«Ringrazio di cuore per le vostre preghiere»
«Ringrazio di cuore per le vostre preghiere per la mia salute dalla Piazza, vi accompagno da qui. Che Dio vi benedica e che la Vergine vi custodisca. Grazie». La voce di Papa Francesco risuona in piazza San Pietro, prima che inizi la recita quotidiana del Rosario che sta accompagnando la sua degenza. Parla in spagnolo il Santo Padre, per meno di trenta secondi, nel messaggio registrato dal Policlinico Gemelli. Le sue parole riempiono di gioia il cuore dei fedeli. Ad annunciarle è il cardinale Ángel Fernández Artime, pro-prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che ha guidato la recita del Rosario ieri sera (giovedì 6 marzo).
Sempre nella serata di ieri era stato diffuso il consueto bollettino medico relativo alle condizioni di salute del Papa – ricoverato dal 14 febbraio scorso per una polmonite bilaterale – e sulla sua giornata. «Le condizioni cliniche del Santo Padre sono rimaste stabili rispetto ai giorni precedenti – informava la nota –. Anche oggi non ha presentato episodi di insufficienza respiratoria. Il Santo Padre ha continuato con beneficio la fisioterapia respiratoria e quella motoria. I parametri emodinamici e gli esami del sangue sono rimasti stabili. Non ha presentato febbre. I medici mantengono ancora la prognosi riservata. In considerazione della stabilità del quadro clinico il prossimo bollettino medico verrà diffuso nella giornata di sabato. Quest’oggi il Santo Padre si è dedicato ad alcune attività lavorative nel corso della mattina e del pomeriggio, alternando il riposo e la preghiera. Prima di pranzo ha ricevuto l’Eucarestia».
7 marzo 2025
«Ringraziate sempre il Signore»: il Papa con i bambini della Borghesiana
Come ringraziare il Signore anche nella malattia? Perché Dio permette le guerre? Commoventi e profonde le domande che i bambini hanno posto a Papa Francesco ieri pomeriggio (11 aprile 2024), nella parrocchia di San Giovanni Maria Vianney. Il Santo Padre, infatti, a sopresa si è recato nella comunità del quartiere Borghesia, periferia Est di Roma, e ha incontrato circa 200 bambini per il primo appuntamento della “Scuola di preghiera”, voluta proprio dal Papa in occasione dell’Anno della Preghiera. L’incontro si è svolto sulla scia dell’esperienza dei “Venerdì della Misericordia”, che vedevano il Pontefice incontrare senza preavviso alcune categorie di persone.
I bambini, che fanno parte dei gruppi di catechismo in preparazione al sacramento della Prima Comunione, hanno accolto festosamente il Papa, arrivato a sorpresa nella comunità. Meravigliata la loro reazione quando, insieme ai catechisti con cui pensavano di svolgere come ogni settimana il catechismo, hanno visto entrare nel salone parrocchiale Papa Francesco. E lui, per circa un’ora, si è fatto catechista con i bambini. Rispondendo alle loro domande, ha proposto una breve catechesi sul tema della preghiera di ringraziamento. Ha voluto sottolineare che questa è una delle più importanti della vita cristiana. «È importante dire grazie per ogni cosa. Ad esempio, se entri nella casa di una persona e non dici grazie e poi permesso, o non saluti, è bello?» La prima parola è «grazie», quindi, invece la seconda è «permesso», ha detto ai piccoli. «La terza parola è “scusa” – ha continuato il Santo Padre –. Una persona che non dice mai scusa è buona? È difficile dire scusa, a volte viene vergogna e orgoglio. Ma è importante quando uno scivola dire scusa. Tre parole: grazie, permesso, scusa».
Poi ha chiesto a loro se pregassero, ascoltato le loro domande, osservazioni e riflessioni. «Anche nei momenti bui – ha detto loro –, dobbiamo ringraziare il Signore, perché Lui ci dà la pazienza di tollerare le difficoltà. Diciamo insieme: grazie Signore per darci la forza di tollerare il dolore». E ancora: «Dobbiamo ringraziarLo sempre, in ogni momento. Io vi do un consiglio – ha concluso Francesco – prima di andare a dormire pensate: per cosa oggi posso ringraziare il Signore? Ringraziate». Al termine dell’incontro i bambini, insieme al Santo Padre, hanno recitato una “Preghiera di ringraziamento” composta per l’occasione, che rimarrà come ricordo di un momento straordinario della loro vita. Prima di andare via, Papa Francesco, salutando e scherzando con loro, ha regalato a ciascuno dei bambini del catechismo un uovo di cioccolata. Ai sacerdoti e ai circa venti catechisti ha fatto dono dei primi sei volumetti pubblicati della collana “Appunti sulla Preghiera”, sussidi pensati dalla prima sezione del Dicastero per l’Evangelizzazione a supporto della vita pastorale delle comunità, nel percorso di riscoperta della centralità della preghiera in preparazione al Giubileo 2025.
12 aprile 2024
«Rendiamo grazie a Dio per Francesco, segno luminoso del Vangelo»
È commosso il cardinale vicario Baldo Reina quando prende la parola. La sua emozione si aggiunge a quella dei tantissimi fedeli che stasera, 21 aprile, hanno riempito la basilica di San Giovanni in Laterano per Messa in suffragio di Papa Francesco. Una chiesa stracolma di affetto. Molte le persone in piedi. C’è chi stringe il Rosario, chi si inginocchia a pregare dove può. Gli occhi di tanti guardano per terra, sono persi nel vuoto. La musica del coro diocesano risuona in tutta la basilica.
