Events in Aprile 2021
-
Serva di Dio Lorena D'Alessandro (1964-1981)
-
Serva di Dio Lorena D'Alessandro (1964-1981)
Serva di Dio Lorena D'Alessandro
“Non voglio fiori al mio funerale: i soldi che devono essere così inutilmente spesi siano inviati come aiuto alle missioni dei padri Benedettini Silvestrini. Non piangete, ma gioite per me, perché finalmente, se il Signore mi riterrà degna, potrò partecipare alla gioia eterna. Lascio i poveri del mondo, lascio chi soffre nello spirito e nel corpo, alle preghiere di tutti”.
Così aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale, l’estate prima della sua morte, Lorena D’Alessandro, una ragazza che nella sua infermità aveva saputo sorridere alla vita e infondere tanto coraggio a chi gli stava accanto, che aveva scoperto il vero senso della sofferenza e aveva visto nel volto crudele della morte, avvenuta nel 1981 a soli 16 anni, il volto di “sorella morte” che spalanca le porte dell’eternità.
Della giovane catechista romana l’8 aprile scorso, presso il Vicariato di Roma, si è chiusa la fase diocesana della causa di Beatificazione. La sua testimonianza, come quel giorno ha sottolineato egregiamente il Cardinale Vicario Camillo Ruini, “rappresenta quel sale della terra che potrà rendere meno insipida e insignificante la vita di tanti adolescenti che vivono nella nostra società in modo distaccato dai valori duraturi”.
Lorena aveva appena 16 anni quando è morta. Era il 3 aprile 1981. Quel giorno il “fiore della Rustica” chiudeva i propri occhi alla vita della terra per aprirli a quella del Cielo.
Una parabola umana, la sua, breve ma intensa. Nata il 20 novembre 1964, primogenita di tre figli, Lorena D’Alessandro aveva cominciato fin da piccola a frequentare la parrocchia intitolata alla Madonna di Czestochowa, tenuta dai padri Benedettini Silvestrini, alla periferia est della capitale, nel popolare quartiere della Rustica.
La sua esistenza viene subito attraversata dalle sofferenze fisiche: a soli 10 anni viene ricoverata al Policlinico Gemelli, dove subisce un trapianto osseo a causa di un tumore alla gamba sinistra. Due anni dopo, un altro intervento chirurgico per un sospetto rigetto del chiodo utilizzato nella precedente operazione. I medici si accorgono che il tumore si sta riformando e chiedono ai genitori di Lorena, Giovanni e Alba, di poterle amputare l’arto nel tentativo di salvarle la vita. I genitori scelgono la vita e Lorena perde una gamba, al suo posto avrà una protesi che porterà con molto coraggio ed una certa disinvoltura.
“Ti ringrazio, Signore, per tutto ciò che di bello e di buono mi hai dato in questo giorno...”, scrive Lorena nel suo diario. “Ho capito che la mia felicità è e sarà sempre nel servire la felicità degli altri; io potrò aiutare il mondo se agisco con amore, a forza di amore, a colpi di amore; sento fortissimo in me il desiderio di darmi agli altri; voglio bene a tutto il mondo. Sono tanto provata, ma ho Gesù con me e vicino a me, colui che non mi tradirà mai... perciò perché avere paura? Nel dolore ho capito che la cosa più importante è vivere l'amore, d'amore per il Signore e per i fratelli”.La ragazza ha accettato il proprio handicap, decidendo di aprirsi agli altri: nel 1979, impegnandosi in parrocchia come catechista, guida il suo primo gruppo di bambini.
Studentessa al liceo classico, Lorena ama suonare la chitarra e cantare nell'animazione della Messa; entra a far parte del gruppo parrocchiale del Rinnovamento nello Spirito Santo. I suoi amici la ricordano sempre impegnata, sensibile e pronta ad aiutare gli altri.
Nell'estate del 1980 Lorena va a Lourdes, insieme alla sua comunità, unendosi al pellegrinaggio organizzato dall'Opera Romana per i catechisti di Roma: “Nella sofferenza di tanti fratelli, ho incontrato la Madonna”, annota la ragazza. “Lourdes è una città stupenda e AMO MARIA, spero con tutta l'anima che lei possa essermi guida ed aiuto per tutto quest'anno, che spero di trascorrere per dare lode e gloria al Signore”.
Alla fine dell'anno la sua parrocchia ospita 150 giovani di Taizé; alla ragazza tedesca che dormirà nella sua casa Lorena scriverà: “I giorni vissuti con te sono stati tra i più belli della mia vita, perché mi avete aiutato a riscoprire la gioia di credere in Cristo”.
Poche settimane più tardi, nel gennaio 1981, le viene diagnosticato un tumore al polmone sinistro con metastasi diffuse, che la porterà alla morte in tre mesi appena. Ma il “fiore della Rustica” vive ancora.
Preghiera
Gesù, che con il dono del tuo Spirito hai plasmato il cuore e la mente di Lorena perché ti servisse con gioia e generosità nella sua breve esistenza terrena sulla via della croce nel sacrificio totale della sua giovinezza, ti preghiamo che sul suo esempio i giovani amino il dono della vita e sappiano costruire il terzo millennio cristiano alla luce del tuo vangelo.
Ti chiediamo di glorificare anche in terra la tua serva Lorena per la maggior gloria tua e il bene dell’umanità da te redenta, concedendoci le grazie che per sua intercessione ti domandiamo. Amen
-
Giornata mensile del Malato
-
Giornata mensile del Malato
-
San Giuseppe Moscati (1880-1927)
-
San Giuseppe Moscati (1880-1927)
San Giuseppe Moscati
Giuseppe Moscati fu uno dei medici più conosciuti della Napoli d’inizio Novecento. Per la sua capacità di coniugare scienza e fede, è riconosciuto come Santo dalla Chiesa cattolica a partire dal 1987. Ancora oggi riceve visite da persone di ogni parte del mondo, non solo per le infermità fisiche, ma anche per i mali che colpiscono l’animo degli uomini del nostro tempo. Contrariamente a quanto si possa credere, non nacque a Napoli, ma a Benevento, il 25 luglio 1890, da Francesco Moscati, magistrato, e Rosa de Luca; fu il settimo dei loro nove figli. Si trasferì nel capoluogo campano quando aveva quattro anni, dopo una breva permanenza ad Ancona, per via del lavoro del padre.
