Meditazione in occasione dell’incontro con i cappellani

FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO

Meditazione in occasione dell’incontro con i cappellani

Casa di Formazione dei Religiosi del Preziosissimo Sangue – Roma

Giovedì 25 gennaio 2018

 

 

In quei giorni, Paolo disse al popolo:

«Io sono un Giudeo, nato a Tarso in Cilìcia, ma educato in questa città, formato alla scuola di Gamalièle nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. Io perseguitai a morte questa Via, incatenando e mettendo in carcere uomini e donne, come può darmi testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro avevo anche ricevuto lettere per i fratelli e mi recai a Damasco per condurre prigionieri a Gerusalemme anche quelli che stanno là, perché fossero puniti.

Mentre ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una grande luce dal cielo sfolgorò attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”. Io risposi: “Chi sei, o Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perséguiti”. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava. Io dissi allora: “Che devo fare, Signore?”. E il Signore mi disse: “Àlzati e prosegui verso Damasco; là ti verrà detto tutto quello che è stabilito che tu faccia”. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco.

Un certo Ananìa, devoto osservante della Legge e stimato da tutti i Giudei là residenti, venne da me, mi si accostò e disse: “Saulo, fratello, torna a vedere!”. E in quell’istante lo vidi. Egli soggiunse: “Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. E ora, perché aspetti? Àlzati, fatti battezzare e purificare dai tuoi peccati, invocando il suo nome”».

Atti degli Apostoli 22,3-16

 

Quando ho saputo che il nostro primo incontro era fissato per questo giorno, 25 gennaio, non ho potuto non pensare di “approfittare” di questa festa della Conversione di Paolo, per proporvi – la prima volta tutti insieme – una mia riflessione, così semplicemente, anche per presentarmi.

So di avere davanti persone diverse, per età, per formazione, per servizio; alcuni di voi appartenete a comunità religiose e siete in grandi ospedali; altri siete in due o anche soli in posti più piccoli; qualcuno è cappellano da tantissimo tempo e qualcuno di recente nomina, dopo aver fatto altre esperienze. Se può consolarvi, l’ultimo arrivato sono io, come vescovo da appena 12 giorni e immerso in questo campo della pastorale della salute da quando sono stato nominato. Umanamene quindi io “non sono nessuno” e non ho da insegnarvi nulla, anzi, mi sembra che sto imparando tanto; eppure l’essere vescovo ausiliare per questo campo così vasto della pastorale della nostra diocesi mi invita ad esservi guida e sostegno.

 

Al di là del nome che porto, il legame con l’Apostolo mi appartiene in qualche modo anche a livello geografico, familiare. Mio padre, essendo suo nonno emigrato per lavoro dalla Sicilia alla Turchia, è nato nella città turca di Mersin, a 25 km da Tarso. Ha poi vissuto a Beirut, dai 4 ai 12 anni, per poi venire in Italia, stabilendosi a Roma, nel 1941, durante la seconda guerra mondiale.

Perdonandomi queste note personali, ho sempre creduto, in particolare dagli anni di seminario, che la Parola di Dio è e deve essere il nostro riferimento quotidiano. Insieme alla celebrazione della Messa, la lettura della Parola deve riempire i nostri risvegli, le nostre scelte, la nostra vita. Per questo motivo desidero partire con voi dalla Parola di questo giorno, quasi un segno per questo primo incontro, nelle mie prime settimane da vescovo in cui mi sto affacciando in questo servizio carico di responsabilità e di impegno.

La chiamata di Paolo negli Atti è raccontata in tre punti. In modo ampio al capitolo 9 degli Atti, in terza persona, e poi in prima persona al capitolo 22 e al cap. 26. Paolo fa riferimento comunque alla sua chiamata anche in alcune lettere (cfr. Rm 1,5; 1 Cor 9,1; 15,8; Gal 1,15-17)

 

Il lettore medio si ferma troppo su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita.