«Fratelli e sorelle, in questa Santa Eucaristia in cui celebriamo la vittoria di Cristo sulla morte, ricordiamo con commozione e gratitudine il nostro vescovo, Papa Francesco – esordisce il cardinale Reina -. Rendiamo grazie a Dio per avercelo donato come segno luminoso del Vangelo. Il suo amore per la Chiesa, la sua attenzione agli ultimi, il suo coraggio profetico e il suo instancabile annuncio della tenerezza di Dio rimangano impressi nel cuore del popolo cristiano».
Insieme al cardinale vicario, tra gli altri, ci sono il vescovo vicegerente Renato Tarantelli Baccari, i vescovi ausiliari Michele Di Tolve e Benoni Ambarus, il vescovo vicario del Capitolo lateranense Guerino Di Tora e il vescovo ausiliare emerito Paolo Selvadagi. Con loro, una lunghissima processione di sacerdoti. Presente anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri.
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«Qualcuno da lassù ci ha protetto»: il cardinale Reina in ospedale dai due poliziotti feriti nell’esplosione di via dei Gordiani
Sono ricoverati nella stessa stanza al policlinico Umberto I. Uno a fianco all’altro. Come al momento dell’esplosione in via dei Gordiani dello scorso 4 luglio. Ancora non riescono a spiegarsi come siano riusciti a sopravvivere. «Qualcuno da lassù ci ha protetto», dicono al cardinale vicario Baldo Reina l’agente Francesco D’Onofrio e il viceispettore Marco Neri della Polizia di Stato, rimasti feriti mentre stavano cercando di far evacuare la zona. Il porporato, stamattina, 6 luglio, è andato a trovarli portandogli «il saluto, l’abbraccio e la gratitudine di Papa Leone XIV e di tutta la diocesi di Roma per quello che avete fatto con grande generosità». Queste le sue parole nei primi secondi dell’incontro, che ha visto momenti di commozione, preghiera, e anche qualche risata.
Reina è arrivato nell’ospedale intorno alle 13, accompagnato dal questore della Capitale Roberto Masucci. Tra gli altri, presente anche monsignor Andrea Manto, vicario episcopale per la Pastorale della salute e referente dell’Ambito della cura delle età e della vita, e il cappellano del policlinico don Marco Simbola.
«Come state?», ha chiesto subito il cardinale ai due feriti. «I dolori si sono attenuati anche con l’aiuto della morfina – hanno risposto D’Onofrio e Neri –. C’è da attendere, ci vuole tanta pazienza». I due hanno riportato ustioni sulle braccia e sulla schiena. Il questore ha spiegato che quando sono arrivati sul posto era già scoppiato il primo incendio causato dalla fuga di gas. Hanno quindi fatto evacuare più velocemente possibile chi era presente, ma due persone hanno tardato ad allontanarsi. Gli agenti sono quindi rientrati nell’area per portarli in salvo. In quel momento si è verificata la seconda esplosione. «Non è rimasto più niente dove ci trovavamo – hanno raccontato –. Non c’è una spiegazione logica di come siamo rimasti in vita. Abbiamo visto la pelle che si incendiava, le radio e i cinturoni sciogliersi. Cadevano detriti come proiettili. Un pezzo di cemento ci è passato a fianco e ha ribaltato una macchina. Non si vedeva nulla, era come camminare nel buio più totale. Eppure – hanno aggiunto –, abbiamo preso la strada giusta. È come se qualcuno, forse santa Barbara e san Michele Arcangelo, ci avesse protetto creandoci una bolla attorno». L’agente D’Onofrio ha al collo la corona del Rosario di Papa Francesco. «Me l’ha portata in ospedale un mio amico sacerdote quando ha saputo dell’incidente. Me l’ha consegnata dicendomi che gli era stata donata proprio dal pontefice».
Prima di andare via, il cardinale ha recitato insieme a loro un’Ave Maria e un Gloria al Padre. «Ringraziamo il Signore perché tutto è andato bene e preghiamo per voi, per le famiglie coinvolte e per quelle che hanno avuto difficoltà con la casa, perché tutto quello che è successo poteva sfociare in una tragedia, ma i danni ci sono, e siamo qui ad assicurare la nostra vicinanza». Il porporato li ha quindi benedetti e li ha ringraziati ancora per il loro servizio. «Avete salvato tante persone – ha concluso –. Questo vi fa onore e vi farà onore per sempre. Quello che è successo resterà indelebile nella vostra memoria. Sentitevi avvolti da tante preghiere e dall’affetto di tanti cittadini e di tanti cristiani che vi vogliono bene». (Giuseppe Muolo)
6 luglio 2025
«Prendiamo Maria con noi»: la Messa del cardinale nel secondo giorno di pellegrinaggio a Lourdes
Partono dalle sofferenze a cui ci riporta la parola “croce” le riflessioni del cardinale vicario Angelo De Donatis, nell’omelia della celebrazione eucaristica nel secondo giorno del pellegrinaggio diocesano a Lourdes. Una giornata caratterizzata dalla celebrazione della Via Crucis e dallo spazio per le confessioni personali, alla basilica di Santa Bernadette. «La parola “croce” – sottolinea il porporato – ci fa pensare a tutte le sofferenze e a tutti i sofferenti della storia e di oggi. Ciascuno di noi sa dare al termine “croce” una traduzione personale: la fatica della vita, un’incapacità di crescere nella fede, un dolore personale o familiare, oppure un momento di prova delle nostre comunità».