L’8 dicembre 1888 ricevette la Prima Comunione da monsignor Enrico Marano nella chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, fondate da santa Caterina Volpicelli. Studiò presso il liceo «Vittorio Emanuele»; dopo il conseguimento del diploma di maturità classica, nel 1897, iniziò gli studi universitari presso la facoltà di Medicina. Il motivo di quella scelta, di rottura rispetto alla tradizione familiare (oltre al padre, anche suo nonno paterno e due fratelli avevano studiato Giurisprudenza), è forse dovuto al fatto che, dalla finestra della nuova abitazione, poteva osservare l’Ospedale degli Incurabili, che suo padre gl’indicava suggerendogli sentimenti di pietà per i pazienti ricoverati. Il primo ammalato con cui ebbe a che fare suo fratello Alberto, il quale, caduto da cavallo, subì un trauma cranico, che gli produsse una forma di epilessia. Quest’evento persuase il giovane da una parte della brevità della vita umana, dall’altra di doversi dedicare interamente alla professione medica. Nel frattempo, il 2 marzo 1898, fu cresimato da monsignor Pasquale de Siena, vescovo ausiliare del cardinal Sanfelice, arcivescovo di Napoli.
All’epoca la facoltà di Medicina, insieme a quella di Filosofia, era quella più influenzata dalle dottrine del materialismo. Tuttavia Giuseppe se ne tenne a distanza, concentrandosi sulla preparazione degli esami. Concluse gli studi il 4 agosto 1903 con una tesi sull’urogenesi epatica, laureandosi col massimo dei voti.
Nemmeno tre anni dopo, iniziò a emergere la sua capacità di agire tempestivamente: dopo aver assistito alle prime fasi dell’eruzione del Vesuvio dell’8 aprile 1906, si precipitò a Torre del Greco, dove gli Ospedali Riuniti di Napoli avevano una sede distaccata, e trasmise l’ordine di sgombero, caricando personalmente i pazienti, molti dei quali paralitici, sugli automezzi che li avrebbero condotti in salvo. Appena l’ultimo paziente fu sistemato, il tetto dell’ospedale crollò. Per sé il giovane medico non volle encomi, ringraziando invece il resto del personale, a suo dire più meritevole. Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia: i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni.
Tra gli elogi che arrivavano da parte del mondo accademico, gli giunse anche la vittoria in un importante concorso, che lo inserì a pieno titolo nell’attività dell’Ospedale degli Incurabili. Portava avanti in parallelo l’esercizio della professione e la libera docenza universitaria. Furono numerose anche le sue pubblicazioni su riviste di settore e le partecipazioni a congressi medici internazionali.
Un insegnamento di rilievo gli veniva dalle autopsie, nelle quali era tanto abile che, nel 1925, accettò di dirigere l’Istituto di anatomia patologica. Un giorno convocò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro non un caso clinico, ma la vittoria della vita sulla morte: «Ero mors tua, o mors», come diceva un cartello sovrastato da un crocifisso, fatto sistemare da lui su una delle pareti. In altri casi, mentre esaminava i cadaveri, fu udito affermare che la morte aveva qualcosa d’istruttivo.
Non che fosse un personaggio cupo, tutt’altro. I suoi parenti e colleghi testimoniarono che dalla sua persona promanava un fascino distinto, che lo rendeva di buona compagnia. Era anche molto attento alla natura, all’arte e alla storia antica, come si evince dal racconto di un viaggio in Sicilia. Non si concedeva altri svaghi come andare a teatro o al cinema e non aveva neppure un’automobile sua, preferendo spostarsi a piedi o coi mezzi pubblici, anche sulla lunga distanza.
Erano tutti modi con cui si esercitava a conservarsi sobrio e povero, come gli ammalati che prediligeva visitare. Numerosi sono i racconti di pazienti che si videro recapitare indietro la somma con cui l’avevano pagato, anche se ne aveva diritto essendo venuto da lontano. I poveri, per lui, erano «le figure di Gesù Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi». Viene quasi alla mente l’espressione che papa Francesco ha più volte pronunciato, definendoli “carne di Cristo”, quindi scendendo nel concreto della corporeità e del dolore. Il dottor Moscati insegnava a trattare questa manifestazione «non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».
E proprio la carità era, secondo lui, la vera forza capace di cambiare il mondo, come scrisse nel 1922 al dottor Antonio Guerricchio, un tempo suo assistente: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene».
Nel dottor Moscati la scienza era compenetrata da un’acuta capacità diagnostica, tanto più sorprendente se si pensa che, alla sua epoca, erano sicuramente noti i raggi X, ma non le tecniche con le quali oggi s’indaga l’interno degli organi, come la TAC o altre. I sintomi che altri riconducevano a malattie di un certo tipo erano da lui riferiti a cause di natura diversa, per le quali disponeva terapie il più delle volte benefiche. Oltre ai suoi prediletti, ebbe due pazienti celebri: il tenore Enrico Caruso, a cui rivelò – dopo essere stato tardivamente consultato – la vera natura del male che lo condusse alla morte, e il fondatore del santuario della Madonna del Rosario di Pompei, il Beato Bartolo Longo.
Tutte queste doti traevano la propria sorgente dall’Eucaristia, che riceveva quotidianamente, in particolare nella chiesa del Gesù Nuovo, non molto lontana dalla sua abitazione, in via Cisterna dell’Olio 10, dove viveva con la sorella Anna, detta Nina. Grande era anche la sua devozione alla Vergine Maria, sul cui esempio decise, nel pieno della maturità, di rimanere celibe, ma senza farsi religioso come san Riccardo Pampuri né diventare sacerdote, scelta che invece compì, a quarantacinque anni, il Servo di Dio Eustachio Montemurro. Qualcuno ha sospettato che fosse, per usare un eufemismo, incapace alla riproduzione o che avesse qualche tratto di misoginia. In realtà non si riteneva incline al matrimonio, che invece esortava ad abbracciare ai suoi giovani allievi: inoltre, se avesse preso moglie, non sarebbe più stato libero di visitare i suoi poveri.
