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31 Maggio 2021 | 1 Giugno 2021 | 2 Giugno 2021 | 3 Giugno 2021 |
4 Giugno 2021-: San Filippo Smaldone (1265-1345)-: San Filippo Smaldone (1265-1345)4 Giugno 2021 - San Filippo Smaldone Nacque a Napoli, primo figlio di sette, da Antonio e Maria Concetta De Luca, una famiglia agiata nel quartiere di Borgo Loreto, nel 1848. Nel 1858 riceve la prima Comunione in anticipo alle consuetudini e dopo quattro la Cresima, dove avverte la vocazione al sacerdozio, grazie anche al nuovo modo di fare catechismo, più vicino al popolo, di sant'Alfonso Maria de' Liguori. Ma le trasformazioni politiche e sociali del tempo, gli impongono il seminariato da esterno dal 1863 al 1868. Si dedicò dunque agli studi di teologia e filosofia, non tralasciando di dedicarsi alla catechesi alle opere di carità ai poveri e bisognosi della sua città e l'assistenza ai sordomuti definiti dalla chiesa di allora infedeli e pagani. Purtroppo gli studi furono il suo cruccio, arma di denigrazione del nuovo clero napoletano, che lo giudicò scarsissimo di talento ed insufficiente a proseguire gli studi, costringendolo a scegliere di farsi incardinare in un'altra diocesi. Lui sceglie quella di Rossano Calabro dove grazie alla stima dell'Arcivescovo Pietro Cilento, per le sue alte doti di uomo di carità, viene consacrato sacerdote nel 1871, per poi essere reintegrato finalmente a Napoli nel 1876. Nel frattempo Filippo aveva acquisito una notevole conoscenza ed esperienza delle problematiche dei Sordomuti, grazie alla strenua collaborazione con don Lorenzo Apicella, direttore della Pia Casa per i sordomuti di Santa Maria ai Monti in Napoli, tant'è che dallo stesso Apicella fu incaricato di organizzare l'assistenza ai sordomuti nel napoletano, a Salerno, Sorrento, Ischia ed Amalfi. Nel 1880 fu inviato a Milano al Congresso Internazionale dei Maestri per Sordomuti, in qualità di esperto e nel 1882 fu nominato Direttore Spirituale dell'Istituto per non udenti di Molfetta. Nel 1884, a Napoli, scoppia un'epidemia di colera che fece migliaia di vittime tra le quali doveva esserci anche lo stesso Filippo Smaldone, che dopo aver prestato assistenza agli ammalati si ritrovò anch'egli contagiato, al punto tale che le persone più vicine, dandolo per spacciato, pubblicarono sui giornali un necrologio e fecero celebrare messe in suffragio. Per sua fortuna e grazie all'intercessione della Madonna di Pompei si salvò. In quell'anno, ancora convalescente dopo essere guarito dal colera, aveva definito le Regole per la nascente Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori, un progetto accarezzato lungamente e che vide finalmente muovere i primi passi nella primavera del 1885, quando insieme a don Luigi Apicella parti per Lecce a fondare il primo Istituto per Sordomuti. Il 27 gennaio 1895 Mons. Salvatore Luigi Zola approva le Regole e nel 1889 Apicella cede la casa di Lecce a Filippo che ne divenne direttore. Da quel momento l'impegno divenne sempre più grande, con la fondazione di nuove case per i sordomuti a Bari, Lecce sino ad arrivare a Roma e non ci si soffermava solo ai sordomuti, ma anche all'infanzia abbandonata ed alle bambine cieche, ai più bisognosi. Il suo impegno e la sua opera possono essere tranquillamente accostate a quelle di Luigi Orione e Luigi Guanella. La sua opera di sostegno ed educazione morale dei sordomuti gli valse, tra l'altro, la decorazione Croce pro Ecclesia et Pontefice e la nomina a canonico della Cattedrale di Lecce. Ammalato di diabete, morì il 4 giugno 1923 nella città salentina dove operò per gran parte della sua vita.
Frasi Celebri Ogni povero, che bussa alla nostra porta, deve trovare sicura rispondenza nel nostro cuore perché è Cristo che chiede e ha bisogno della nostra carità. Quanto più alto si vuol costruire l’edificio, tanto più profonde devono essere le fondamenta. Senza umiltà non vi è soda e duratura virtù. La purezza somiglia ad un fiore che, con un raggio troppo vivo di sole, si piega sullo stelo e muore. Preghiera Dio di ogni consolazione, che hai chiamato San Filippo Smaldone, sacerdote, ad essere padre e maestro dei sordi, concedi a noi, per sua intercessione, di dedicare la nostra vita al servizio del prossimo per essere da te benedetti nel regno dei cieli. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
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5 Giugno 2021 | 6 Giugno 2021 |
7 Giugno 2021 |
8 Giugno 2021-: Santa Maria Teresa Chiramel Mankidiyan (1876-1926)-: Santa Maria Teresa Chiramel Mankidiyan (1876-1926)8 Giugno 2021 - Santa Maria Teresa Chiramel Mankidiyan Thresia Chiramel Mandikiyan nacque a Putenchira, oggi nello Stato indiano del Kerala, il 26 aprile 1876. La sua famiglia, un tempo benestante, aveva perso tutti i propri averi per procurare la dote a sette sue zie. Suo padre, Thoma Chiramel Mankidiyan, aveva sposato in seconde nozze Thanda Mangali: da lei ebbe cinque figli. Thresia, che era la terzogenita, fu battezzata il 3 maggio 1876 nella chiesa parrocchiale di Putenchira: fu chiamata così in onore di santa Teresa d’Avila. Imparò ad amare il Signore grazie a sua madre, che le raccontava le storie della Bibbia e vari episodi delle vite dei Santi. Frequentò anche la scuola del villaggio, imparando a leggere e scrivere: era dotata di un ingegno vivace e di buona memoria. A tre anni, sentendo suonare la campana per l’Angelus, chiese alla madre perché bisognava farsi il segno della Croce e dire le Ave Maria. L’interrogava spesso anche sui misteri della Santissima Trinità, dell’Annunciazione e della Passione di Cristo, meditandoli a lungo dentro di sé. Cominciò anche a digiunare quattro volte a settimana e a pregare il Rosario varie volte al giorno. Se prima amava giocare con gli altri bambini e i fratelli, si distaccò da quei divertimenti per non dispiacere il Signore perdendo tempo. Al vederla dimagrire in modo impressionante per una bambina di otto anni, Thanda provò a scoraggiarla da quei digiuni e dalle veglie notturne. Thresia, però, voleva assomigliare sempre di più a Cristo sofferente e di nascosto regalava il proprio cibo. Circa due anni più tardi, fece voto privato di verginità. Thanda morì il 2 marzo 1888. Thresia, che aveva dodici anni, dovette interrompere le scuole elementari. Da allora scelse di avere come propria madre la Vergine Maria, disponendosi ad accettare dolori, sofferenze e prove con animo costantemente lieto. Nel 1891 pianificò di scappare di casa per condurre una vita di preghiera e penitenza sulle colline, ma non ci riuscì. Continuò a frequentare la sua parrocchia con tre amiche, Mariam Karumalikkal, Kochumariam Koonan e Thresia Koonan, dedicandosi tra l’altro alle pulizie e all’ornamento dell’altare. Le tre ragazze cominciarono anche a prestare cure ai malati e ai moribondi del villaggio, anche a quelli affetti da morbillo e lebbra, senza distinzione di casta. Si accostavano anche alle famiglie segnate dalla violenza, dall’alcol e dall’immoralità e si prendevano cura degli orfani. Questo fatto contribuiva alle incomprensioni nei loro confronti, perché andavano contro la morale corrente: per gli anziani del villaggio non era conveniente che delle ragazze uscissero di casa senza essere accompagnate da uomini. Thresia aveva posto il proprio apostolato sotto la protezione della Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, della quale affermava di avere visioni. Digiunava di frequente per la conversione dei peccatori, ma andava anche a trovarli, per esortarli alla conversione. Ebbe anche l’esperienza dei dolori della crocifissione e le stimmate, che teneva accuratamente nascoste. Allo stesso tempo, cominciò ad avere tentazioni contro la fede e la castità. Il parroco di Puthenchira, don Joseph Vithayathil, la prese sotto la propria guida spirituale dal 30 aprile 1902. Su ordine di Mar (il titolo per i vescovi di rito siro-malabarese, corrispondente al nostro “monsignore”) John Menachery, Vicario apostolico di Thrissur, la sottopose ripetutamente a esorcismi, dal 1902 al 1905; Thresia obbedì umilmente. Il padre spirituale le concesse di aggiungere, dall’8 dicembre 1904, il nome di Mariam, ovvero Maria, a quello che portava dalla nascita, in segno d’amore per la Madonna al comando della Beata Vergine Maria. La ragazza diceva che la stessa Vergine gliel’aveva comandato durante una visione. Il suo vescovo, preoccupato per i fenomeni singolari di cui continuava a essere oggetto, le comandò di entrare nella congregazione delle Francescane Clarisse, appena fondata, ma lei non pensava di essere chiamata a questo. Nel 1912 l’indirizzò al convento delle Carmelitane di Ollur. Le monache erano liete di accoglierla, ma lei sentiva che il suo stile di vita era diverso da quello delle monache e ne informò don Vithayathil. Anche gli abitanti di Putenchira, che apprezzava i suoi servizi, chiesero al vescovo di riaverla accanto a loro. Mar Menachery tenne conto di tutti questi fattori e le concesse, come sperava, di poter avere una casa dove condurre una vita ritirata in unione con Dio; a patto, però, che don Vithayathil contribuisse alla costruzione. Il 26 gennaio 1913, dunque, Mariam Thresia tornò a Putenchira. Come richiesto dal vescovo, don Vithayathil cominciò a far costruire la “Ekanthabhavan” (“Casa della Solitudine”) per lei. Il terreno fu donato da Maliekal Koonan Kunjuvaried Ittoop, ma il sacerdote avviò la costruzione a proprie spese. Quando l’edificio arrivò a livello dei plinti di fondazione, i fondi cominciarono a scarseggiare. Don Vithayathil fu consolato da Thresia, che gli assicurò che li avrebbe procurati mendicando. Così, anche se riluttante, accettò. La ragazza, insieme a una compagna, visitò alcuni villaggi vicini in cerca d’aiuto: così, nel giro di poco tempo, la Casa della Solitudine fu completata. Dato che il padre spirituale era malato, andò Thresia stessa, sempre con una compagna, a chiedere al vescovo di Thrissur la benedizione per l’edificio, ma non ricevette risposta positiva. Tornò delusa, ma gli rispose di essere pronta ad accettare la volontà di Dio. L’indomani, il 23 settembre 1913, il vescovo incaricò padre John Ukkan, il suo segretario, di portare la benedizione al posto suo. Mariam Thresia si trasferì nella Casa della Solitudine il 7 ottobre 1913. Durante il giorno, però, era affiancata dalle sue tre amiche Mariam, Kochumariam e Thresia. La seguivano sia nella preghiera, sia nelle attività apostoliche, che non avevano confini né di casta, né di religione. Durante la notte si alternavano per farle compagnia, ma dal gennaio 1914 cominciarono a fare vita comune in modo permanente. Il 13 maggio 1914, durante un colloquio con don Vithayathil, Mar Menachery l’informò che il giorno seguente sarebbe venuto di persona a benedire il convento. Il 14 maggio 1914, quindi, segnò la nascita della Congregazione della Sacra Famiglia. Le tre compagne vennero ammesse come postulanti, mentre Mariam Thresia professò i voti religiosi e fu nominata superiora; don Vithayathil divenne invece il loro cappellano. Il vescovo diede loro le Costituzioni adattandole da quelle delle Suore della Sacra Famiglia di Bordeaux, che avevano una casa a Ceylon (l’odierno Sri Lanka). Madre Mariam Thresia, in dodici anni e durante la prima guerra mondiale, fondò tre nuovi conventi, due scuole, due convitti, una casa di studio e un orfanotrofio. Formò con grande cura le novizie, delle quali fu anche maestra. Il giorno della benedizione del convento e della cappella a Thumbur, sei postulanti presero il velo e sette novizie ricevettero l’abito religioso. La folla che accorse fu tale che parte dell’edificio crollò: una ringhiera cadde addosso a madre Mariam Thresia, che stava pregando, ferendola a una gamba. Noncurante di quanto le era accaduto, continuò il proprio compito di maestra delle novizie, passando il tempo con loro e organizzando la partenza di alcune per la casa di Thrissur, fissata per il giorno seguente. Quando però il dolore e il rigonfiamento sulla gamba si fecero più intensi, venne portata all’Ospedale Governativo di Chalakudy. Il medico suggerì di ricoverarla, ma lei inizialmente si oppose: alla fine accettò e venne condotta lì su un carretto. Poiché la piaga non guariva, anche perché lei era malata di diabete, venne operata e tenuta in osservazione in un edificio adiacente all’ospedale, di proprietà diocesana. Le sue condizioni, tuttavia, si aggravavano sempre di più, fino a essere dichiarate fatali. A quel punto, il 7 giugno 1926, madre Mariam Thresia venne portata a Kuzhikkattussery, dove don Vithayathil le impartì l’Unzione degli Infermi e le diede la Comunione in forma di Viatico. Il giorno dopo si sentì molto meglio, seppur debole. Il padre spirituale, le suore e gli abitanti dei villaggi vicini circondarono il suo letto, commossi e in preghiera. Madre Mariam Thresia li ringraziò e chiese loro perdono di tutto. Poi, alle suore, disse: «Mie amate figlie, perché i vostri cuori sono turbati come quelli di gente di poca fede? Sapete proprio come me che io non guarirò da questa malattia. Se è volontà dello Sposo divino che io vi lasci presto in risposta al Suo invito, sia adempiuto. La nostra congregazione è ancora bambina. Non dovreste dimenticare che nutrirla e allevarla è vostra responsabilità come membri di questa congregazione. Trattate i superiori sinceramente e amorevolmente. Amatevi le une le altre, aiutatevi le une le altre». Dopo questi consigli, chiamò don Vithayathil e gli affidò la completa responsabilità della congregazione e dei suoi membri. Col passare delle ore, le sue condizioni divennero sempre più critiche. Dietro sua richiesta, venne stesa a terra su una stuoia, mentre le suore le si inginocchiavano attorno e il padre spirituale le suggeriva delle giaculatorie, che lei ripeteva restando lucida e calma. Spirò alle 20 dell’8 giugno, ripetendo la giaculatoria «Gesù, Giuseppe e Maria, vi affido il corpo e l’anima mia». Durante la notte, nel giardino della casa, fiorirono improvvisamente dei gelsomini, benché non fosse stagione. Con gli stessi fiori furono adornate la bara e la salma, a cui molti accostarono i propri rosari o altri oggetti di devozione, persuasi com’erano che fosse appena morta una santa.
Preghiera
Beata Maria Teresa Chiramel, serva di coloro che spesso sono dimenticati e lasciati indietro nella vita, ricordaci che servire è una grazia, e indicaci sempre il Sacramento della Carità, dove Dio si fa vicino perché anche noi ci facciamo prossimi ai fratelli, nella gioia. Aiutaci a vivere di fede come la Sacra Famiglia di Nazaret e ottienici di celebrare e testimoniare con il cuore e le opere una fede viva e sincera nel Signore Gesù. Amen.