«Siam peccatori, è vero – prosegue –. Dobbiamo ammetterlo, senza vergogna, approfittando di questi giorni per vivere una bella confessione, per liberarci dei pesi che ci schiacciano, per urlare il nostro dolore al crocifisso che urla al Padre per noi. Lasciamoci riconciliare con Dio, che perdona tutte le nostre colpe».
Infine l’affidamento a Maria, cifra di tutto il pellegrinaggio diocesano. «Siam peccatori, ma siamo amati, perdonati, purificati. L’acqua di Lourdes che beviamo e con cui ci laviamo la faccia, è solo un segno, bellissimo, di una purificazione totale, che ci renderà pronti a riprendere il cammino. E da qui non usciamo soli. Prendiamo Maria con noi, di nuovo, nella nostra casa, nella nostra intimità. Ella ci genera di nuovo e ci rende liberi di amare».
«Per arrivare a Gesù c’è bisogno di una persona totalmente capaci di aprirci il cuore, cioè di Maria»: a ribadirlo è don Savino Lombardi, responsabile dei pellegrinaggi mariani per l’Opera romana pellegrinaggi.
Leggi l’omelia del cardinale De Donatis
25 agosto 2020
«Possa tornare la gioia e la festa dopo questo momento di prova».
«O Maria, tu risplendi sempre nel nostro cammino come segno di salvezza e di speranza. Noi ci affidiamo a te, Salute dei malati, che presso la croce sei stata associata al dolore di Gesù, mantenendo ferma la tua fede. Tu, Salvezza del popolo romano, sai di che cosa abbiamo bisogno e siamo certi che provvederai perché, come a Cana di Galilea, possa tornare la gioia e la festa dopo questo momento di prova. Aiutaci, Madre del Divino Amore, a conformarci al volere del Padre e a fare ciò che ci dirà Gesù, che ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri dolori per condurci, attraverso la croce, alla gioia della risurrezione. Amen. Sotto la Tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta». Papa Francesco manda la sua preghiera alla Madre di Dio con un videomessaggio. Poi il suo vicario Angelo De Donatis inizia a celebrare la Messa. In un Santuario del Divino Amore deserto, con i fedeli chiusi nelle loro case, a seguire la celebrazione eucaristica sui loro tablet, computer e cellulari, grazie allo streaming sulla pagina Facebook della diocesi, o in televisione, in diretta su Tv2000.
Tutti fisicamente separati, ma uniti nella preghiera. «Ci siamo tutti, c’è realmente tutta la Chiesa, c’è la Chiesa di Roma», dice infatti il cardinale De Donatis. La Messa conclude la Giornata di digiuno e di preghiera promossa dalla diocesi. «Siamo qui per gridare di essere salvati dal Signore per la sua misericordia – dice il porporato –; Maria è qui con noi e chiediamo la sua intercessione potente». Poi traduce a parole il pensiero e il sentire di tanti. «Siamo qui ai tempi del coronavirus con tanta fede, ma anche con tanta angoscia», ammette. «La vediamo nei volti delle persone, ma la sentiamo anche nel nostro cuore».
Un’angoscia, prosegue il vicario del Papa per la diocesi di Roma, provata da Gesù stesso, prima della Passione. «Alle tue mani affido il mio Spirito»: le ultime parole di Gesù sulla croce, spiega il cardinale De Donatis, sono «una consapevolezza permanente nel cuore di Gesù, e ci dicono che nessuno ha il potere di strapparci dalle mani di Dio». La «terapia» per essere liberati dall’angoscia, spiega, consiste nell’«affidarci alle mani di Dio: nessuno può strapparci da lì, neppure la morte».
«L’unica cosa autentica e utile in questo tempo di coronavirus – la conclusione del cardinale vicario – è mettersi in ginocchio, alla presenza di Dio dentro noi stessi. Dio custodirà la nostra umanità, ci porterà a stringerci gli uni agli altri» scegliendo la vicinanza «senza cadere nella competizione» e fuggendo «la tentazione di salvare se stessi infischiandosi della vita degli altri».
11 marzo 2020
«Permettiamo al Signore, mediante il suo amore misericordioso, di guarire le nostre infermità e di consolare le pene che portiamo nel cuore»
«Nessuno di noi può realmente preparare la Pasqua, senza riconoscere che in primo luogo, è Gesù a desiderare ardentemente di “fare Pasqua” con noi. Dobbiamo solo accogliere la grazia e entrare con la nostra vita nel Mistero pasquale di Cristo, “morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione”. Permettiamo al Signore, mediante il suo amore misericordioso, di guarire le nostre infermità e di consolare le pene che portiamo nel cuore. Contempliamo fiduciosi le ferite del Dio Crocifisso, nell’attesa della Sua Resurrezione!».