La morte lo colse per infarto al culmine di una giornata come tante, verso le 15 del 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette, poco dopo aver applicato a se stesso la capacità diagnostica che aveva salvato tanti, è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina.
I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è quindi svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975.
A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. In quel periodo si stava svolgendo la VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II»: non poteva esserci occasione migliore per indicarlo alla venerazione dei cattolici di tutto il mondo.
Il 16 novembre del 1930 i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Sempre il 16 novembre, ma del 1977, quindi due anni dopo la beatificazione, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione canonica.
Preghiera
Amabilissimo Gesù, che ti degnasti venire sulla terra per curare
la salute spirituale e corporale degli uomini e fosti tanto largo
di grazie per San Giuseppe Moscati, facendolo un medico secondo
il tuo Cuore, insigne nella sua arte e zelante nell’amore apostolico,
e santificandolo nella tua imitazione con l’esercizio di questa duplice,
amorevole carità verso il prossimo, ardentemente ti prego
di voler glorificare in terra, il tuo servo nella gloria dei santi,
concedendomi la grazia…. che ti chiedo, se è per la tua
maggior gloria e per il bene delle anime nostre. Così sia.
-
San Damiano
-
San Damiano
San Damiano
-
Santa Bernadette Soubirous (1844-1879)
-
Santa Bernadette Soubirous (1844-1879)
Santa Bernadette
Per tutta la vita santa Bernadette Soubirous cercò di assomigliare il più possibile alla Vergine Immacolata, che lei vide, ascoltò, amò. Fin dall’inizio delle apparizioni ella si trova implicata in una situazione del tutto paradossale: lei, che non sa né leggere, né scrivere e comprende soltanto il patois, si fa portavoce di un avvenimento soprannaturale, che fa eco in tutto il mondo. Bernadette che, dall’11 febbraio al 16 luglio 1858, aveva assistito a 18 apparizioni dell’Immacolata Concezione nella grotta di Massabielle, riesce a sbaragliare tutti: subisce numerosi interrogatori ufficiali perché è sospettata di impostura.
Vogliono farla crollare, affinché cessi quell’incontrollato flusso di persone alla grotta delle guarigioni… Ma sono tutti sconcertati dalla sua limpidezza. Le sue risposte alla santa Giovanna d’Arco schivano tutte le trappole: non si confonde mai e non si contraddice. Scriverà di lei Monsignor Bertrand-Sévère Laurence, Vescovo di Tarbes, nella Lettera pastorale del 18 gennaio 1862: «Chi non ammira, avvicinandola, la semplicità, il candore, la modestia (…)? Mentre tutti parlano delle meraviglie che le sono state rivelate, solo lei mantiene il silenzio; parla soltanto quando viene interrogata (…) alle numerose domande che le vengono poste, dà, senza esitare, risposte nette, precise, pertinenti e piene di convinzione. (…) Sempre coerente, nei vari interrogatori a cui è stata sottoposta, ha mantenuto tutte le volte la stessa versione, senza togliere o aggiungere nulla».
È semplice e mite, ma risoluta nella sua posizione e non è disposta a patteggiare con nessuno, così come non rinuncia al suo Rosario da quattro soldi: rifiuta a Monsignor Thibault, Vescovo di Montpellier, di scambiarlo con uno in oro e benedetto dal Papa. Di fronte agli scettici irriducibili si limita a dire: «Non sono stata incaricata di farvi credere. Sono stata incaricata di riferire». Fin dai tempi delle apparizioni esprime la volontà di farsi suora, senza che questo riguardi i tre segreti che la Vergine le aveva confidato e che lei non ha mai rivelato.
Dove avrebbe potuto, meglio che nella vita religiosa, mettere in pratica quelle consegne di «preghiera» e di «penitenza per la conversione dei peccatori» che aveva ricevuto? Diventa suora della Carità e dell’Istruzione cristiana di Nevers. Fin dai tempi del noviziato Bernadette è stata una presenza costante in infermeria, malata al punto da essere ammessa a fare la professione in Articulo mortis, il 25 ottobre 1866.
Nonostante le sue sofferenze, il rumore assordante, intorno a lei, non cessa, anzi. Con frequenza incessante è chiamata in parlatorio per incontri e domande. A suo avviso i circa cinquanta vescovi che sono andati a trovarla avrebbero fatto meglio a «restare nelle loro diocesi». Impara a leggere e a scrivere. Ha una buona mano per cucire e ricamare e poi è bravissima ad animare i giochi dei bambini. Vivace, disapprova ogni ipocrisia, ogni menzogna, ogni ingiustizia. Ha il carattere fiero, serio, onesto della sua gente, per cui ogni promessa è sacra. Si è fatta religiosa per nascondersi in Dio e invece, per obbedienza, deve essere in prima linea perché è sulla bocca di tutti. Questo problema viene da lei risolto nell’ottobre del 1873 ed è una specie di patto che si rifà alle parole dell’Immacolata: «Mi recherò con gioia in parlatorio (…). Dirò a Dio: sì, ci vado, a condizione che un’anima esca dal purgatorio o che convertiate un peccatore».
La Madonna a Lourdes lasciò il dono dell’acqua miracolosa. Non parlò, però, dei malati fisici, bensì dei malati nell’anima e per essi Bernadette diede la sua giovane vita. Il peccato è il principale nemico dell’uomo, quello che corrompe e allontana da Dio sia spiritualmente che fisicamente. La salma incorrotta della bellissima santa Bernadette Soubirous è ancora lì, nella cappella del convento di Saint-Gildard, a testimoniare che la guarigione dell’anima è più importante della guarigione del corpo.