Il contesto di questo brano specifico che abbiamo letto, nel capitolo 22 di Atti, è la difesa di Paolo a Gerusalemme. Incatenato e processato l’Apostolo racconta di se stesso e parte da quell’evento che ha cambiato la sua esistenza, dando un senso a tutto: gioie e dolori, successi e fallimenti.

La vostra missione di cappellani vi porta spesso accanto a persone che sono “costrette” a fare un bilancio della propria vita. Stare in ospedale, per pochi giorni o ancor più per un lungo periodo, mette la persona in uno stato particolare di sensibilità che rende più attenti ai valori della vita. I dolori fisici fanno coro a dolori interiori, che a volte vi confidano: le difficoltà familiari, la lontananza dei figli, l’incertezza del futuro, la precarietà del lavoro. E ancor più la sensazione che non ci sia più tempo per fare tante cose che si pensava di fare. E si fa memoria del passato, degli eventi importanti, delle persone care, di cui forse portiamo la foto sul letto e sopra il comodino.

Ciò che accade ai nostri ammalati si riflette in noi. Ognuno di noi ha momenti di prova, in cui siamo chiamati a “fare memoria” di un cammino percorso. Anche come sacerdoti ci accorgiamo che a volte la nostra vita si è un po’ dispersa, come caduta in un’abitudine a tratti faticosa.

Può capitare che non viviamo più ciò che è il centro della nostra chiamata: non una luce, non una voce, non cioè sensazioni ed emozioni che vanno e vengono, ma Cristo stesso che mi si presenta, mi incontra, dà senso alla mia vita.

 

L’avvenimento, l’incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui “spazzatura”; non è più “guadagno”, ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo. Non dobbiamo tuttavia pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c’era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge e dei profeti, se n’è riappropriato in modo nuovo.

Benedetto XVI

 

Vi confesso che anch’io, in quasi 25 anni di sacerdozio, ho sperimentato momenti di stanchezza in cui ho perso di vista il centro della mia esistenza. Abituato alla vita di parrocchia, con tante cose da fare e persone da incontrare, anch’io ho passato periodi in cui ho tralasciato la vita spirituale… Ci sono momenti in cui la preghiera si vive con fatica, si tralascia la direzione spirituale, si preferisce stare davanti al telefono, al computer o alla televisione invece che davanti al Signore e alla gente. In quei momenti ho capito che o mi ricentravo sul Signore, o perdevo tutto. Se rimaniamo invece conquistati dal Signore tutto il resto è “spazzatura”. Scrive Paolo ai Filippesi:

 

…Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, 11nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.

Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

Fil 3,7-14

 

A volte ciò che può farci difficoltà è proprio la vita con altri sacerdoti, il rapporto con i superiori, o con il vescovo e gli impegni diocesani. Io ringrazio il Signore perché ho sempre cercato di dare importanza alla fraternità sacerdotale, in particolare con i preti con cui ho condiviso il ministero in parrocchia, ma anch’io ho sofferto – e a volte forse sono stato causa – di silenzi, disattenzioni, invidie. Una vita diocesana e la fraternità del presbiterio, in particolare a Roma, ci sembra un ideale poco raggiungibile, forse ancor più per voi cappellani.

Ecco allora che siamo chiamati a tornare al principio della nostra chiamata, la nostra via di Damasco.

Mi chiedo e vi chiedo oggi: quel è stato l’inizio del mio incontro con il Signore Gesù? Dove sono rimasto? Sono affetto anch’io da quelle tentazioni della vita pastorale o da quelle malattie spirituali di cui parlava il Papa in Evangelii Gaudium e il Vicario, don Angelo, nella relazione conclusiva del Convegno, a settembre scorso?

 

Torniamo agli Atti degli Apostoli. I movimenti che descrive Paolo possono essere gesti quotidiani nei luoghi dove operate. Capita anche a voi, anche se non siete infermieri, di alzare un ammalato, prenderlo per mano, in particolare chi è cieco. La caduta di Paolo – tanto più se era da cavallo – gli avrà portato conseguenze anche a livello osseo, avrà avuto bisogno di un tempo di riabilitazione, di qualcuno che lo ha seguito. C’è stato cioè un tempo di ripresa spirituale e fisica, perché così succede a tutti e voi me lo insegnate: quando è toccato lo spirito ne risente anche il corpo e viceversa.