Nelle parole del cardinale vicario Angelo De Donatis gli auguri di buona Pasqua a tutta la comunità diocesana di Roma. Domani, alle ore 12, suoneranno a festa le campane di tutte le chiese per unirsi alla preghiera del Regina Coeli del Santo Padre.
«Ci sintonizzeremo per ascoltare il nostro vescovo Francesco che darà l’annuncio e la benedizione del Signore Risorto alla città di Roma e al mondo intero!», osserva don Walter Insero, portavoce della diocesi e direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. «Lasceremo che il suono prolungato delle campane – prosegue – di tutte le chiese di Roma suonate a festa, accompagni la preghiera del Regina Coeli, facendo risuonare in tutta la città un messaggio di resurrezione e di vita».
La veglia pasquale nella Notte Santa, presieduta da Papa Francesco all’Altare della Cattedra della basilica Papale di San Pietro alle ore 21 di sabato 11 aprile – naturalmente senza la presenza dei fedeli – sarà trasmessa in diretta su Rai 1, su Tv2000 (canale 28 del digitale terrestre e canale 157 di Sky), su Telepace (canale 73 e 214 in hd, 515 su Sky), in streaming sul canale Vatican News e sulla pagina Facebook della diocesi di Roma. La celebrazione sarà trasmessa anche dalla Radio Vaticana e da Radio InBlu.
Anche le Messe della Domenica di Pasqua potranno essere seguite in streaming e in diretta televisiva. In particolare, alle ore 8.30, si potrà seguire la Messa dal Santuario del Divino Amore in diretta su Tv2000 e in streaming sulla pagina Facebook della diocesi di Roma; sarà presieduta da monsignor Enrico Feroci, rettore del Seminario della Madonna del Divino Amore e già direttore della Caritas diocesana di Roma. Alle ore 10, invece, la Messa al Divino Amore sarà trasmessa in diretta da Canale 5 e celebrata dal vescovo ausiliare del settore Est, monsignor Gianpiero Palmieri. Alle 11 Papa Francresco celebrerà all’Altare della Cattedra della basilica di San Pietro; al termine impartirà la benedizione “Urbi et Orbi”, con l’indulgenza plenaria. La celebrazione sarà trasmessa in diretta su Rai 1, su Tv2000, su Telepace, in streaming sul canale Vatican News e sulla pagina Facebook diocesana; sarà trasmessa anche dalla Radio Vaticana, da Rai Radio 1 e da Radio InBlu. Ancora, alle ore 19 la Messa al Santuario della Madonna del Divino Amore, presieduta da monsignor Giacomo Morandi, segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, sarà disponibile in diretta su Tv2000 e in streaming sul canale Vatican News e sulla pagina Facebook della diocesi.
11 aprile 2020
«Pellegrini per entrare sempre più nella sequela del Signore»
«Ringrazio il Signore per questa esperienza che stiamo vivendo insieme, e veramente sentiamo che vogliamo essere dei pellegrini con il desiderio di entrare sempre di più nella sequela del Signore». Ha esordito con queste parole il cardinale vicario Angelo De Donatis, nella prima Messa che ha celebrato a Mosca, nella cattedrale dell’arcidiocesi cattolica intitolata all’Immacolata Concezione, la mattina di martedì 30 aprile, prima giornata effettiva del pellegrinaggio in Russia per i sacerdoti organizzato dall’Opera romana pellegrinaggi. I presbiteri della diocesi di Roma erano arrivati nella Capitale russa il giorno precedente, 29 aprile, nel primo pomeriggio; giusto il tempo di sistemarsi in albergo e fare «un piccolo giro di Mosca by night», come raccontano alcuni dei partecipanti.
Nella mattinata di oggi, la vista al Cremlino, preceduta dalla Messa nella cattedrale del cardinale vicario. Tra i concelebranti, i vescovi ausiliari Di Tora, Libanori, Selvadagi, Palmieri; ancora l’arcivescovo Marini, presidente del Pontificio Comitato per i congressi eucaristici internazionali, e l’arcivescovo Mani, emerito di Cagliari. «Qui chiediamo al Signore la grazia di poter fissare lo sguardo verso il Risorto – ha detto il cardinale De Donatis nell’omelia –, perché scopriremo la vera qualità dell’amore, quell’amore che comunica la vita, quell’amore che si abbassa, che si umilia per condividere il cammino e le sofferenze dell’uomo. Non dimentichiamo che l’Innalzato è il Disceso. In questa Eucaristia vorrei chiedere questo dono per tutti noi, il dono dell’umiltà: l’Innalzato è il Disceso. I padri russi hanno sempre avuto a cuore questa dimensione dell’umiltà perché è quella virtù che più ci fa assomigliare a Cristo. Non dimentichiamo che l’umiltà è sorella gemella della carità. Perché l’umiltà non è altro che la gratuità con cui doniamo la vita sull’esempio di Cristo».