Con le parole di Bernadette:
“O Gesù, dammi, ti prego, il pane dell’umiltà,
il pane di obbedienza,
il pane di carità,
il pane di forza per rompere la mia volontà e fonderla con la tua,
il pane di pazienza per sopportare le pene che il mio cuore soffre …..
il pane di non vedere che Te solo, in tutto e sempre”“Ho sperato in Te, Signore, sii il mio rifugio, perché sei Tu la mia forza”
“Mi basta Lui, Gesù solo come ricchezza”
-
Beata Chiara Bosatta (1858-1887)
-
Beata Chiara Bosatta (1858-1887)
Beata Chiara Bosatta
Nata a Pianello Lario (Como) il 27 maggio 1858, ultima di 11 fratelli, fu chiamata Dina. A tre anni, rimasta orfana di padre, un piccolo industriale della seta, la bambina fu presto avviata ai lavori della filanda. Ma la sorella Marcellina convinse i fratelli a lasciarla andare all'Istituto delle Madri Canossiane di Gravedona (1871), perché proseguisse gli studi, prestandosi contemporaneamente ai servizi domestici. Vi trascorse 6 anni che lasciarono una traccia assai profonda (1871-77). Dina ammirava la vita delle suore, ne maturò lo spirito, visse giorni di fervida pietà. Si credette chiamata alla vita religiosa, conforme al programma di S. Maddalena di Canossa che proclamava: “Dio solo!”. Le canossiane erano lusingate di accoglierla nel loro noviziato di Como. Per il suo carattere timido e riservato, incline al silenzio e alla contemplazione, più che all'azione, fu giudicata non idonea per quell'istituto e ritornò in famiglia.
A Pianello Lario il parroco don Carlo Coppini aveva nel frattempo messo insieme un gruppetto di giovani: la Pia Unione delle Figlie di Maria, sotto la protezione di s. Orsola e s. Angela Merici (10 luglio 1871), ed aveva invitato ad entrarvi la sorella di Dina, Marcellina, che ne divenne superiora; con alcune di quelle fu possibile al parroco inaugurare (ottobre 1873) un provvidenziale ospizio per vecchi e bambini abbandonati. Dina entrò con fatica nella pia casa della quale non conosceva molto, ma che vedeva immersa in una grande attività per le bambine, le anziane e per aiutare i bisognosi del paese, mentre lei avrebbe preferito una casa tutta dedicata alla preghiera e alla contemplazione. Il 27 ottobre 1878 emise la professione, prendendo il nome di Chiara. Nel luglio 1881 morì il parroco e gli succedette il beato don Luigi Guanella.
Nell'anno scolastico 1881-82 Dina completò la preparazione al diploma di maestra elementare, senza poter dare gli esami. Quindi, stabilitasi nell'ospizio di Pianello, attese all'educazione delle orfanelle con squisitezza materna e guidava la formazione delle postulanti e delle prime novizie. Il b. Luigi Guanella si dedicò alla trasformazione della Pia Unione delle Orsoline in una congregazione col titolo di Figlie di S. Maria della Provvidenza. Si dedicava anche alla formazione delle suore e fu direttore spirituale di suor Chiara, guidandola sulle vie della contemplazione più alta, specialmente della passione di Cristo, e impegnandola nel servizio della carità verso i più bisognosi.
Il beato Luigi Guanella, su invito di don Lorenzo Guanella, suo fratello e prevosto ad Ardenno (Sondrio), avviò in quella parrocchia un'opera nella quale si alternarono suor Marcellina e suor Chiara, con un'altra suora. Fu un'esperienza che preparò suor Chiara al passaggio dell'istituzione da Pianello a Como (1886). Suor Chiara divenne subito il centro propulsore e amorevole di quella casa: delle suore, delle postulanti, delle ospiti, delle anziane bisognose, delle ragazze operaie in città. Nell'autunno 1886 si ammalò di etisia polmonare. Sperando che l'aria nativa le potesse giovare, fu trasportata a Pianello, dove morì il 20 aprile 1887. Lo stesso beato Guanella promosse l'apertura della causa di beatificazione di suor Chiara. Il processo informativo fu aperto a Como nel 1912; fu beatificata il 21 aprile 1991 da papa Giovanni Paolo II. Il suo corpo è venerato nel Santuario del S. Cuore in Como, accanto a quello del Beato Luigi Guanella.
Preghiera
Signore Dio nostro,
che hai fatto della Beata Chiara Bosatta,
una viva immagine del Tuo Figlio Gesù,
adoratore del Padre e umile Servo degli uomini,
ti preghiamo di poter anche noi seguire il suo esempio
e di ottenere per sua intercessione la grazia....
che con fiducia ti chiediamo.
Per Cristo nostro Signore, Amen
Beata Chiara, intercedi per noi
-
Chiara Maria Bruno, Testimone (1991-2016)
-
Chiara Maria Bruno, Testimone (1991-2016)
Chiara Maria Bruno
Il cammino di Chiara Maria: dall’ospedale al Paradiso
Chiara Maria Bruno una ragazza solare, con tanta voglia di vivere e piena di interessi: lo studio, la pallavolo, la sua comunità parrocchiale.
Era sempre circondata da tanti amici; amava la vita e la malattia non l’ha cambiata.
Nel 2010, all’età di 19 anni, appaiono sul suo corpo le prime macchie cutanee. Passano cinque lunghi anni di visite mediche, controlli ed esami clinici in cui queste manifestazioni cutanee venivano trattate, all’inizio, come fossero causate da stress e poi come forme allergiche. Nel luglio del 2015 la diagnosi: linfoma di Hodgkin di tipo T cutaneo, una rara malattia che colpisce, soprattutto, uomini adulti. Col progredire della malattia le macchie si trasformano in vere proprie lesioni cutanee che le provocano molto dolore. Dopo un primo momento di sgomento, Chiara non si diede per vinta e affrontò tutto con coraggio e determinazione; seguita da medici onco-ematologi, seguì un percorso di cura che partì da terapie più lievi fino ad arrivare alla chemioterapia. Tanti cicli che non le impedirono di continuare a studiare all’Università nella Facoltà di Chimica e Tecnologia farmaceutica, a frequentare con assiduità la sua “comunità”, senza mai dimenticare ed aiutare chi era in difficoltà. In un primo momento sembrò che le cure avessero effetto, anche se, Chiara, era perfettamente cosciente della gravità della malattia, ma non si chiese, mai, il perché Dio le avesse dato questa sofferenza, entrando nella Sua volontà senza riserve. La sua bellezza non sfiorì mai, sul suo volto c’era sempre il sorriso, anche quando perse tutti i suoi meravigliosi capelli. Si accese la speranza di un trapianto di midollo osseo, avendo la sorella una compatibilità completa con il suo, ma solo con la remissione completa della sua malattia. Chiara Maria voleva formare una famiglia con il sua amato fidanzato Stefano e quando seppe che il trapianto l’avrebbe resa sterile, con l’aiuto dei medici, conservò quella che sarebbe stata la fonte di vita. La situazione precipita il 5 marzo 2016, una crisi comiziale la portò in ospedale dove le venne comunicato che il tumore era arrivato al cervello e i giorni che seguirono, il Policlinico di Tor Vergata, il reparto di Ematologia Oncologica, diventò la strada della Passione che conduce a Gesù. I giorni che seguirono furono terribili ma nello stesso tempo, quel reparto, o meglio la piccola sala d’aspetto di quel reparto, divenne il centro del mondo dove la Shekhinah di Dio scese su tutti coloro che erano attirati irrimediabilmente lì.
