaritano). Tanto che chi veniva a contatto con San Riccardo, chi incrociava la sua figura e la sua umanità vibrante e discreta, era provocato, quasi “costretto” a pensare a Gesù, ad accorgersi della verità e della realtà presente del Signore, nel volto e nell’esistenza di quest’uomo buono, saggio, lieto. La testimonianza del dottorino di Morimondo, divenuto poi fra Riccardo, è per tutti noi un dono da riscoprire, da custodire».
Preghiera Signore Gesù, che vi compiaceste di esaltare gli umili, di rivelarvi ai puri e di darvi in premio ai misericordiosi, concedetemi la grazia... che fiducioso vi chiedo per intercessione di San Riccardo Pampuri, esempio luminoso di umiltà, di purezza e di misericordia, a vostra maggior gloria e a salute dell’anima mia.
Preghiera per un ammalato San Riccardo, medico dei corpi e delle anime, prega per noi il Signore Gesù affinché questo nostro fratello ..... ammalato possa, riacquistare il vigore del corpo ed ottenere serenità dello spirito, pazienza nel dolore e, dopo una felice convalescenza, ritornare insieme con tutti noi a lodare il nome del Signore.
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2 Maggio 2024 | 3 Maggio 2024 |
4 Maggio 2024-: Beato Luc, Monaco (1914-1996)-: Beato Luc, Monaco (1914-1996)4 Maggio 2024 - Beato Luc, Monaco Paul Dochier nacque a Bourg-de-Péage, nella regione francese della Drôme, il 31 gennaio 1914. A diciassette anni perse il fratello maggiore, André, malato di tubercolosi. Fu probabilmente questo a condurlo alla scelta di diventare medico. Iniziò la pratica ospedaliera nel 1934 e, quattro anni dopo, l’internato presso la facoltà di Medicina nell’università di Lione. Grazie a un collega, cominciò a frequentare l’abbazia trappista di Aiguebelle. Nel 1937, durante un soggiorno in quel luogo, si sentì profondamente sconvolto nel suo intimo: da allora, cominciò ad alternare le proprie giornate tra l’ospedale e l’abbazia. L’abate gli chiese di terminare gli studi, prima di entrare definitivamente. A confermarlo nella vocazione fu l’incontro con Marthe Robin (Venerabile dal 2014). Concluse l’università, ma poté discutere la tesi solo nel 1940, perché intanto aveva iniziato il servizio militare. Fu inviato inizialmente a Casablanca, ma chiese di essere trasferito a Goulimine, un importante centro carovaniero nel sud del Marocco. Rimase lì per due anni, anche dopo aver ottenuto la licenza di esercitare la medicina, tanto era rimasto colpito dalla povertà delle popolazioni del luogo. Poco dopo la morte della madre, il 7 dicembre 1941, Paul entrò nell’abbazia di Aiguebelle. Scelse volutamente di essere fratello converso, ossia lo stato di vita monastica che poteva permettergli un servizio più umile. In onore di san Luca, l’evangelista che la tradizione vuole fosse anche medico, assunse il nome di fratel Luc. Cominciò quindi il suo cammino ordinario, tra la lavanderia e la cucina dell’abbazia. Non molto tempo dopo, però, venne a sapere che un suo ex collega, padre di quattro figli, era prigioniero di guerra a Wupperthal, nell’Alta Renania tedesca. Nell’aprile 1943, quindi, partì per sostituirlo. Lo scambio fu accettato: da allora, fratel Luc cominciò a curare i feriti del campo di prigionia, specie quelli di nazionalità russa, i più abbandonati di tutti. Tornò ad Aiguebelle solo dopo la fine della guerra, nel 1945. Emise la professione semplice l’anno dopo, nella festa dell’Assunzione. Quindi partì per il monastero di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine, in Algeria, insieme ad altri cinque monaci. Il 15 agosto 1949 professò i voti perpetui, primo tra i fratelli conversi. Sin dal suo arrivo, fratel Luc fu incaricato del dispensario collegato al monastero. Quando iniziò la guerra per l’indipendenza dell’Algeria, ebbe il permesso di curare i malati sia nel dispensario, sia a domicilio, dato che le comunicazioni con la città erano diventate difficili per la gente di montagna. Il suo servizio gli valse il rispetto di tutti gli abitanti, che, secondo le categorie di pensiero musulmane, lo consideravano un uomo di Dio. Di fatto, anche in mezzo alle visite e alle incombenze, restava in atteggiamento orante. Nel luglio 1959, nel pieno della guerra, fratel Luc e un altro monaco furono rapiti dai nazionalisti armati. Vennero rilasciati dopo dieci giorni, solo perché uno dei rapitori riconobbe il primo come il medico che aveva curato alcuni suoi vicini. Fratel Luc ne uscì gravemente compromesso in salute. Venne quindi mandato in Francia per un periodo di riposo, nel monastero di Nostra Signora delle Nevi nell’Ardèche, proprio mentre la comunità di Tibhirine rischiava la chiusura. Nella nuova destinazione fu aperto un ambulatorio apposta per lui, ma desiderava ugualmente tornare in Algeria. L’appello venne accolto: nel 1965 