A guidare il gruppo in Russia – un centinaio i sacerdoti partecipanti – sono padre Germano Marani, gesuita e professore al Russicum, e Michelina Tenace, docente al Centro Aletti e ordinario di Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. «Ogni pellegrinaggio – riflette Tenace – è una esperienza spirituale perché ci si sposta da dove si è, dalla propria casa, dalla propria sicurezza, ed entra in un modo di essere che favorisce l’incontro con l’altro. Ogni pellegrinaggio è quindi esperienza ecumenica. Quindi, venendo qui in Russia, con che tipo di fratelli cristiani ci incontriamo? Non certo con chi ha fede o dogmi diversi dai nostri. Con i fratelli ortodossi, ci distinguiamo sulla teologia, cioè una interpretazione contestuale, storica, di un aspetto di un dogma. Non bisogna rimanere ancorati alla teologia come se fosse dogma. L’incontro con l’altro avviene nella fede, nella fede in Cristo Risorto».
30 aprile 2019
«Osate! Questi tempi nuovi e difficili richiedono ministri coraggiosi». L’omelia del vicario Reina per le ordinazioni diaconali
Di seguito il testo integrale dell’omelia pronunciata da monsignor Baldassare Reina, vicario generale della diocesi di Roma, nella Messa con le ordinazioni diaconali che si è celebrata questa mattina, sabato 19 ottobre.
“Non hanno vino!” La Madre si accorge che alla festa di nozze manca la bevanda che serve per creare il clima di festa e si rivolge al Figlio, all’Agnello del nostro riscatto, alla fonte della Vita. “Non hanno vino”; è il grido di dolore che oggi si innalza al Padre da tante parti del mondo. Manca la pace, manca la serenità, manca l’armonia tra i popoli, manca la gioia. L’episodio delle nozze di Cana va ben oltre il racconto di un fatto avvenuto durante la vita terrena di Gesù.
Con la sua carica simbolica esso permette di entrare già nel banchetto definitivo, in quella festa che non ha fine perché lo Sposo, donando la vita si unisce per sempre alla Sposa, a noi sua Chiesa. Nell’episodio hanno un ruolo fondamentale i servi; essi dapprima obbediscono alla Madre che chiede loro di fare qualsiasi cosa il Figlio avesse chiesto e poi stanno a tutte le indicazioni che Gesù dà.
Con il cuore colmo di gioia oggi accogliamo i dodici fratelli che sono stati appena presentati e con l’imposizione delle mani e il dono dello Spirito li renderemo partecipi del sacramento dell’ordine in quella prima e fondamentale dimensione che è il diaconato.
I servi che abbiamo incontrato nel Vangelo ci aiutano a capire chi sono realmente i diaconi e qual è la loro missione nella Chiesa. Prendo in prestito i due movimenti attribuiti ai servi nel brano di Giovanni per dire qualcosa di questo straordinario regalo che il Signore oggi sta facendo a tutta la Chiesa.
Il primo movimento è quello che li rende partecipi della preoccupazione della Madre. I servi non si sono accorti che è venuto a mancare il vino ma appena Maria nota il fatto essi sono immediatamente coinvolti. Il servo innanzitutto non è colui che obbedisce ma è colui che si lascia coinvolgere dalla cura della Madre. Prima che a servire è chiamato ad avere compassione, ad entrare in sintonia con il cuore di chi osserva per amore. Il servizio è efficace nella misura in cui non solo si sa cosa fare ma si capisce perché farlo. Maria si accorge. Alza lo sguardo. Mentre tutti schiamazzano capisce che la festa si sta spegnendo e da lì a poco nessuno più gioirà. Maria, la serva del Signore, è preoccupata perché i figli vivano in profondità la gioia. La prima spinta che anima il servizio diaconale è quella che va da Dio all’uomo. Il racconto della vocazione di Geremia nella prima lettura ci aiuta ad entrare meglio in questa fondamentale dimensione. Il giovane profeta si sente raggiunto da Dio e avverte un senso di paura; si ritiene inadeguato. Il Signore lo rassicura: “Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò; non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti”. È Dio che sceglie, è Dio che manda, è Dio che mette in bocca la parola che il profeta dovrà pronunciare. L’unica azione che deve compiere il servo è quella di stare in Dio, di sentirsi totalmente preso da Lui e inviato per la missione pensata dal Padre e realizzata per mezzo del Figlio: fare in modo che tutti gli uomini siano salvati. La Chiesa è il luogo del servizio al quale sentiamo di essere stati chiamati e la coerenza anche faticosa e difficile che ci impegna è la possibilità di amore che riserviamo a Dio attraverso la sua Chiesa. Amiamo la Chiesa perché amiamo Dio; amiamo la Chiesa perché amiamo il suo popolo che tentiamo di guidare sempre a Lui. Solo in questa logica d’amore si comprendono gli impegni di povertà, castità e obbedienza che oggi assumente solennemente e che esprimono la vostra piena appartenenza allo Sposo.
Abbiamo bisogno di diaconi che facciano molte cose? No. Piuttosto abbiamo bisogno di diaconi che, come Maria, si accorgano del vino che manca. Per questo motivo sui diaconi invocheremo il dono dello Spirito. Cioè chiederemo che siano resi pienamente partecipi del dono d’amore del Padre e del Figlio. Siano impastati d’amore; anzi, dello stesso amore divino. Consacrati con il dono dello Spirito saranno capaci di sedersi alla mensa della storia con occhi nuovi; guarderanno gli eventi del nostro tempo con sapienza e intelligenza per cogliere ciò che oggi mortifica la vita. Serve che il grido della Madre diventi oggi il grido dei servi: “Non hanno vino!” Gridiamolo nella preghiera che i nostri giovani, le nostre famiglie, la nostra società non ha più il vino della vera gioia. Si continua a pensare che senza Dio e in nome di una libertà senza confini si possa costruire il vero benessere. E invece constatiamo ogni giorno il fallimento, la morte, uno smarrimento che genera confusione e una perdita di senso che davvero ci preoccupano. La diaconia che oggi il Signore vi chiama a vivere è la diaconia della verità annunciata e testimoniata.