Nei corridoi, nella Cappellina, nel cortile dell’ospedale non si fermava la preghiera incessante che tutti insieme rivolgevamo a Dio. Persone conosciute per caso, amici, fratelli di comunità, parenti, tutti arrivavano lì per dare conforto, ma ne ricevevano molto di più senza, nemmeno, poterla incontrare.
Chiara da quel letto di ospedale era diventata una luce che illuminava tutti si è compiuta la parola: “quando sarò innalzato, attirerò tutti a me”.
Stefano, il suo fidanzato, era guidato dalla Grazia, le portava conforto con il sorriso e la forza. Una Grazia, che gli ha permesso di starle accanto fino alla fine e fino al punto di volerla sposare.
Chiara voleva ricevere l’Eucarestia ogni giorno. Era un grande sostegno per lei. Il sacerdote passava per darle la Comunione, anche se, delle volte, poteva deglutire solo una piccola parte dell’ostia ma il suo sguardo era colmo di gratitudine e felicità! Era vicina la Pasqua 2016 ed il presbitero della sua comunità le chiese di scrivere delle riflessioni sulle letture della Veglia Pasquale, alla quale lei, quell’anno, non avrebbe potuto partecipare, anche se lo desiderava ardentemente. Queste riflessioni, ora, sono raccolte in un libro che un suo amico volle scrivere immediatamente dopo la sua morte, per testimoniare gli avvenimenti di quei giorni, in cui Morte e Vita si sono congiunti in maniera straordinaria. Chiara Maria muore il 23 aprile 2016 all’età di 25 anni.
Chiara Maria scrive in un diario:
“Quando ti ammali di una malattia seria, è invitabile che il pensiero vada anche alla morte. Una delle mie più grandi paure, non è tanto quella di morire, ma è quella di morire lontana da Cristo”.
“perchè perdiamo tanto tempo dietro a cose che non ci danno la vita, anzi, forse ce la tolgono anche, e non ci rendiamo conto delle cose che contano davvero e non capiamo che Dio ci ama per quello che siamo”
“perciò prego Dio che mi doni la costanza nella preghiera quotidiana, che mi doni la fede ogni giorno, e che mi doni la forza di combattere la malattia sempre rispettando la Sua volontà”.
E’ questa la straordinaria testimonianza che ci ha lasciati Chiara Maria, che è morta dicendo che avrebbe fatto la volontà di Dio, qualunque essa fosse: “Quello che vuole Dio, io lo faccio”. Così facendo – sostenendo dal letto del suo dolore i parenti e gli amici con quella grazia che le è stata donata dal Cielo – ci ha dimostrato in maniera tangibile che è possibile stare sulla croce e non bestemmiare Dio. E’ stato possibile a lei assieme alla sua comunità ed è possibile – se Dio ce lo chiederà e ci darà la forza – anche a noi.
Pensieri
“Sono riuscita – scrive Chiara a padre Domìnik – a mettermi a scrutare e a riflettere su queste splendide letture della Veglia di Pasqua, alla quale non potrò partecipare! […] I pensieri su ciò che ho letto e scrutato mi stanno accompagnando tanto in questi giorni un po’ difficili. […] Prega per me!! Buona Santa Pasqua!!!!!” (p. 99). Commentando la lettera ai Romani, Chiara Maria scrive: “Una delle mie più grandi paure, non è tanto quella di morire, ma è quella di morire lontana da Cristo”.
-
San Benedetto Menni (1841-1914)
-
San Benedetto Menni (1841-1914)
San Benedetto Menni
L'11 marzo del 1841 Angelo Ercole Menni nacque a Milano dal matrimonio di Luigi e Luisa Figini. Quinto di 15 fratelli, Il padre gestiva un modesto negozio, e grazie alle entrate di quest'attività la famiglia aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.
A 17 anni dopo un breve periodo di lavoro in banca, matura la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità. Diventa barelliere per trasportare i feriti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali, dozzine di corpi straziati di combattenti, sono trasportati dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli. La conoscenza dei Fatebenefratelli è decisiva nella sua vita, arriva, infatti, il momento di chiedere l'ingresso al noviziato.
Il 1° maggio 1860 entra nel noviziato dell'ospedale di Santa Maria d’Araceli a Milano, qualche giorno dopo riceve l'abito e cambia il suo nome in Benedetto, dopo un anno emette i voti semplici e dopo tre emette la professione solenne.
Frequenta gli studi filosofici e teologici prima nel Seminario di Lodi e poi nel Collegio Romano (Pontificia Università Gregoriana di Roma), è ordinato sacerdote nel 1866.
Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un'impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l'Ordine dei Fatebenefratelli.
Il 14 gennaio 1867 il giovane frate a 26 anni è ricevuto in udienza dal Papa Pio IX, che lo invia in Spagna per la restaurazione dell'Ordine dei Fatebenefratelli. Partì due giorni dopo.
All'inizio non fu certo facile, oltre alla difficile situazione politica, in Spagna erano stati soppressi tutti gli ordini religiosi, Benedetto trovò degli ostacoli anche all'interno della chiesa, primo fra tutti il vescovo di Barcellona, ma non si scoraggiò ed iniziò la sua attività cercando risorse per costruire un ospedale pediatrico, che dopo qualche mese fu benedetto proprio dal vescovo che lo aveva ostacolato.