E poi Anania, un personaggio che appare e scompare in pochi versetti, è anche lui immagine di ciascuno di noi, chiamati ad incontrare e a incoraggiare i malati che ci vengono condotti.

 

Eppure, oggi, in questo momento, siamo chiamati a tornare a Saulo-Paolo. Lui, immagine di noi che siamo stati incontrati, a volte anche colpiti e feriti, da Cristo. Lui è il centro della nostra vita e anche della nostra missione pastorale. Lui noi annunciamo, più che con le parole, con la nostra vita[1]. La chiamata-conversione dell’apostolo è solo l’inizio di un cammino che per lui continuerà per altri 35 anni, fino a perdere la testa per il Signore Gesù qui a Roma.

Il suo definitivo “sì” a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa realmente vedere, ma la sua vista e il suo sguardo si affineranno lungo tutta la sua esistenza, come per noi.

Inoltre Paolo capisce che non può agire da solo, ha bisogno di una comunità, ha bisogno degli apostoli. Anche noi, come lui, abbiamo bisogno di sentirci chiesa, di appartenere ad essa, di ritrovarci come sacerdoti uniti al vescovo, nel desiderio e nell’impegno di un’autentica fraternità.

In questo tutti noi siamo chiamati a crescere. Le parole del nostro vicario don Angelo, alla mia consacrazione episcopale, rivolte chiaramente a me e a p. Daniele, penso si riferissero un po’ a tutti:

 

Imparate da lui a servire, a rischiare, a scomparire. Siate schietti con i potenti, tacete davanti agli umili; imparate da coloro che il mondo disprezza, insegnate con dolcezza a quelli che credono di saperla lunga; evitate chi vi loda, ascoltate chi vi corregge; pregate il doppio rispetto a quanto predicate; passate più tempo tra le pagine della Scrittura che sulle sedie delle riunioni; non cercate ricompense, fateci innamorare della gratuità; comandate solo dopo aver amato, e amate di più coloro che non vi obbediscono; assumetevi le vostre responsabilità, intervenite con decisione e dolcezza quando necessario; qualora le cose non andranno come previsto, moltiplicate la gioia di avere i vostri nomi scritti in cielo; aiutateci a volerci bene, perdonate chi vi denigrerà; confidate più nella grazia che nelle programmazioni; più nel quotidiano che nei grandi eventi; accantonate la gloria del mondo, desiderate il Paradiso.

 

Siamo chiamati ad essere sacerdoti sempre, nei momenti di celebrazione in ospedale, quando guidiamo il Rosario o portiamo la comunione, nei momenti del nascere e del morire.

Tra le corsie del reparto dove andiamo, tra odori di medicinali e tubi delle flebo, con il sorriso della vecchietta e le lacrime di un giovane; ma anche a mensa, mentre sediamo accanto ad un medico o parliamo con un dirigente; quando in confessione un ammalato ti confida di aver tradito la moglie e si pente per la sofferenza che ha provocato, ma anche tra le battute del giovane infermiere o tra le lamentele della caposala sul personale (o il contrario); quando la dottoressa ti parla male del suo parroco, come anche quando il tuo confratello cappellano ti ha fatto uno sgarbo; quando un familiare del malato ti racconta tutta la sua vita in dieci minuti e mentre qualcuno ti chiede la tua opinione sulla legge del fine-vita; quando fai fatica (o hai desiderio) a star dietro a tutti i gruppi whatsapp e quando un uomo, con la paura di morire, ti apre il cuore chiuso da una vita; quando fai difficoltà a capire la suora che è incapace a mettere insieme due parole di italiano e quando pensi a tua madre malata, forse in un altro ospedale, in un altro paese; quando hai il desiderio di fuggire o di vederti con calma una partita, mentre proprio quel giorno muoiono insieme tre ricoverati e sei chiamato a dar consolazione, a benedire, a non sapere a chi dare i resti.