Il secondo movimento è quello che realizzano i servi volgendosi verso Gesù il quale li invita prima a riempire d’acqua le giare e poi a portarne il contenuto a colui che dirige il banchetto. I servi che prima erano stati coinvolti dalla Madre adesso si lasciano pienamente plasmare dal Figlio. Chissà quante volte si erano trovati a maneggiare quei contenitori, mettendo dell’acqua e versandola ai commensali. Adesso è tutto nuovo. Hanno occhi nuovi, hanno un cuore nuovo. La loro vita è stata cambiata dall’interno. Hanno mantenuto la loro identità ma è stata trasformata la loro storia. Non più semplici esecutori ma collaboratori della gioia (2 Cor 1,24), complici della felicità, coprotagonisti della festa. Il Vangelo non racconta come avvenga il segno dell’acqua che si trasforma in vino; il tutto accade mentre i servi hanno in mano le anfore. Mi piace pensare che mentre la loro vita si trasforma quell’acqua si muta in vino. Se ci pensate – e lo dico in particolare a noi persone consacrate – è quando abbiamo permesso a Dio di cambiare la nostra vita che qualcosa attorno a noi è cambiato davvero. È sempre vero che è Dio che realizza l’opera ma è anche vero che se noi non collaboriamo lasciandoci rinnovare da Dio nulla è davvero nuovo. Riempiono le anfore, le portano a tavola, iniziano a servire e mentre fanno tutto ciò accade il segno. O forse sarebbe meglio dire che tutto ciò è il segno. Vite trasformate, vite riempite di Dio, vite che si fanno occasione di gioia per tutti.
Comprendiamo così il messaggio di San Paolo nella II lettura: “Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da noi”. Ancora altri vasi. Ancora un riferimento alla nostra vita. Vasi vuoti quelli del Vangelo e riempiti da un Amore che non smetteremo mai di contemplare. Vasi fragili, quelli di cui parla l’apostolo, perché si veda chiaramente che non ci sono meriti per cui vantarsi ma solo una grazia da accogliere e che, paradossalmente, è ancor più evidente quanto maggiore è la nostra fragilità.
Carissimi figli, per il fatto che Dio vi ha scelti chiamandovi al sacramento dell’ordine, non siete migliori di altri e non avete più meriti di altri. Siete, siamo tutti vasi di argilla. Si vedono tutte le lesioni causate dalla nostra natura umana e dal limite che ci accompagna. E si continueranno a vedere quando sperimenterete i primi fallimenti, quando vi sentire frustrati perché i giovani di cui vi siete presi cura non accetteranno più le vostre proposte, quando vi ritroverete a fare i conti con una solitudine che morde o quando penserete di non essere valorizzati pienamente. Il ministero che oggi accogliete non è sinonimo di successo ma porta il marchio del vaso d’argilla. Ricordatevene. Il vostro nome è “vaso d’argilla”. Ma la buona notizia è che questo piccolo e fragile vaso da oggi e per sempre è riempito dell’amore di Dio. Non concentratevi mai sul vaso, Pensate solo a ciò che c’è dentro. Tuffatevi in quel contenuto di grazia, l’unico che davvero potrà rendervi felici. Immergete nella preghiera ogni vostra azione affiché si capisca che tutto proviene da Dio e tutto è fatto per Dio. E poi lasciatevi sospingere da Dio, non mettete confini alla Sua fantasia d’amore; lasciatevi trasportare da Lui, dove Lui desidera e non dove voi avevate pensato. Aprite strade nuove, osate. Anche con la pastorale. Osate! Questi tempi nuovi e difficili richiedono ministri coraggiosi, diaconi intraprendenti che anche nel deserto aprono strade che nessuno vede.
Questa Chiesa nella quale oggi ufficialmente vi incardinate – cioè ci buttate il cuore dentro – amatela, amatela profondamente, servitela con gioia, animatela con intelligenza.
Vi aiuti e vi accompagni la Vergine Santissima, la serva fedele, Colei che dopo aver pronunciato l’eccomi non si è mai scoraggiata davanti a nessuna difficoltà perché ha compreso che Colui che l’ha chiamata era fedele e attraverso la sua umile esistenza voleva scrivere pagine di eternità. Lo stesso vuole fare Dio con ognuno di voi. Auguri e buon ministero.
19 ottobre 2024
«Ogni porta chiusa diventi una porta aperta!» – L’omelia della Messa del cardinale Reina in occasione dell’apertura della Porta Santa a San Giovanni in Laterano
Di seguito il testo integrale dell’omelia pronunciata dal cardinale vicario Baldassare Reina nella Messa di oggi, 29 dicembre 2024, festa della Santa Famiglia di Nazareth, in occasione dell’apertura della Porta Santa nella basilica di San Giovanni in Laterano
Con grande gioia abbiamo vissuto il gesto dell’apertura della Porta Santa nella nostra Cattedrale; con esso abbiamo voluto rinnovare la professione di fede in Cristo, Porta della nostra salvezza, confermando il nostro impegno a essere per ogni fratello e sorella segno concreto di speranza, aprendo la porta del nostro cuore attraverso sentimenti di misericordia, bontà e giustizia.