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9 Giugno 2021 | 10 Giugno 2021 | 11 Giugno 2021 |
12 Giugno 2021-: Servo di Dio Nicola D'Onofrio (1897-1930)-: Servo di Dio Nicola D'Onofrio (1897-1930)12 Giugno 2021 - Servo di Dio Nicola D'Onofrio Fin da bambino vuole essere Camilliano: un po’ perché al suo paese (che dista meno di dieci chilometri da Bucchianico, dov’è nato San Camillo) se ne respira l’aria, un po’ anche perché ne sente il fascino tramite un suo giovane compaesano appena ordinato. Sono quelli di casa a mettersi di traverso: mamma, perché ancora accetterebbe un figlio prete, ma religioso proprio no; papà, perché deve rinunciare a due braccia robuste che potrebbero aiutarlo nel lavoro dei campi; le zie, che sono pronte a dichiararlo loro unico erede se rinuncia ad entrare in seminario. La spunta lui, dopo un anno di lotte, di preghiera e di sacrifici che irrobustiscono la sua vocazione. Nicola d’Onofrio, nato a Villamagna (provincia di Chieti) nel 1943, entra così nel seminario dei Camilliani di Roma nel 1955, dimostrando subito una vocazione che via via si fa più sicura e solida e un’attitudine particolare nella cura dei malati, che è poi il carisma specifico della congregazione: ai tre tradizionali voti comuni a tutti i religiosi, aggiungono infatti quello specifico di servizio agli ammalati e sofferenti, “sempre, anche con rischio della vita”. Un piccolo diario spirituale, che il tempo ha risparmiato, ci delinea il suo cammino gioioso e insieme faticoso verso Dio, facendo emergere la fisionomia pulita ed affascinante di un giovane, che a prezzo di sacrifici e di lotte è riuscito ad arrivare ad una straordinaria intimità con Gesù, legandosi alla Madonna con un affetto delicato e filiale. Ai nuovi tentativi di papà di ancora riportarselo a casa reagisce con rispettosa fermezza, a dimostrazione di una vocazione ormai definita e che sfocia il 7 ottobre 1961 nell’offerta dei voti temporanei. Già fiero dell’abito che porta, contraddistinto dalla tradizionale croce rossa propria del suo Ordine, Nicolino è adesso anche gioioso di appartenere a pieno titolo alla famiglia camilliana. Sua maestra spirituale è la Santa di Lisieux, la piccola Teresa, che gli traccia un cammino di santità semplice e gioiosa, che Nicolino percorre con entusiasmo, suscitando l’ammirazione di superiori e confratelli. Le prime avvisaglie del suo male si manifestano sul finire del 1962, ma ci vogliono sei mesi prima che si formuli la diagnosi di teratosarcoma. Subisce l’intervento chirurgico, si sottopone alla cobaltoterapia, affronta cure dolorose in assoluta docilità e obbedienza ai superiori, pur nella convinzione, se dipendesse solo da lui, che “se è la Madonna che mi chiama, io sono felice di partire…”. Sempre per obbedienza va pellegrino a Lourdes ed a Lisieux, per chiedere il miracolo come vogliono i superiori, avvertendo però che “non chiederò la guarigione, ma che io possa compiere in pieno la volontà di Dio”. Ed è proprio questa la grazia che ottiene, tornando a casa con un polmone ormai intaccato dalle metastasi del cancro che sta demolendo tutto il suo fisico. L’unico dispiacere è di non poter raggiungere il sacerdozio ed il veder così spegnersi le sue tante speranze di servire i fratelli, ma tutto offre perché quella sua sofferenza possa raggiungere chi è lontano da Dio, chi ha bisogno di aiuto spirituale. Il 10 maggio 1964, in anticipo rispetto ai tempi canonici e perciò con dispensa della Santa Sede, emette i voti perpetui: è ormai completamente debilitato, costretto in carrozzella e smagrito da far paura. Si spegne un mese dopo, il 12 giugno, lucido e orante fino alla fine, soffrendo atrocemente. È Venerabile.
Pensieri "Tutto qui si fa per Gesù, per suo amore. Nessuno mi chiede cose eccezionali, come dormire per terra, digiunare. Io faccio solo quello che devo fare – per amore – come S. Teresina, che non ha fatto nulla di particolare; a 24 anni è morta di TBC ed è diventata santa" “Gesù, se un giorno dovrò buttare come tanti l’Abito santo, fa che io muoia prima di riceverlo per la prima volta; non ho paura di morire ora, sono in Grazia tua. Che soave cosa poterti venire a vedere insieme alla Tua e mia mamma: Maria!”. “Il demonio si vince stando vicino a Gesù e a Maria coi sacramenti e con la preghiera”. “Se è la Madonna che mi chiama, io sono felice di partire”. “Voglio morire presto, se a Dio piace, per volare tra le braccia della mia Mamma. Voglio andare a riposarmi in Paradiso. Sì…Mammina dolce…Ecco che pian piano il sereno torna nel mio animo e posso mirare più lontano...tutto per voi Gesù, Maria!”.
Preghiera Dio, buono e misericordioso, che hai chiamato il tuo Servo Nicola D'Onofrio alla sequela di Gesù per offrire la ricchezza della sua giovane mente e dell'ardente cuore al servizio del Figlio tuo nella persona dei malati, glorifica il tuo fedele Servo e fa' che i giovani di oggi riconoscano in lui un modello di vita nella via dell'amore e del sacrificio per portare le anime a Te che con il Figlio e lo Spirito Santo vivi e regni nei cuori dei tuoi figli. Amen |
13 Giugno 2021-: Chiara Corbella Petrillo (1984-2012)-: Chiara Corbella Petrillo (1984-2012)13 Giugno 2021 - Chiara Corbella Petrillo Chiara Corbella nasce a Roma il 9 gennaio 1984. Insieme alla sorella Elisa, di due anni più grande, cresce in una famiglia che le insegna ad avvicinarsi alla fede sin da bambina. Grazie alla mamma Maria Anselma, dall’età di cinque anni Chiara frequenta una comunità del Rinnovamento nello Spirito. Questo percorso, in cui impara a rivolgersi a Gesù come ad un amico, le insegna soprattutto a condividere la fede con i fratelli in cammino. Col passare degli anni emerge in lei una certa autonomia che la rende molto determinata nelle sue scelte. Il suo è un temperamento tranquillo, non ribelle, che ha modo di esprimersi nel servizio agli altri. Nell’estate del 2002 Chiara si trova in vacanza in Croazia con alcune compagne di liceo. Visto che sua sorella è a Medjugorje (in Bosnia ed Erzegovina), pensa di raggiungerla approfittando della vicinanza. Qui il 2 agosto incontra Enrico Petrillo, un ragazzo romano di ventitré anni in pellegrinaggio con la sua comunità di preghiera del Rinnovamento Carismatico. Chiara, che ha diciotto anni e non è mai stata fidanzata, ha l’intuizione di trovarsi davanti a suo marito. Tornati a Roma i due si frequentano, si conoscono, si fidanzano. È un rapporto per certi versi ordinario, puntellato da litigi, rotture e pacificazioni. Durante i sei anni del loro fidanzamento il Signore mette a dura prova la fede di Chiara e i valori in cui pensa di credere. Tanto che parlerà di questo come del periodo più difficile da lei affrontato, più duro anche della malattia. «Dopo 4 anni il nostro fidanzamento ha cominciato a barcollare fino a che non ci siamo lasciati – ha scritto Chiara nei suoi appunti – In quei momenti di sofferenza e di ribellione verso il Signore, perché ritenevo non ascoltasse le mie preghiere partecipai ad un Corso Vocazionale ad Assisi e li ritrovai la forza di credere in Lui, provai di nuovo a frequentare Enrico e cominciammo a farci seguire da un padre spirituale, ma il fidanzamento non ha funzionato fin tanto che non ho capito che il Signore non mi stava togliendo niente ma mi stava donando tutto e che solo Lui sapeva con chi io dovevo condividere la mia vita e che forse io ancora non ci avevo capito niente!». Superate le paure, Chiara ed Enrico si sposano ad Assisi il 21 settembre 2008. A celebrare le nozze è padre Vito, frate minore e guida spirituale di entrambi. Tornati dal viaggio di nozze, Chiara scopre di essere incinta. Le ecografie mostrano però una grave malformazione. Alla bambina, cui verrà dato il nome di Maria Grazia Letizia, viene diagnosticata un’anencefalia. Chiara ed Enrico scelgono di portare avanti la gravidanza e la piccola, che nasce il 10 giugno 2009, muore dopo poco più di mezz’ora. Il funerale, qualche giorno dopo, viene vissuto con la stessa pace che ha accompagnato i mesi di attesa per la nascita e che contagia anche molti dei presenti, ai quali viene data la grazia di sperimentare un pezzo di vita eterna. Qualche mese dopo Chiara è nuovamente incinta. A questo bambino, cui verrà dato il nome di Davide Giovanni, viene però diagnosticata una grave malformazione viscerale alle pelvi con assenza degli arti inferiori. Anche lui morirà poco dopo essere nato, il 24 giugno 2010. E anche il suo funerale sarà vissuto come una festa. «Nel matrimonio – scrive Chiara nei suoi appunti – il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni, ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente». Fra le patologie dei due bambini non c’è legame. A dimostrarlo ci sono gli esiti dei test genetici, a cui Chiara ed Enrico si sottopongono cedendo alle pressioni di amici e parenti; ma c’è, soprattutto, il fatto che il terzo figlio della coppia, Francesco, è completamente sano. La gravidanza arriva poco dopo la nascita al Cielo di Davide Giovanni. Una settimana dopo aver scoperto di essere incinta, Chiara si accorge però di una lesione alla lingua. Col fondato sospetto che si tratti di un tumore, il 16 marzo 2011 Chiara affronta durante la gravidanza la prima delle due fasi di un intervento per asportare la massa sulla lingua. Per la seconda fase, occorrerà aspettare che Francesco sia nato. Accertato che si tratta di un carcinoma alla lingua, che chiamerà il drago, Chiara sceglie di rimandare le cure per non far male al bambino che porta in grembo. Anzi, sceglie da che medici farsi seguire in base al tempo che le concedono prima di indurre il parto. Aspetta fin quando le è possibile aspettare, e anche oltre. «Per la maggior parte dei medici – scrive Chiara – Francesco era solo un feto di sette mesi. E quella che doveva essere salvata ero io. Ma io non avevo nessuna intenzione di mettere a rischio la vita di Francesco per delle statistiche per niente certe che mi volevano dimostrare che dovevo far nascere mio figlio prematuro per potermi operare». Francesco Petrillo nasce il 30 maggio 2011. Finalmente il 3 giugno, con lo stesso ricovero del parto, Chiara affronta la seconda fase dell’intervento iniziato a marzo. Tornata casa, non appena le è possibile comincia chemioterapia e radioterapia ma il tumore si estenderà comunque a linfonodi, polmoni, fegato e persino l’occhio destro, che Chiara coprirà con una benda per limitare le difficoltà visive. La foto di Chiara sorridente con la benda è straordinaria se si considera che è stata scattata nell’aprile del 2012: da poco più di dieci giorni ha scoperto di essere una malata terminale. Nelle settimane che seguono, trascorse insieme a suo marito in disparte e lontano dalla città, nella casa di famiglia vicino al mare, Chiara si prepara all’incontro con lo Sposo. Sostenuti dai sacramenti amministrati quotidianamente da padre Vito, che condivide con loro questo tempo intenso, Chiara ed Enrico sono più che mai forti della fedeltà di Dio, che li ha sempre accompagnati in una misteriosa letizia. Chiara muore a mezzogiorno del 13 giugno 2012, dopo aver salutato tutti, parenti ed amici, uno a uno. Dopo aver detto a tutti Ti voglio bene. Il suo funerale viene celebrato a Roma il 16 giugno 2012 nella chiesa di Santa Francesca Romana all’Ardeatino. Le persone accorse sono moltissime. Il cardinale Agostino Vallini, presente alla celebrazione, dichiara: «ciò che Dio ha preparato attraverso di lei, è qualcosa che non possiamo perdere». Come i funerali dei suoi due figli, anche questa celebrazione diventa così la testimonianza cristiana dell’inizio di una vita nuova.
Pensieri “Per quel poco che ho capito in questi anni, posso solo dirti che l’amore è il centro della nostra vita, perché nasciamo da un atto di amore, viviamo per amare e per essere amati e moriamo per conoscere l’amore vero di Dio. Lo scopo della nostra vita è amare ed essere sempre pronti ad imparare ad amare gli altri, come solo Dio può insegnarti. L’amore ti consuma, ma è bello morire consumati, proprio come una candela che si spegne solo quando ha raggiunto il suo scopo.” (dalla lettera di Chiara a suo figlio Francesco, di un anno)
Preghiera Dio infinitamente buono, che nella tua grande misericordia hai scelto Chiara come tua figlia prediletta e con sapienza l’hai guidata sulla via del Vangelo, insegnandole, attraverso Maria, a custodire tuo Figlio con amore appassionato e a seguirlo quale sposa e madre con fiducia incrollabile sulla via della croce, fa’ che la luce del Vangelo di Cristo, che risplende in Chiara, riaccenda la certezza della vita eterna nell’anima dei nostri fratelli. Per sua intercessione concedici la grazia che ti chiediamo e, se è tua volontà, fa’ che Chiara sia proclamata beata, per il bene nostro e la gloria del tuo Nome. Per Cristo nostro Signore. Amen
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14 Giugno 2021 |
15 Giugno 2021-: Beato Luigi Palazzolo (1827-1869)-: Beato Luigi Palazzolo (1827-1869)15 Giugno 2021 - Beato Luigi Palazzolo Luigi Maria Palazzolo nacque il 10 dicembre 1827 a Bergamo. L’8 agosto 1837 Luigi rimase orfano di padre. Ricevette dalla madre, molto religiosa al pari del marito, un’educazione improntata alla carità verso i poveri e gli ammalati. Un giorno, tornando da scuola, Luigi svenne e fu portato in un caffè perché si riprendesse, ma non aveva i soldi per il pagamento: li aveva dati tutti a un mendicante. Ebbe la fortuna di avere un ottimo Direttore spirituale nella persona di don Pietro Sironi, il quale, insieme a don Alessandro Valsecchi, lo indirizzò al Sacerdozio. Fu ordinato Sacerdote il 23 giugno 1850. Nella Diocesi in quel tempo i Sacerdoti erano molti e don Luigi poté facilmente scegliere il contesto in cui esplicare il suo servizio sacerdotale: tra i più poveri, nel rione più povero della sua Parrocchia di nascita, Sant’Alessandro in Colonna. Nel 1855 fu nominato Rettore della vicina chiesa di San Bernardino, diventando un abile organizzatore del tempo libero dei suoi ragazzi: inventò canovacci di commedie coi burattini e si dimostrò particolarmente abile nel manovrare e dar voce al “Gioppino”, personaggio simpatico e tipica maschera bergamasca. Istituì anche delle scuole serali per giovani e adulti, sul modello di quelle già esistenti in città: l’opera educativa e la formazione religiosa da lui offerte furono tanto efficaci che una quarantina di giovani dell’Oratorio scelsero di diventare Sacerdoti. Consigliato in seguito da Monsignor Valsecchi, vinse la propria riservatezza nei confronti delle donne, estendendo il suo apostolato anche alle ragazze, iniziando ad ascoltare le loro confessioni nella chiesa di San Bernardino. Gradualmente prese coscienza che, come aveva contribuito all’educazione dei ragazzi, così doveva occuparsi anche delle bambine e ragazze abbandonate. Fu favorito in ciò quando gli venne proposto di iniziare nel quartiere la Pia Opera di Santa Dorotea, in quegli anni avviata in gran parte del Nord d’Italia dai fratelli don Marco e don Luca Passi (quest’ultimo beato dal 2013). Il giorno dell’Epifania del 1864 l’iniziativa era già funzionante e fu completata dalla fondazione di un Oratorio femminile nella vecchia casa di via della Foppa. Pensò che fosse necessaria una comunità femminile, che si prendesse cura in modo costante delle ragazze. Individuò in Teresa Gabrieli la persona che cercava. Maestra diplomata, pur di umili origini, era stata eletta da poco Vice-superiora della Pia Opera di Santa Dorotea; stava inoltre meditando di entrare in una Congregazione religiosa. Don Luigi parlò, oltre che con la diretta interessata, con il suo Direttore spirituale don Alessandro Alessandri, ed in breve tempo giunse ad ottenere il consenso di entrambi. Teresa, in compagnia di due compagne, trascorse la notte tra il 21 e il 22 maggio 1869 vegliando e pregando. Alle 3 di notte don Luigi celebrò la Messa e al termine si recarono tutti nella casetta di via della Foppa: dinanzi ad un quadro dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, Teresa pronunciò i tre voti religiosi, cui aggiunse altre due promesse speciali: quella di fedeltà al Papa (erano gli anni della “questione romana”) e di incondizionata dedizione ai poveri, specialmente tra la gioventù. Fu l’inizio della comunità delle Dorotee, poi chiamate «Benedette Figlie e Madri delle Poverelle», nome ben presto semplificato in «Suore delle Poverelle». Significative le parole usate da don Luigi per caratterizzarle: «Le Suore delle Poverelle siano persuase che per questa vita dovranno avvolgersi continuamente tra i poveri, adoperarsi per i poveri, amare i poveri. Ogni Suora delle Poverelle preghi Dio che le conceda spirito di madre verso i poveri». Don Luigi aveva un fisico esile, che gli valse il soprannome di “Palazzolino”. A una corporatura magra faceva da contraltare un carattere tenace, capace di piegarsi solo quando era necessario chiedere personalmente l’elemosina per i suoi ragazzi e poveri. Spesso si sottoponeva ad aspre penitenze corporali, come il digiuno a pane e acqua. Il 15 giugno don Luigi morì. Fu proprio Papa Giovanni XXIII, bergamasco e suo devoto, a beatificare don Luigi, il 19 marzo 1963, nella basilica di San Pietro a Roma.