fratel Luc poté rientrare a Tibhirine. Ricominciò i suoi compiti umili, a cominciare da quello di cuciniere-capo. Continuò anche a curare i malati, senza preoccuparsi di ciò che, apparentemente, li rendeva diversi da lui. Per loro mendicava sussidi e aiuti spirituali, curandosi poco di se stesso. La vita di preghiera dei monaci venne turbata quando le notizie di aggressioni e uccisioni cominciarono a moltiplicarsi. Il 14 dicembre 1993, a Tamesguida, vennero sgozzati dodici croati cristiani. I monaci li conoscevano perché venivano da loro a celebrare la Pasqua. L’accaduto seguiva di due settimane l’ultimatum lanciato dal Gruppo Islamico Armato (GIA), che aveva preso il potere: tutti gli stranieri dovevano lasciare l’Algeria, pena la morte. La notte del 24 dicembre 1993, alcuni uomini armati si presentarono alla porta del monastero e domandarono di vedere il superiore. Fratel Paul Favre-Mirille, che aveva aperto, andò a cercare padre Christian, il quale parlò col capo del gruppetto, Sayah Attiyah. Le condizioni da lui poste, ovvero che i monaci dessero loro dei soldi, che il loro medico, ovvero fratel Luc, venisse a curare i loro malati e che dessero anche delle medicine, non vennero accettate tutte dal priore, che comunque riferì che avrebbero potuto venire al dispensario del monastero. Fece poi notare all’uomo che stavano per celebrare la nascita del Principe della Pace, ovvero il Natale di Gesù. Gli armati si allontanarono, dopo aver chiesto una parola d’ordine e aver minacciato di tornare. I monaci erano salvi, ma non al sicuro. Si sentivano come presi tra due fuochi: da una parte quelli che chiamavano “fratelli della montagna”, ovvero gli islamisti, e i “fratelli della pianura”, ovvero i militari e le forze di sicurezza dell’esercito algerino. Fratel Luc non si sottrasse a curare i “fratelli della montagna” come gli era stato richiesto, gratuitamente come sempre. Anche lui, come gli altri confratelli, partecipò al lungo discernimento che si concluse con la scelta di restare, per non abbandonare il popolo algerino. Intensificò la propria preparazione alla morte, ma senza paura. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, fratel Luc venne rapito insieme a sei monaci. Dopo un mese, un comunicato del Gruppo Islamico Armato (GIA) riferì che i rapiti erano ancora vivi, ma conteneva la minaccia di sgozzarli se non fossero stati liberati alcuni terroristi detenuti. Un ulteriore comunicato, il numero 44, datato 21 maggio, riferì che ai monaci era stata tagliata la gola. Il 30 maggio le loro spoglie vennero ritrovate sul ciglio della strada per Médéa. Si trattava, però, solo delle teste: i corpi rimasero introvabili. Il 26 gennaio 2018 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto relativo al martirio dei religiosi. La memoria liturgica di tutto il gruppo cade l’8 maggio.
Pensieri «Col suo saper fare, il cuciniere contribuisce a mantenere un buon clima nella vita comune». «Io sono come un viaggiatore che, con le mani vuote, attende il treno sulla banchina»; così si definiva «Credo che, nel contesto di un monastero posto al centro di una popolazione talmente povera, il gesto di occuparsi di chi è malato, di chi ha fame, di chi è senza vestiti sia un gesto evangelico ed ecclesiale che si inscrive nella tradizione monastica». «Poiché è l’incontro con Dio, la morte non può essere oggetto di terrore. La morte è Dio» «Bisogna risolutamente, e probabilmente ancora a lungo, non indietreggiare davanti allo sforzo eroico di un amore perseverante, disinteressato e soprannaturale» “Che cosa ci potrà mai capitare? Di andare verso il Signore e di immergersi nella sua tenerezza. Dio è misericordioso, è Colui che perdona. Non c’è vero amore a Dio senza accogliere senza riserve la morte… la morte è Dio!”
Preghiera Signore, nostro Padre, noi ti lodiamo per la passione, la morte e la risurrezione di tuo Figlio Gesù, lui, il martire per eccellenza da cui viene la nostra salvezza. Tu hai voluto far condividere il suo martirio ai nostri fratelli e sorelle della Chiesa Algerina: Henri e Paul-Helene, Caridad e Esther, Jean, Charles, Alain e Christian, Angele-Marie e Bibiane, Odette, Christian Luc, Christophe, Michel, Bruno, Celestin e Paul, e al tuo vescovo Pierre. Noi ti preghiamo Padre, perché per loro intercessione, si rafforzi il dialogo, il rispetto e l’amore tra i tuoi figli cristiani e musulmani. Benedici l’Algeria e il suo popolo E noi ti renderemo grazie nella pace. Padre, noi invochiamo i nostri fratelli martiri per… (esprimere la grazia richiesta) E tu Maria, che tutti loro hanno amato e che sei venerata nell’Islam, ascolta la nostra preghiera e intercedi per noi presso tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen
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5 Maggio 2024 |