La nostra celebrazione assume una valenza ancor più significativa poiché si inscrive nella festa della Santa Famiglia di Nazareth, modello di ogni comunità domestica e specchio della comunione trinitaria. L’invito che si leva da questa celebrazione è quello di riconoscerci come famiglia di Dio, chiamata a crescere nell’unità e nella carità reciproca e di sostenere con la preghiera tutte le famiglie, in particolare quelle provate da difficoltà e sofferenze. Il gesto simbolico di alcune famiglie che hanno varcato la Porta Santa accanto ai concelebranti rappresenta un’eloquente testimonianza di questa missione, che avvertiamo particolarmente urgente nel nostro tempo.
La Parola di Dio proclamata ci aiuta a meditare sulla nostra identità di figli nel Figlio, chiamati a vivere come famiglia di Dio. La Porta Santa che abbiamo attraversato evoca quel gesto quotidiano che compiamo varcando la soglia delle nostre abitazioni. Questa porta, ora spalancata, ci ha introdotti non solo nella casa del Signore, ma nell’intimo del suo cuore.
L’apostolo Giovanni, nella seconda lettura, ci consegna un annuncio di straordinaria profondità: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1 Gv 3,1). Essere figli di Dio è una realtà fondativa che ci introduce in una relazione viva e trasformante con il Padre. La fede si configura come un’esperienza profonda di relazione, che ci inserisce nella dinamica della figliolanza divina. Questa verità esige una continua riscoperta, un ritorno incessante alla sorgente dell’amore paterno di Dio, che illumina il senso autentico del nostro essere e del nostro agire. In questa luce, la parabola del Padre misericordioso si offre come uno specchio nel quale siamo invitati a riconoscerci.
Per molto tempo l’interpretazione di questa parabola ha separato e contrapposto i due fratelli non cogliendo come entrambi condividessero la fatica di essere figli sulla base di un errore di valutazione nei confronti del padre. Ricorderete, la scena la prende il figlio minore che chiede la parte dell’eredità che gli spetta e parte, convinto che per sentirsi vivo e artefice della sua vita debba emanciparsi dal padre, abbandonare la casa in cui è cresciuto, il ventre che lo ha generato. Ci troviamo di fronte alla rappresentazione chiara del nostro tempo gravato dal peso di un equivoco: quello secondo cui Dio sarebbe il nemico della nostra libertà, l’ostacolo da rimuovere per sentirci finalmente artefici della nostra esistenza.
Tuttavia, anche il figlio maggiore, che potrebbe sembrare il modello di fedeltà e obbedienza, è prigioniero di un malinteso profondo. La sua vera condizione emerge chiaramente nella protesta rivolta al padre, quando il fratello minore fa ritorno: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (Lc 15,29). In queste parole, si svela un’obbedienza priva di amore, vissuta come servitù a una volontà percepita come dispotica. Entrambi i figli, dunque, finiscono per interpretare il loro posto nella casa del padre non come quello di figli amati, ma come quello di servi: il maggiore, dichiarando di aver servito e il minore, determinandosi a tornare a casa con l’intenzione di chiedere di essere accolto come uno dei salariati del padre.
La sorpresa, però, risiede nella risposta del padre, che interrompe il discorso del figlio minore e, rivolgendosi ai servitori, proclama: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24). Similmente, al figlio maggiore, che manifesta il suo risentimento, il padre risponde con tenerezza disarmante: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31). In queste parole c’è un richiamo profondo alla verità della relazione filiale: essere figli non è una condizione guadagnata o meritata, ma un dono che si fonda sull’amore incondizionato del padre. Questo malinteso sulla paternità ha conseguenze dirette sulla fraternità. L’incapacità di accogliere il padre come fonte di amore genera divisioni tra i fratelli, le cui fratture si manifestano con drammaticità. Il rifiuto di partecipare alla festa del ritorno del fratello minore si traduce in un rifiuto del legame di sangue: «Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15,30). In queste parole, cariche di amarezza e distacco, risuona una negazione della fraternità, un “tuo figlio” che disconosce ogni vincolo con il fratello. Tuttavia, il padre, con un movimento restauratore, risponde: «Questo tuo fratello» (Lc 15,32), cercando di riportare entrambi i figli alla consapevolezza della comune appartenenza familiare.
C’è un dettaglio di questa parabola che ci invita a contemplare nuovamente l’immagine della porta, quella stessa porta che abbiamo attraversato e continueremo a varcare lungo il corso di questo anno di grazia. Nel momento in cui il figlio si incammina per tornare, san Luca sottolinea con toccante precisione: «mentre era ancora lontano» (Lc 15,20). Qui si rivela un tratto straordinario del cuore paterno: il padre non solo attendeva, ma vegliava con speranza incrollabile e, nel vedere da lontano il figlio, sente in sé fremere le viscere di compassione. Non indugia, ma gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia con infinita tenerezza.