Pensieri «Ho sentito desiderio di non allontanarmi più dall’amorosissimo Iddio. In questo giorno ho celebrato la Santa Messa, vorrei sperare con devozione. Non so se nella Santa Messa o nella meditazione prima, mi si presentò alla mente che Gesù morì ignudo sulla croce, e perciò sentii desiderio di povertà, di abbandonare tutto». (6 luglio 1869) «Io cerco e raccolgo il rifiuto degli altri, perché dove altri provvede lo fa assai meglio di quello che faccio io, ma dove altri non può giungere cerco di fare qualcosa io come posso». «Non dobbiamo aspettare gli gnocchi dalla luna». «S. Ignazio ci insegna a fare di tutto noi per riparare le traversie come se toccasse solo a noi fare tutto, e poi, quando abbiamo fatto tutto quello che possiamo, aspettare da Dio tutto, come se non avessimo fatto niente e solo a Lui spettasse il cavarci da ogni angustia, come è di fatto. In breve fare tutto ciò che possiamo dal canto nostro, e poi confidare tutto in Dio».
Preghiera Dona anche a noi, o Padre, l’ardente amore per il Cristo Crocifisso che infiammò il beato Luigi Maria Palazzolo, perché sappiamo riconoscere e servire il tuo Figlio nei fratelli abbandonati e sofferenti. Per Cristo nostro Signore
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16 Giugno 2021-: Beata M. Teresa Scherer (1825-1888)-: Beata M. Teresa Scherer (1825-1888)16 Giugno 2021 - Beata M. Teresa Scherer Maria Teresa Scherer, figlia di Carlo e Maria Sigrist agricoltori, nacque il 31 ottobre 1825 a Meggen nel Cantone di Lucerna in Svizzera. A sette anni rimase orfana di padre per cui fu accudita fino ai sedici anni da altri parenti. Il suo naturale ingegno fece sì che fosse inviata a studiare a Lucerna presso alcune suore dedite alla cura degli ammalati ricoverati nel nosocomio della città. Qui dovette farsi forza per superare l’innata ripugnanza che provava al contatto degli ammalati specie non autosufficienti. Ma i disegni di Dio sono imperscrutabili. Durante un pellegrinaggio al santuario di Einsiedeln sentì in sé la chiamata alla vita religiosa e poi ebbe l’incontro decisivo, il 5 ottobre 1844 con il cappuccino Teodosio Fiorentini, fondatore della Congregazione delle Suore della Carità della S. Croce di Ingenbohl, a cui aderì con l’intento di affiancarlo nell’opera. È considerata cofondatrice. Il 27 ottobre 1845 nella cappella del convento di Wurmsbach presso Zurigo, Caterina Scherer pronuncia i voti insieme ad altre quattro prime compagne della nuova Congregazione, prendendo il nome di suor Maria Teresa. Il 5 febbraio 1855 avvenne l’improvvisa morte del fondatore padre Teodosio Fiorentini e, quindi, tutte le responsabilità e preoccupazioni che la fondazione richiedeva, si concentrarono su di lei. La sua grande vitalità procurò fama e importanza alla congregazione che fu presto conosciuta anche fuori dalla Svizzera.Sorsero opere sociali e assistenziali in tutta Europa. Alla sua morte avvenuta ad Ingenbohl il 16 giugno 1888, le case erano 422 con più di 1500 suore; la sua tomba posta nella chiesa della casa madre è meta di continue peregrinazioni con attestati di grazie ricevute per sua intercessione. È stata beatificata da papa Giovanni Paolo II il 29 ottobre 1995.
Pensieri «Con Dio e per Dio si può molto!» «Non bisogna perdersi di coraggio, ma guardare a Colui dal quale viene ogni forza.» «Aver pazienza, perseverare, pregare e confidare in Dio.» «Saper scoprire quel grammo d'oro che è nascosto in ogni persona.»
Preghiera Signore Gesù, che hai manifestato la tua sapienza nella stoltezza della croce e hai rivelato l'immensità del tuo amore nel mistero della redenzione, ti ringraziamo per aver colmato, con la ricchezza dei doni del tuo Spirito, il cuore della Beata Madre Maria Teresa Scherer. Ti chiediamo di vivere alla luce dei suoi esempi e dei suoi insegnamenti. Per sua intercessione mostra, Padre, il Tuo volto misericordioso a tutti coloro che si rivolgono a lei in qualsiasi necessità. Amen
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17 Giugno 2021 | 18 Giugno 2021 | 19 Giugno 2021 | 20 Giugno 2021 |
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28 Giugno 2021-: Santa Vincenza Gerosa (1784-1847)-: Santa Vincenza Gerosa (1784-1847)28 Giugno 2021 - Santa Vincenza Gerosa Caterina (nome di battesimo) nacque a Lovere, terra bergamasca soggetta alla Repubblica di Venezia. Era l’impresa commerciale che faceva dei Gerosa una casata benestante. Riservata e timida, trascorse alcuni anni della sua infanzia al banco della bottega familiare, poiché non poté studiare, per la salute cagionevole. Già in questo tempo, la sua modestia le faceva vivere una spiritualità semplice e ordinaria, fatta dell'ascolto quotidiano della Messa. La sua vita è costellata di progetti che poi le circostanze continuamente stravolgono. Era contenta di starsene nel negozio di famiglia, ma l’azienda va in crisi sotto il ciclone napoleonico, mentre Lovere passa dal dominio veneziano a quello francese, nella Repubblica Cisalpina. Caduto Napoleone, e passato il Bergamasco sotto l’Impero degli Asburgo, Caterina si dedica all’insegnamento gratuito per le ragazze povere, ad attività di assistenza e di formazione religiosa, incoraggiata dalle sue guide spirituali. Nel 1824 fa amicizia con una maestra, anch’essa di Lovere: Bartolomea Capitanio, di 17 anni. L’incontro la spinge in un’avventura nuova: creare un ospedale. Loro due. E ci riescono, inaugurandolo un paio di anni dopo. L’ha reso possibile lei, con beni ereditari del casato dei Gerosa. Ma per un’attività stabile occorre personale votato e preparato all’assistenza. E la maestrina Capitanio ha un suo progetto chiaro che condivide con Caterina: fondare un apposito istituto religioso, con questi obiettivi: assistenza ai malati, istruzione gratuita alle ragazze, orfanotrofi, assistenza alla gioventù. Bartolomea Capitanio muore il 26 luglio 1833, a 26 anni. Caterina Gerosa è sola, è poco istruita, si sente quasi vecchia. Ebbe la tentazione di tornare alla sua vita di casa, ma spronata dal suo padre spirituale, Angelo Bosio, acconsentì a continuare l'impresa. Accoglie le prime giovani e per sette anni la piccola comunità segue la regola delle suore di santa Maria Antida Thouret, finché nel 1840 arriva il riconoscimento pontificio, e prendono canonicamente vita le Suore di Maria Bambina, con le regole scritte da Bartolomea Capitanio e con la guida di Caterina Gerosa, che prende i voti assumendo il nome di suor Vincenza. Già nel 1842, sebbene siano ancora poche, le chiamano a Milano. Anzi, l’arcivescovo cardinale Gaysruk (alta aristocrazia austriaca) vorrebbe farne una sua istituzione diocesana. Ma suor Vincenza resiste a lui: a Lovere sono nate, e Lovere dev’essere la loro casa, con le loro regole. Quando muore- il 29 giugno 1847- le suore sono 171. L'Istituto ebbe la denominazione di Suore di Maria Bambina a Milano, in seguito al dono di un simulacro attraverso il quale si diffuse la devozione al mistero della natività di Maria. Sorto in risposta ai bisogni di un momento storico che annunciava profondi mutamenti sociali, economici, culturali, l'Istituto ha come carisma la partecipazione alla carità misericordiosa di Gesù Redentore: se ne fa segno aprendosi alla compassione per ogni miseria umana, servendo i fratelli nel loro bisogno. In forza delle scelte apostoliche delle sue origini, reinterpretate vitalmente, l'Istituto rivolge in modo particolare la sua missione ai giovani di qualunque condizione, preferendo tra essi i più poveri, gli abbandonati, i disorientati; ai malati, agli anziani, agli emarginati, a coloro che ancora non conoscono il Vangelo. Nell’Anno santo 1950, papa Pio XII ha canonizzato insieme Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa. La festa liturgica di santa Vincenza è il 28 giugno, mentre la Congregazione delle Suore di Maria Bambina e le diocesi di Brescia, Bergamo e Milano la ricordano il 18 maggio.