Benedetto continuò la sua opera non senza rischi per la propria vita, fu espulso più volte dalla Spagna, ma puntualmente vi faceva ritorno da clandestino, una volta rientrando da Gibilterra dopo essere stato anche in Marocco.
Fu infaticabile infermiere insieme ai suoi confratelli durante la guerra civile.
Benedetto Menni fu nominato Provinciale della provincia della Spagna e rimase in carica per ben 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l'Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui: quattro ospedali ortopedici per bambini; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri. Alla restaurazione dell'Ordine in Spagna seguì anche, alla fine del secolo XIX la restaurazione dello stesso Ordine in Portogallo e, all'inizio del XX secolo, in Messico.
Il 31 maggio del 1881 fondò la Congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, Istituto Religioso femminile specializzato nell'assistenza psichiatrica.
Nel 1905 partecipa a Roma, ad un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, è richiamato dalla Santa Sede che lo nomina Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): iniziano viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X nel 1911 lo nomina Generale dell’Ordine.
Fu accusato di violenze verso una povera demente, conosciuto come il "caso Semillan", davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali. Non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid), nel gennaio 1902 si concluse con la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid; ancora peggiore fu la campagna di calunnie, davanti al tribunale vaticano del Sant'Uffizio, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell'aprile 1896 fu comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere "conto alcuno" delle accuse.Accusato e accerchiato, all’interno dell’Ordine, da un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo poco più di un anno dalla nomina: era il 20 giugno 1912.
Era a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si trasferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia, dove muore la mattina del 24 aprile 1914.
Il processo di beatificazione iniziò nel 1964, l’eroicità delle sue virtù fu dichiarata l’11 maggio 1982, riconosciuta come miracolosa, per intercessione di Benedetto Menni, la guarigione della signora Assunta Cacho, il papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato beato il 23 giugno 1985. Un nuovo miracolo, la guarigione di una religiosa Ospedaliera (Suor Maria Nicoletta Vélaz) affetta da un cancro invasivo della vescica, apre la strada alla canonizzazione officiata sempre da papa Giovanni Paolo II il 21 novembre 1999.I suoi resti riposano nella Casa Madre di Ciempozuelos.
Omelia di Giovanni Paolo II per la canonizzazione
"Vieni, benedetto da mio Padre; eredita il Regno preparato per te dalla creazione del mondo, ... perché ero malato e mi hai visitato" (Mt 25, 34.36). Queste parole del Vangelo proclamate oggi saranno senza dubbio familiari a Benito Menni, sacerdote dell'Ordine di San Giovanni di Dio. La sua dedizione ai malati, vissuta secondo il carisma dell'ospedale, ha guidato la sua esistenza.
La sua spiritualità nasce dalla sua esperienza dell'amore che Dio ha per lui. Il grande devoto del Cuore di Gesù, re del cielo e della terra, e della Vergine Maria, trova in loro la forza della sua dedica caritatevole agli altri, specialmente a coloro che soffrono: gli anziani, i bambini scrofolosi e polio e i malati di mente. Il suo servizio all'Ordine e alla società ha svolto con umiltà l'ospitalità, con un'integrità impeccabile che lo rende un modello per molti. Promosse varie iniziative guidando alcune giovani donne che avrebbero formato il primo nucleo del nuovo istituto religioso, fondando a Ciempozuelos (Madrid) le Suore dell'Ospedale del Sacro Cuore di Gesù. Il suo spirito di preghiera lo ha portato ad approfondire il mistero pasquale di Cristo, una fonte di comprensione della sofferenza umana e un percorso verso la risurrezione. In questo giorno di Cristo Re, San Benedetto Menni illumina con l'esempio della sua vita coloro che vogliono seguire le orme del Maestro lungo i sentieri dell'accoglienza e dell'ospitalità.
-
Suore Poverelle, Serve di Dio (Nascita al cielo 1995)
-
Suore Poverelle, Serve di Dio (Nascita al cielo 1995)
Sei “Poverelle” uccise dal virus Ebola
A ridosso della Pasqua del 1995, tutti gli operatori sanitari, che nell’Ospedale generale di Kikwit avevano partecipato ad un intervento chirurgico su di un malato grave, morirono entro due settimane. Anche le Suore delle Poverelle ebbero una prima vittima: Suor Floralba Rondi, morta il 25 aprile. Era una delle prime cinque Suore inviate in Congo.
Il 6 maggio successivo morì un’altra Religiosa, Suor Clarangela Ghilardi. Si trovava a Kikwit dal 1993, ma aveva iniziato la sua esperienza missionaria lì, nel 1959, rimanendovi per circa 11 anni; in seguito era stata a Tumikia e a Mosango. Due giorni dopo la sua morte arrivò la diagnosi definitiva: entrambe le Suore, ma anche gli altri medici e infermieri, erano morti a causa del virus Ebola. Era quindi in atto una vera e propria epidemia.
Nel primo pomeriggio dell’11 maggio morì Suor Danielangela Sorti: aveva vegliato Suor Floralba sostituendosi a Suor Costanzina Franceschina, una consorella anziana anziana che pure era disponibile a partire da Tumikia verso Mosango. Contrasse il virus tagliandosi con una fialetta, mentre praticava un’iniezione alla consorella malata; in più, aveva lavato ininterrottamente le bende inzuppate di sangue a motivo delle continue emorragie, per risparmiare alle consorelle il lavoro nel giorno successivo.
Anche Suor Dinarosa Belleri, forte dell’esperienza maturata in trent’anni di missione, fedele al carisma del Fondatore, scelse di dedicarsi totalmente ai malati in quell’epidemia. Ebbe i primi sintomi del contagio all’inizio del mese di maggio e morì il 14, tre giorni dopo Suor Danielangela.
Suor Annelvira Ossoli, Superiora provinciale residente in Kinshasa, aveva affrontato un viaggio di oltre 500 chilometri pur di giungere a Kikwit e stare accanto a Suor Floralba. Con la stessa sollecitudine fu vicina alle altre consorelle, con dedizione continua e coraggiosa, finché non fu contagiata anche lei. La sua morte avvenne il 23 maggio, il giorno successivo alla memoria liturgica del loro Fondatore, il Beato Luigi Palazzolo, celebrata ogni anno il 22 maggio.