Immaginiamo la corsa di questo padre che non si stanca di amare, lo vediamo avvicinarsi con le braccia aperte. Quelle braccia aperte sono la porta santa. Non importa quanto lontani siamo andati, non è rilevante cosa abbiamo fatto, sprecato o rovinato. Nel momento in cui abbiamo deciso di tornare non troveremo mai una porta chiusa, ma un abbraccio che accoglie e benedice.
La casa che ci attende non è altro che la dimora del Padre, il suo cuore, un luogo dove siamo visti anche quando ancora non riusciamo a scorgere Lui. È un cuore che si muove incontro a noi mentre siamo ancora distanti, perché Lui non si è mai separato da noi.
Vogliamo diventare pellegrini di speranza, di questa speranza, di un amore che non si stanca, di una salvezza ritrovata, di una famiglia ricostituita. Da quelle braccia aperte impariamo a essere chiesa, a divenirne il sacramento, famiglia del Dio che libera la nostra libertà verso il bene.
Non esitiamo a varcare la Porta che conduce al cuore di Dio, immagine viva delle sue braccia spalancate per accoglierci. Entriamo con fiducia, gustiamo e contempliamo quanto è buono il Signore (Sal 34,9); e una volta sperimentata la gioia di questa appartenenza filiale, diventiamo instancabili seminatori di speranza e costruttori di fraternità.
Varcare la Porta Santa significa accogliere questa chiamata e vivere come figli nel Figlio, testimoni del Padre che ci aspetta «mentre siamo ancora lontani» (Lc 15,20). È un invito a rispondere alla grazia di Dio con un cuore aperto, lasciandoci riconciliare dal suo abbraccio che ci restituisce dignità e ci rende capaci di costruire relazioni di fraternità autentica.
Oggi, mentre attraversiamo questa Porta che sono le braccia del Padre, il nostro pensiero si rivolge con particolare compassione a coloro che, come il figlio minore della parabola, si sentono lontani e indegni e a quelli che, come il figlio maggiore, portano nel cuore il peso di amarezze profonde e non si sentono più figli amati. Pensiamo ai malati, ai carcerati, a chi è segnato dal dolore, dalla solitudine, dalla povertà o dal fallimento; a chi si è lasciato cadere le braccia per sconforto o mancanza di senso; a chi ha smesso di cercare le braccia del Padre perché chiuso in se stesso o nella sicurezza delle cose del mondo. In questo mondo lacerato da guerre, discordie e disuguaglianze tendiamo le braccia a tutti; facciamo in modo che attraverso le nostre braccia spalancate arrivi un riflesso dell’amore di Dio. Non ci salveremo da soli ma come famiglia e allora è la fraternità che dobbiamo coltivare fino all’estremo delle nostre forze!
Resi figli nel Figlio, facciamo nostra questa missione e impegniamoci a vivere nella gioia del Vangelo. La nostra testimonianza, come quella di Maria e Giuseppe, sia luminosa e feconda, affinché ogni porta chiusa diventi una porta aperta e ogni cuore lontano trovi la via del ritorno nella casa del Padre. Amen.
29 dicembre 2024
«Ogni azione di formazione deve generare conversione»: il cardinale De Donatis al campo unitario dell’Ac
«Carissima Azione cattolica di Roma, davvero in queste giornate hai avuto modo di ravvivare il dono di Dio; la forza della Parola e della comunione ti spinge ora con maggiore forza ad uscire, non vergognandoti di dare testimonianza al Signore nostro, con la dolcezza di custodire il bene prezioso che ti è stato affidato, frutto di una storia bella di santi e di laici che hanno fatto dell’evangelizzazione la passione unica della loro esistenza». Così il cardinale vicario Angelo De Donatis ha salutato i membri dell’Azione cattolica diocesana lo scorso 2 ottobre, celebrando la Messa a conclusione del campo unitario per educatori, responsabili parrocchiali, équipes e soci dell’associazione.
Il campo è partito il 30 settembre a Morlupo, presso la Casa per ferie Rogate, e ha visto la partecipazione, tra gli altri, di don Giorgio Nacci, assistente diocesano del Settore Giovani di Ac e responsabile del Servizio di pastorale giovanile della diocesi di Brindisi-Ostuni; di Luca Girotti, docente di Pedagogia e incaricato regionale dell’Azione cattolica Marche; di Domenico Barbera, dalla diocesi di Civitavecchia-Tarquinia, membro della Commissione nazionale testi e membro dell’equipe nazionale Mlac; e di Maria Chiara Carrozza, dalla diocesi di Sulmona, consigliere nazionale per il Settore Giovani e incaricata regionale per l’Abruzzo Molise.
«La formazione, e voi lo sapete bene – ha detto ancora il cardinale De Donatis nella sua omelia – non coincide con la quantità di informazioni, con l’acquisizione di competenze e la crescita di esperienze, ma essa deve coincidere con la conversione. Se non si comprendesse ciò, ogni atto formativo sarebbe sterile. Ogni azione di formazione deve generare conversione, deve aggiungere fede, aumentarla, far nascere la passione per la relazione personale con Cristo. Ciò che deve farvi innamorare e spingervi ad andare è di partecipare all’azione materna della Chiesa di generare fede, generare dei credenti. Vorrei essere grato con voi per una schiera bella di credenti che a Roma hanno trovato il Signore grazie ai vostri itinerari e alle vostre proposte».
5 ottobre 2022