Pensieri “Chi sa il Crocifisso sa tutto” “Amatevi vicendevolmente e avrete la benedizione di Dio”
Preghiera Santa Vincenza, tu accogliesti in pura fede, nell’abbandono completo di te stessa al volere divino, la missione che ti ha congiunta a Bartolomea. Aiutaci a spogliare la nostra fede da ogni razionalismo così che riacquisti quell’intelligenza d’amore, quella forza di intuizione e di operosità, quel senso del divino che nascono da un cuore proiettato con fiducia nel mistero semplice e infinito di Dio. Accompagnaci nei momenti difficili, tu, la grande obbediente che Dio ha esaltato. Amen.
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29 Giugno 2021 | 30 Giugno 2021 | 1 Luglio 2021 | 2 Luglio 2021 |
3 Luglio 2021-: Serva di Dio Teresa Orsini (1788-1829)-: Serva di Dio Teresa Orsini (1788-1829)3 Luglio 2021 - Serva di Dio Teresa Orsini Perfetta nobildonna romana, bella, molto bella, corteggiata, stimata, ammirata, ricca, intelligente, s’intratteneva con principi e Pontefici… ma tutto questo non è stato sufficiente alla sua anima, alla sua sete di vivere un cristianesimo vero, intenso, intriso di carità. Visse per pochi, intensi anni, ma furono sufficienti per realizzare grandi progetti. L’antico regime che governava Gravina, nel 1816 dovette lasciare i poteri, in tal modo il duca di Gravina, don Filippo Bernardo II Orsini, rinunciò a tutti i diritti feudali in quella città. Orsini comunque rimase proprietario dei numerosi e vasti possedimenti privati con il privilegio di poter proseguire a fregiarsi del titolo ereditario di Duca di Gravina. È evidente che l’infanzia di Teresa, la quale respirò le incertezze e le paure di una nobiltà che si sentiva minacciata nelle sue secolari certezze - prestigio, ricchezza, potere e legame stretto con il trono e l’altare - venne attraversata da turbolenze e tensioni politiche che non potevano non lasciare traccia nella sua percettiva sensibilità e nella sua perspicace intelligenza. Nel 1735 Teresa con i suoi congiunti giunsero a Roma, dove il nome era ormai rispettato ed onorato grazie a papa Benedetto XIII della famiglia Orsini, la quale si installò nel rione Campitelli, fra i più antichi quartieri dell’urbe e ancora oggi è presente il palazzo Orsini nei pressi del teatro Marcello, palazzo che venne costruito con una parte del materiale ricavato dallo stesso teatro. Teresa rimase orfana di padre ad appena due anni. Lei era la primogenita e sua madre Faustina era in attesa del secondo figlio. Precocemente vedova, la madre di Teresa decise, con l’accordo degli altri parenti, di affidare la piccola alle cure delle suore del monastero della Sapienza di Napoli e a 12 anni Teresa venne trasferita a Roma per terminare il corso dei suoi studi prima dalle Orsoline, poi dalle Oblate della casa di Tor de’ Specchi. Non si conosce l’anno preciso nel quale Teresa raggiunse Napoli, forse verso i cinque anni o forse anche prima, sappiamo soltanto che a Napoli risiedeva la nonna materna. In Napoli ricevette, sotto la guida delle monache della Sapienza, il sacramento della cresima: era il 15 maggio 1801, probabilmente nella cappella dell’educandato. Da questi elementi biografici possiamo comprendere come l’infanzia della principessa Teresa sia stata parecchio solitaria, privata, come si è visto, della presenza del calore familiare e proprio per tale ragione sentiva prepotente dentro di sé il desiderio di donare amore Educata nei migliori collegi di Napoli e di Roma, Teresa Orsini (Gravina, 23 marzo 1788 – Roma, 3 luglio 1829) esce dal mondo dell’istruzione per accedere ad una nuova vita, quella matrimoniale. Sposa un discendente di una famiglia principesca, Luigi Giovanni Andrea V Doria Pamphilj Landi (1779-1829). Il matrimonio viene celebrato il 2 ottobre 1808. Due anni dopo nasce Andrea (13 dicembre 1810); nel 1811 Leopolda; nel 1813 Filippo e nel 1815 Domenico. Teresa rompe l’usanza dell’epoca di affidare la prole a balie di campagna. Desidera lei, in prima persona, crescere i propri figli. Non seppe mai «economizzare» la sua persona in nessun campo. Teresa Orsini Doria Pamphilj fu sposa e madre, donna di grande Fede, di grande coraggio e di sapiente forza. Così come si relazionava con aristocratici e alti prelati, si poneva in ascolto dei più sfortunati, dei bisognosi, dei diseredati e dei malati. Si è fatta piccola per stare in mezzo a loro. Teresa andava in cerca della sofferenza per tentare di soccorrerla e per tentare di risolvere, alla radice, i problemi della malasanità romana con metodi d’avanguardia e fondando una congregazione religiosa femminile, le Suore Ospedaliere della Misericordia, molte attive ancora oggi e in tutto il mondo. Una laica, dunque, che pensava ed agiva in nome dell’Amore a Cristo e per Cristo. Impegnata a tutto tondo nella famiglia e nel sociale con indicazioni che il Concilio Vaticano II pronuncerà più di un secolo dopo. Gran parte della popolazione malata di Roma la conosceva e vedeva quella bellissima e ricchissima signora chinarsi sulle piaghe per risanarle, porgere medicinali, medicare, lenire i dolori e non soltanto quelli fisici, ma anche quelli morali e spirituali. Il suo modo di porgersi era sempre dolce e materno e a tutti portava Gesù. Quando la principessa diede vita all’Unione delle Pie Donne (gli albori delle Suore Ospedaliere della Misericordia), proprio per entrare negli ospedali romani con metodi nuovi, personale formato, con scrupolo e coscienza professionale, lo fece ai piedi della Vergine Addolorata nella chiesa di san Marcello al Corso il 16 maggio 1821. Per questo motivo, alla sua morte, volle essere rivestita dell’abito nero della Madonna dell’Addolorata. Il suo era un attivismo sereno, ma senza respiro. Il suo respiro, rotto per il troppo affaticamento, per quel suo consumarsi letteralmente d’amore, si fermò all’età di soli 41 anni. Non a caso Teresa è stata definita «martire della carità». Fra i bisbigli e i sussurri che si alzarono al corteo funebre (tutta Roma, ricca e povera partecipò alle esequie di questa nobildonna considerata «Madre») qualcuno la paragonò a santa Francesca Romana, altri a sant’Angela Merici… Il 13 novembre 1998 il cardinale Camillo Ruini aprì il processo diocesano della Serva di Dio Teresa Orsini sposata Doria Pamphilj Landi e disse in quell’occasione: «Teresa poteva ben vantare l’avvenenza fisica. Ma una bellezza ancora più grande era quella che promanava dalle sue qualità morali» e, in una Roma carente di servizi sanitari e case di accoglienza per i più indigenti, la Serva di Dio «non esitò con il consenso del marito a mettere a disposizione i suoi beni. E pur nella dedizione ai più poveri, non trascurò la famiglia e l’educazione dei figlioli», ma «la carità e il servizio instancabile agli altri non potevano che minare la sua salute». |