L’ultima a morire, il 28 maggio, fu Suor Vitarosa Zorza: convinta che fosse solo una “diarrea rossa”, aveva riempito due valigie di medicinali, lasciato la missione di Kingasani cantando, per rispondere “sì” al Signore che la chiamava a Kikwit, e raggiungere ad ogni costo Suor Annelvira, collaborando nell’assistenza alle consorelle e ai contagiati.
Messaggi sconcertanti di morte e di speranza
In quei dolorosi e terribili 33 giorni le Suore cercavano di far arrivare in Italia dallo Zaire le notizie su quanto accadeva. Da Kikwit a Kinshasa, l’unico mezzo di comunicazione era la “phonie”, una sorta di ricetrasmittente. I messaggi venivano poi trascritti a Kinshasa e inviati, via telefax, a Bergamo, in Casa Madre.
Madre Gesuelda Paltenghi, in quel periodo Superiora generale della Congregazione, seguiva con apprensione quanto le consorelle comunicavano. Alle 10.20 del 25 aprile 1995 così riferirono circa la morte di Suor Floralba: «Restiamo unite nella sofferenza, nella preghiera e nell’offerta. Suor Floralba ci ha lasciate per il cielo proprio in questo momento. Il Padre, la Madonna e il Palazzolo l’avranno già abbracciata. Ci proteggerà dal cielo».
Mentre l’epidemia avanzava e, alla distanza di pochi giorni tra loro, entro il 28 maggio seguiva incalzante la morte di altre cinque Sorelle, dai messaggi via fax traspariva sempre più frequente la richiesta di un miracolo al Fondatore, anche per ottenere la sua canonizzazione. Quella pur legittima richiesta, alla fine si trasformò in un’accettazione piena, anche se sofferta, della morte delle sei Sorelle.
Quando morì Suor Vitarosa, le Sorelle dallo Zaire comunicavano: «“Tutto è compiuto!”. Il Signore si è portato con Sé nella gloria dei beati anche Suor Rosa, alle ore 2 di stanotte... Il mistero è grande, ci avvolge, e in uno sforzo supremo diciamo: “Padre, nelle tue mani mettiamo le loro e le nostre vite. Abbi pietà di noi”».
Le sei Cause per la beatificazione
La vicenda delle sei Suore circolò immediatamente tramite la stampa e la televisione e, col passare del tempo, non fu dimenticata né dentro né fuori l’Istituto.
La Congregazione delle “Poverelle”, dopo ponderata riflessione, chiese l’avvio della Causa di beatificazione per le sei Suore al Vescovo di Kikwit. Questi, ottenuto nel 2013 il Nulla osta da parte della Santa Sede, aprì le singole Inchieste per l’accertamento delle virtù eroiche delle sei Suore che avevano generosamente dato la vita durante l’epidemia di Ebola.
L’apertura delle Inchieste diocesane è avvenuta nella Cattedrale di Kikwit domenica 28 aprile 2013; l’8 giugno 2013 sono seguite le rispettive Inchieste rogatoriali nella Diocesi di Bergamo, dove le Suore avevano vissuto parte della loro vita, concludendosi entro il gennaio 2014. La chiusura delle Inchieste diocesane è avvenuta a Kikwit il 23 febbraio 2014. Le Cause proseguono ora nella fase romana.
Le schede biografiche di ciascuna Suora
Suor Floralba (Rosina) Rondi
† Mosango, Repubblica Democratica del Congo, 25 aprile 1995
Suor Clarangela (Alessandra) Ghilardi
† Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 6 maggio 1995
Suor Danielangela (Anna) Sorti
† Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 11 maggio 1995
Suor Dinarosa (Teresina) Belleri
† Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 14 maggio 1995
Suor Annelvira (Celeste) Ossoli
† Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 23 maggio 1995
Suor Vitarosa (Maria Rosa) Zorza
† Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 28 maggio 1995
-
San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)
-
San Giuseppe Cottolengo (1786-1842)
San Giuseppe Cottolengo
Giuseppe Benedetto nasce a Bra nel 1886 e fatica a realizzare la sua vocazione per tutte le limitazioni che Napoleone impone in quegli anni ai seminari e agli istituti religiosi, ma fa in tempo ad essere ordinato prete alla soglia dei suoi 25 anni.
Lo mandano viceparroco a Corneliano d’Alba e qui stupisce tutti perché prega, lavora, veglia i malati di notte, si dedica ai poveri con una generosità tale che ci rimette di salute e mamma è talmente preoccupata da convincerlo e riprendere gli studi ed a pensare un po’ di più a se stesso.
Don Giuseppe ubbidisce fin troppo: torna a Torino, riprende i libri in mano, si laurea in teologia e diventa un canonico dotto, stimato e ricercato da molta gente come predicatore e confessore. Non si dimentica dei poveri, svolge addirittura una qualche attività sociale a favore dei più bisognosi, ma fondamentalmente resta un prete ben “sistemato”, con una bella camera, uno stipendio più che buono e la prospettiva di una carriera brillante.
Tutto questo però gli lascia l’amaro in bocca, reso inquieto, incerto, talvolta scostante e burbero, spesso anche triste e taciturno: un prete insoddisfatto, insomma, che è quanto di meno ci si possa augurare, soprattutto se si considera che ad andare in crisi esistenziale non è un seminarista o un giovane prete, bensì un uomo di 42 anni. Che ha sì, come egli stesso scrive a mamma, «la faccia rotonda qual luna piena», il che sarebbe indice di buona salute, ma l’animo cupo di chi si accorge di non aver ancora fatto nulla di buono nella vita, tanto che il superiore gli ordina di leggere la vita di San Vincenzo de’ Paoli perché almeno abbia un argomento su cui discutere con i confratelli a tavola.
La svolta (o «la grazia della Madonna», come la chiama lui) arriva il 2 settembre 1827, quando la misericordia irrompe nella sua vita in modo tragico e imprevedibile. In quella notte accorre, chiamato per gli ultimi sacramenti, accanto al pagliericcio di un dormitorio pubblico, su cui agonizza Giovanna Gonnet, una giovane francese, mamma di tre figli e in avanzato stato di gravidanza, non ricoverata negli ospedali torinesi perché incinta, rifiutata dal reparto di maternità perché tubercolotica. La vicenda si chiude nel modo più tragico, con una bimba nata prematura che vive poche ore appena, seguita subito nella tomba dalla mamma, uccisa dalla tubercolosi.