4 Luglio 2021-: San Piergiorgio Frassati (1901-1925)-: San Piergiorgio Frassati (1901-1925)4 Luglio 2021 - San Piergiorgio Frassati L’ingegnere Pier Giorgio Frassati, la cui laurea post mortem è stata consegnata nel 2001, fu autodidatta della fede perché, pur crescendo in un ambiente avulso dalla presenza di Dio, sostanzialmente sterile e materialista, ha lasciato emergere nella luce la sua oceanica anima. Cresciuto in una famiglia alto borghese e poco unita, attenta più all’apparenza che all’essere, all’avere più che ai sentimenti, Pier Giorgio Frassati, che portò la tempesta nella sua casa (la santità è sempre “rivoluzionaria”), rappresenta il figlio dei nostri giorni: cresciuto nel benessere e nella superficiale attenzione ai valori della vita e ai principi evangelici. Invece di adeguarsi a quello stereotipo di esistenza sterile, lui si oppone e pur continuando, a differenza di un san Francesco d’Assisi, a vivere fra le pesanti mura domestiche, segue ugualmente un cammino di perfetta carità. La sua breve, ma intensa esistenza, fu la realizzazione, nel quotidiano, dello straordinario nell’ordinario. Ogni suo atto era svolto con la volontà del missionario, dell’evangelizzatore che grida con gioia al mondo il prodigio della salvezza e molti specchiandosi nel suo sorriso e nei suoi occhi scrutavano la propria anima, non a caso alcuni suoi cari amici scelsero la strada del sacerdozio. In occasione della sua beatificazione, avvenuta il 20 maggio 1990, il «Times» di Londra gli dedicò un articolo in prima pagina. Ma perché tanto interesse per questo ragazzo ricco, bello, intelligente, dalla vita normale, che non ha fondato né istituti, né scuole, né congregazioni religiose? Pier Giorgio nasce a Torino il 6 aprile 1901. Cresce in una città di inizio secolo piena di ricordi storici e sabaudi; da poco è stata defraudata del suo titolo di capitale, qualche torinese si è addirittura suicidato per questo, eppure è piena di vitalità, di voglia di produrre e di pensare: da un lato troviamo l’industria, in particolare quella automobilistica e dall’altro intellettuali che fanno della città un laboratorio di idee. Nel campo della moda Torino ha poco da invidiare a Parigi e i teatri di prosa e di varietà sono numerosissimi. La Chiesa locale vanta di fronte al mondo la sua santità sociale (Giuseppe Cafasso, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Francesco Faà di Bruno, i marchesi di Barolo…), ma possiede anche personalità del suo tempo cariche di energia evangelica come Giuseppe Allamano, fondatore delle Missioni della Consolata, Adolfo Barberis, fondatore del Famulato cristiano (per la moralizzazione del servizio domestico). In questa Torino dove santità, anticlericalismo e dure lotte operaie convivono, si trasferiscono dal biellese i coniugi Alfredo Frassati e Adelaide Ametis. Il padre di Pier Giorgio è proprietario del quotidiano «La Stampa», nonché stretto amico del primo ministro Giovanni Giolitti. Nel 1913 diventerà senatore e più tardi ambasciatore a Berlino. I gravosi impegni gli impediscono di seguire l’educazione di Pier Giorgio e di Luciana, nata nel 1902. Spetta alla madre l’educazione dei figli. Adelaide è pittrice, legata ai precetti religiosi, senza troppi approfondimenti spirituali. Pier Giorgio matura personalmente la sua sete di Dio e diventa autodidatta del Vangelo. Disse nel giorno della beatificazione Giovanni Paolo II, grande ammiratore di Pier Giorgio, che lo definì il ragazzo delle otto beatitudini: «Ad uno sguardo superficiale, lo stile di Pier Giorgio Frassati, un giovane moderno pieno di vita, non presenta granché di straordinario… In lui la fede e gli avvenimenti quotidiani si fondono armonicamente, tanto che l’adesione al Vangelo si traduce in attenzione ai poveri e ai bisognosi». L’entrata all’Istituto Sociale dei padri Gesuiti è un momento decisivo. Padre Lombardi gli consiglia la comunione quotidiana, con la grande disapprovazione materna, e d’ora in poi l’eucaristia sarà il centro della sua vita. A 17 anni entra a far parte della Conferenza di San Vincenzo, assumendo così un impegno costante di carità. «Lui, che era così allegrone, quando parlava di cose spirituali, diventava un altro. Tanto è vero che quando veniva in camera mia, era come se entrasse il sole!», racconterà più tardi padre Lombardi. In casa Pier Giorgio non viene compreso: non si capisce perché preferisca recitare il rosario quotidianamente in una casa dove non si prega, perché non ambisca ad occupare un posto di rilievo nella società come invece suo padre ha sempre fatto raggiungendo il successo. È il giovane che invece di studiare, come i suoi genitori vorrebbero per raggiungere presto la laurea in ingegneria, «bighellona» con gli amici della San Vincenzo, della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, nel convento dei padri domenicani, nelle sacrestie delle chiese per servire messa, «perdendo» continuamente tempo prezioso e invece di pensare ai doveri di un rampollo del suo rango si occupa di preghiere, di celebrazioni eucaristiche, di letture spirituali e come non bastasse alla legazione italiana di Berlino, dove suo padre è ambasciatore, ruba i fiori nelle sale di rappresentanza per portarli sulle tombe della povera gente. Scrive suo padre nel febbraio del 1922: «Agendo sempre senza riflessione nelle cose che per te dovrebbero essere importantissime (come, nel caso speciale, era il non dimenticare il libro che ti doveva servire per il prossimo esame) diventerai un uomo inutile agli altri e a te stesso». Destinato a ben altri orizzonti rispetto a quelli della scalata sociale, Pier Giorgio, «l’uomo inutile», ritagliava spazi di eternità. E ancora nel 1922 il beato legge duri biasimi paterni: «Bisogna che ti persuada, caro Giorgio, che la vita bisogna prenderla sul serio, e che così come tu fai, non va né per te, né per i tuoi, i quali ti vogliono bene e sono molto amareggiati per tutte queste cose che succedono troppo spesso e si ripetono sempre monotone e dolorose. Ho poca speranza che tu cambi, eppure sarebbe strettamente necessario cambiare subito: prendere le cose con metodo, pensare sempre con serietà a quello che devi fare, avere un po’di perseveranza. Non vivere alla giornata, senza pensiero come uno scervellato qualunque. Se vuoi un po’ di bene ai tuoi devi maturare. Io sono molto, ma molto di cattivo umore». Per un uomo d’azione e di pervicace pragmatismo come il senatore Frassati è incomprensibile un figlio come il suo, votato alla preghiera, alla trascendenza, alla lotta per le idee di giustizia in nome del Vangelo. Padre e figlio avevano vite completamente diverse, ma entrambe frenetiche, l’una indirizzata al lavoro e all’amministrazione del patrimonio familiare, l’altra per operare nel nome di Dio con amore e carità. Nel sangue scorreva sangue biellese e come il padre in Pier Giorgio spiccavano dignità, intraprendenza, coerenza, eticità, schiettezza, rettitudine, coerenza e caparbietà. Già negli anni della giovinezza Alfredo era attraversato da moti di inquietudine spirituale: continuamente spinto a nuovi traguardi di successo, ma costantemente insoddisfatto a causa di una fede soffocata che sarà liberata lentamente, con un personale e sorprendente avvicinamento agli uomini di Chiesa a partire dal 4 luglio 1925 con la tragica morte del figlio. Pier Giorgio s’innamora delle lettere di san Paolo, le legge e le rilegge anche per strada o sul tram e a 21 anni entra nel Terz’ordine di San Domenico. Un posto tutto particolare nella sua vita lo occupa l’amicizia. Negli anni del Politecnico (Ingegneria meccanica con specializzazione mineraria) dà vita ad un gruppo di ragazzi e ragazze che vivono con serenità e rispetto il valore dell’amicizia: «La Società dei tipi loschi». Ogni membro, «lestofanti» e «lestofantesse», prendono un nome, Pier Giorgio sceglie «Robespierre». Voglia di vivere e spirito goliardico aleggia fra gli amici di Frassati per poter «servire Dio in perfetta letizia». L’impegno sociale e politico, contro il Regime fascista, lo schiera tra le fila del Partito Popolare italiano, fondato da don Luigi Sturzo nel 1919. Il suo impegno politico e sociale fu una diretta conseguenza del suo modo di sentirsi cristiano: non gli era sufficiente aiutare i poveri, andare nelle loro misere soffitte, nei tuguri dove la malattia e la fame si confondevano nel dolore, non gli bastava portare ai diseredati una parola di conforto, carbone, viveri, medicinali e denari, voleva dare una soluzione a quei problemi di miseria e di abbandono e la politica gli parve la via idonea per fare pressione là dove si decideva la giustizia. Durissima fu la sua lotta contro il fascismo, una realtà che respirò anche a casa sua: il padre venne anche perseguitato per la battaglia, condotta sulle colonne del suo giornale, contro il Regime. Benché molto legato alla sorella Luciana, Pier Giorgio scelse tutt’altra strada: lei il mondo prestigioso e affascinante della diplomazia; lui i poveri e gli infelici. Luciana, l’unica persona di casa con la quale poteva confidarsi, scriverà anni dopo di aver difeso spesso il candore del fratello dalle incomprensioni del mondo e della sua stessa famiglia, dove il rapporto fra madre e padre si era andato frantumando di anno in anno fino a sgretolarsi. Le conferenze di San Vincenzo furono il massimo campo di azione per Pier Giorgio: fu in esse che poté esprimere concretamente la sua carità per i poveri, gli orfani, i senza lavoro, i senza tetto. A quel tempo molti ragazzi e ragazze si recavano nelle soffitte della Torino povera a portare la loro assistenza. Ciò che distingueva Pier Giorgio dagli altri era il modo e lo status a cui apparteneva: il figlio del senatore del Regno si abbassava ad avvicinare gli umili, gli ultimi e ciò si compiva non come atto paternalistico dall’alto in basso, ma per condivisione e partecipazione viva e attiva ai drammi del sociale. Sollecitava spesso i suoi compagni d’Università e dell’Azione Cattolica ad iscriversi alla San Vincenzo. Diceva loro: «La San Vincenzo è un’istituzione semplice adatta agli studenti perché non implica impegni, unico e solo quello di trovarsi un giorno della settimana in una determinata sede e poi visitare due o tre famiglie ogni settimana. Vedrete, vi richiederà poco tempo, eppure quanto bene possiamo fare a noi stessi… L’assistere quotidianamente alla fede con cui le famiglie spesso sopportano i più atroci dolori, il sacrificio perenne che essi fanno e che tutto questo fanno per l’Amore di Dio ci fa tante volte rivolgere questa domanda: “Io che ho avuto da Dio tante cose sono sempre rimasto così neghittoso, così cattivo, mentre loro, che non sono stati privilegiati come me, sono infinitamente migliori di me…”». Alcuni amici lo chiamavano «il facchino degli sfruttati» e certi inventarono per lui una sigla speciale: «FIT», «Frassati Impresa Trasporti». Nelle soffitte del centro, ma anche in povere case della periferia, portava infatti di tutto: generi alimentari, legna, carbone, vestiti, mobili… Amante della montagna, Pier Giorgio trova nell’alpinismo la manifestazione palpabile del suo cammino ascetico «verso l’alto», verso la fede più pura. Scriveva nel 1925 all’amico Bonini: «Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la Verità, non è vivere, ma vivacchiare». Crede nell’associazionismo cattolico e nel 1922 entra nell’Azione cattolica il cui motto è: preghiera, azione, sacrificio. Pur non ottenendo brillanti risultati universitari, Pier Giorgio è vicino al traguardo della laurea e con essa la realizzazione del suo grande desiderio: lavorare con i minatori per condividere il loro lavoro duro e pesante. Ma tutti i suoi sogni si frantumano uno ad uno. È confuso, soprattutto perché non comprende il disegno di Dio su di lui. Aveva pensato di farsi sacerdote, ma, oltre alla famiglia contraria a quell’idea «malsana», in Germania, quando di tanto in tanto raggiungeva il padre ambasciatore a Berlino (1921-1922), lui stesso era mutato perché aveva conosciuto il padre domenicano Karl Sonnenschein, chiamato il «san Francesco tedesco», pastore dei cattolici italiani residenti a Berlino e guida spirituale degli studenti. Il religioso, noto per la sua grande umiltà e grande carità, instaurò un ottimo rapporto di stima e simpatia con il giovane torinese, invitandolo a partecipare alle riunioni dei circoli misti, composti cioè sia da studenti sia da operai. Pier Giorgio avrebbe voluto imitare, in qualità di sacerdote, proprio padre Sonneschein, ma comprese che in Italia un apostolato sacerdotale di questo tipo non sarebbe stato accolto. Nell’ultimo anno della sua vita Pier Giorgio s’innamorò di una ragazza, Laura Hidalgo (1898-1976), rimasta orfana giovane, laureata in matematica e considerata da casa Frassati socialmente non all’altezza del nome di Pier Giorgio. Quell’esperienza segnò fortemente il beato, non chiamato al matrimonio, ma al laicato cristiano fra la gente e i poveri. «Sei un bigotto?», gli chiesero un giorno in Università, così come venivano scherniti i cattolici dai massonico-liberali, dai social-comunisti e dai fascisti. La sua risposta fu netta: «No. Sono rimasto cristiano». A giugno del 1925 il padre gli domanda di entrare ne «La Stampa» e dunque di rinunciare alle sue aspirazioni professionali, lavorare fra i minatori. Il senatore, che provava sempre una certa soggezione di fronte al figlio, non ebbe il coraggio di parlargli direttamente, così Alfredo Frassati chiese all’amico Giuseppe Cassone, cronista de La Stampa, di farlo al suo posto. Lo stesso Cassone testimonierà: «Un giorno che egli [Pier Giorgio] era venuto a trovarmi in ufficio colsi l’occasione. Gli parlai come si parla a un figlio assennato e caro. Mi ascoltò in silenzio puntandomi, scrutatori e sereni, quei suoi begli occhi di fanciullo, poi mi domandò: “Cassone, crede proprio che venendo io qui a La Stampa il babbo sarà contento?”. Dissi di sì. Egli non esitò più: “Dica al babbo che accetto”. Lo considerai un grande sacrificio per lui, e commosso, l’abbracciai». La sua proverbiale allegria lo abbandona nell’ultima parte della sua esistenza, quando appare quasi presago della fine prematura; anche il suo aspetto fisico muta e i lineamenti perdono i tratti adolescenziali. Viene meno dunque quel suo spirito perennemente sereno a motivo di una serie di condizionamenti che sembrano soffocarlo: l’amore per Laura Hidalgo, la volontà paterna di integrarlo nell’amministrazione de La Stampa, il timore dolorosissimo di una possibile separazione fra gli amati genitori, la cui convivenza è sempre più difficile. Un giorno, ad un amico che gli aveva domandato che cosa avrebbe voluto fare dopo gli studi, lui rispose: «Non lo so: sacerdote no, perché è una missione troppo grande e non ne sono degno; il matrimonio no. L’unica soluzione sarebbe quella che il Signore mi prendesse con sé». È tempo ormai «di raccogliere ciò che ho seminato». La morte lo rapisce, rapidissima. Viene colpito dalla poliomielite fulminante. Sei giorni appena per corrodere quel fisico sano e forte di 24 anni. E ancora una volta la famiglia non lo comprende: tutti sono attenti all’agonia dell’anziana nonna Ametis, non accorgendosi della gravità del suo male. Non un lamento uscirà dalla sua bocca, non una richiesta. «Il giorno della mia morte sarà il più bello della mia vita» aveva detto ad un amico. Quel giorno arrivò il 4 luglio 1925. Le grandi incomprensioni svaniscono: Alfredo Frassati è di fronte alla bara del figlio “ribelle”, alla quale rendono omaggio, con suo sconcerto, migliaia e migliaia di persone e di poveri della Torino semplice e umile. Tutti presenti non per i meriti del nome Frassati, ma per Pier Giorgio, solo per ciò che lui e lui solo ha rappresentato e qualcuno scoprirà dopo che quel giovane pronto a soccorrere tutti era il figlio del senatore e direttore de La Stampa. Proprio da qui Alfredo inizia a scoprire l’identità di Pier Giorgio, la sua grandezza umana e spirituale. E il lungo tempo della prova condurrà lui, non credente, alla conversione.
Pensieri “Sei un bigotto?”, gli chiesero un giorno in Università, così come venivano scherniti i cattolici dai massonico-liberali, dai social-comunisti e dai fascisti. La sua risposta fu netta: “No. Sono rimasto cristiano”. “Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà la forza sarò sempre allegro. Ogni cattolico non può non essere allegro; la tristezza deve essere bandita dagli animi dei cattolici”. |