Impietrito e sconvolto, domandandosi perché proprio a lui sia toccato essere testimone di una simile tragedia, improvvisamente si accorge che la misericordia ha fatto irruzione nella sua vita, sconvolgendola e rivoluzionandola in pieno. Per questo accende tutte le candele dell’altare, fa suonare le campane e intona le litanie lauretane: da quel giorno non sarà più il prete che fa anche «qualcosa per i poveri», perché la Madonna gli ha fatto la grazia di trasformarlo nel «prete dei poveri», che saranno i suoi veri «signori e padroni».
D’ora in poi, tutta l’attività del Canonico, repentinamente convertito alla causa dei poveri, si svolge all’insegna del paolino «Caritas Christi urget nos!», motto che ci siamo abituati a veder inciso a caratteri cubitali, anche dalle nostre parti, ovunque sono state chiamate ad operare le suore del Cottolengo, quasi a esplicitare, se mai ce ne fosse bisogno, la forza motrice, che da quel momento letteralmente lo spinge.
Talmente “spinto” da non poter perdere tempo: il 17 gennaio 1828, cioè appena pochi mesi dopo lo sconvolgente dramma vissuto il precedente 2 settembre, già prende in affitto alcune stanze nella casa detta della “Volta Rossa”, al civico 19 di Via Palazzo di Città, in pieno centro urbano, per farne il “Deposito de’ poveri infermi del Corpus Domini”.
È costretto a vendere tutto, anche il mantello, per far fronte alle prime spese per i ricoverati, che non si fanno attendere, visto che in quella stessa giornata le porte già si aprono per accogliere i primi due, Giuseppe Dana e Margherita Andrà; di lei si sa che è completamente paralitica e senza parenti, abbandonata a se stessa.
Fin dal primo giorno si delineano così le caratteristiche della nuova istituzione, nata per rispondere alle esigenze di chi non ha veramente nulla, neppure i parenti, e che nessuno vuole ricoverare, in quanto incurabile. Perché a Torino non mancherebbero le istituzioni di assistenza e beneficenza; sono piuttosto le rigidissime regole interne ad impedire di fatto che ne usufruiscano i più bisognosi, il più delle volte ad esclusivo carico di famiglie magari già ridotte in stato di indigenza o, peggio ancora, completamente abbandonati a se stessi.
Ed è principalmente di questi che vuole farsi carico il Cottolengo, e con un tale ardore e così tanta abnegazione da incontrare fin da subito l’opposizione ed i contrasti dei parenti e dei confratelli, con l’unica eccezione del suo diretto superiore, che gli fa da sponda, raccomandando a tutti di «lasciarlo fare». A dar sollievo a chi lamenta che quella strada e quella casa sono ormai diventati ricettacolo di ogni umana miseria, arriva il colera, con la chiusura dell’ospedaletto per paura del contagio. Non conoscerebbe a fondo il Cottolengo chi pensasse che possa bastare un’epidemia per farlo desistere; da buon braidese esperto di orticoltura, sa benissimo che «i cavoli trapiantati riescono meglio» e con questa speranza in cuore, ad aprile 1832, “trapianta” la sua neonata creatura in zona Valdocco, Borgo Dora: non più semplice “ospedaletto” di emergenza sanitaria, ma vera e propria “Casa”, intitolata a chi di quella struttura è la vera unica proprietaria, cioè la Divina Provvidenza.
Per non far torto alla quale non vuole saperne di contabilità o di rendiconti, profondamente convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede”. Lo sperimenta tutti i giorni, toccando con mano fin dove sa arrivare il buon Dio, con un‘eleganza ed una tempestività che ha dello strepitoso e che in pratica equivale al sigillo celeste sull’intera istituzione.
In base alle esigenze che di volta in volta gli si appalesano, nascono numerosi gruppi che denomina “famiglie”: l’ospedale per i malati, la casa per uomini e donne anziani, le famiglie dei sordomuti, degli epilettici, dei disabili psichici detti “Buoni Figli” e “Buone Figlie”, dove l’aggettivo “buono” sembra aggiunto apposta per esplicitare la tenerezza di Dio nei confronti dei più poveri tra i poveri e che il Cottolengo si sforza di tradurre in gesti concreti di carità.
Fior fior di medici e farmacisti, tra cui anche il farmacista regio, si alternano a volontari, professionisti, muratori e benefattori che mettono a servizio della Provvidenza e dei poveri le proprie capacità e il proprio tempo.
Fioriscono come dal nulla le Suore Vincenzine, poi le Suore della Divina Pastora, a seguire le Carmelitane Scalze, le Suore del Suffragio e le Suore Penitenti; sul versante maschile, i Fratelli di San Vincenzo e i Sacerdoti della SS. Trinità. Non male per un prete che, appena qualche anno prima, tirava stancamente la sua vocazione, senza slancio e senza entusiasmo.
Il “manovale della Provvidenza” muore a Chieri il 30 aprile 1842, a 56 anni, più di 40 dei quali vissuti nel più assoluto anonimato e solo gli ultimi 14 all’insegna della misericordia, che lo aveva tuttavia spinto a scelte concrete e a volte scomode per i poveri, come ad esempio quella di far fare anticamera al vescovo di Vercelli per terminare una partita di bocce con un ricoverato: perché l’amore e la tenerezza sanno dare anche queste precedenze.
Pensiero
Se noi siamo rassegnati solo quando Iddio ci manda consolazioni e piaceri, credete pure, ci facciam pochi meriti, e non ci faremo mai santi: è necessario che ci mandi tribolazioni per provargli che siamo veramente figli della Divina Provvidenza; quantunque non avessimo di che nutrirci, di che vestirci, non dovremmo mai far questo torto al Signore con diffidare di lui, o mostrarcene tristi e malinconici. Via, siamo sempre allegri in Domino, egli pensa a noi più di quanto noi pensiamo a lui; e fa tutte le cose infinitamente meglio di quanto possiamo pensarle noi.