 

Così è la nostra vita, forse così è la vostra. Se non c’è un riferimento costante a Dio, allora non riusciremmo ad andare avanti, saremo sommersi, e perderemo di vista il senso pieno di quanto operiamo.

Vi lascio due testi: il primo, famosissimo, è il discorso di Paolo VI a Manila. Il secondo è di Sant’Alberto Hurtado, Apostolo del Cile.

 

«Guai a me se non proclamassi il Vangelo!» (1 Cor 9,16).

Io sono mandato da Lui, da Cristo stesso, per questo. Io sono apostolo, io sono testimonio.

Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è:

l’amore che a ciò mi spinge (Cfr. 2 Cor 5,14).

Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (Mt 16,16);

Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura, è il fondamento d’ogni cosa;

Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi;

Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama;

Egli è il compagno e l’amico della nostra vita; Egli è l’uomo del dolore e della speranza;

è Colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice

e, noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità.

Io non finirei più di parlare di Lui: Egli è la luce, è la verità, anzi:

Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); Egli è il Pane, la fonte d’acqua viva

per la nostra fame e per la nostra sete; Egli è il Pastore, la nostra guida,

il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello.

Come noi, e più di noi, Egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore, disgraziato e paziente.

Per noi, Egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo,

dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza,

dove i puri di cuore ed i piangenti sono esaltati e consolati,

dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati,

dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.

 

(Beato Paolo VI, Discorso tenuto a Manila, 29 novembre 1970)

 

Lei mi chiede come si concilia la mia vita. Me lo chiedo anch’io. Sono ogni giorno sempre più mangiato dal lavoro: corrispondenza, telefono, articoli, visite; l’ingranaggio terribile degli affari, congressi, settimane di studio, conferenze promesse per debolezza, per non dire no, o per non lasciare questa occasione di fare Il bene; bilanci da coprire; risoluzioni che devono essere prese in considerazione di eventi imprevisti. La corsa a vedere chi arriverà prima in un tale apostolato urgente, in cui la vittoria materialista non è ancora definitiva. Sono spesso come una roccia colpita ovunque dalle onde che salgono. Non c’è più fuga che in alto. Per un’ora, per un giorno, lascio che le onde frustino la roccia; non guardo l’orizzonte, guardo solo verso l’alto, verso Dio.

Oh benedetta vita attiva, tutta consacrata al mio Dio, tutta consegnata agli uomini, e il cui eccesso mi guida, per trovarmi e rivolgermi a Dio! Lui è l’unica via d’uscita possibile; nelle mie preoccupazioni, il mio unico rifugio. Anche le ore nere vengono. L’ attenzione tirata continuamente in tante direzioni, arriva il momento in cui non può più: il corpo non accompagna più la volontà. Molte volte ha obbedito, ma ora non può più… la testa è vuota e dolorante, le idee non si uniscono, l’immaginazione non lavora, la memoria è come priva di ricordi: chi non ha conosciuto queste ore? Non c’è altro da rassegnarsi per alcuni giorni, alcuni mesi, forse qualche anno, a fermarsi. Diventare testardo sarebbe inutile: si impone la capitolazione; e poi, come in tutti i momenti difficili, scappo a Dio, consegno tutto il mio essere e il mio volere alla sua provvidenza di Padre, nonostante non abbia forze nemmeno per parlargli.

Ah, e come ho capito la sua bontà ancora in questi momenti… in Dio mi sento pieno di una speranza quasi infinita. Le mie preoccupazioni si disperdono. Le ho abbandonate. Io mi abbandono tutto intero tra le sue mani. Io sono suo e lui ha cura di tutto e di me stesso. La mia anima finalmente riappare tranquilla, serena. Le preoccupazioni di ieri, le mille preoccupazioni perché “venga a noi il suo regno” e anche il grande tormento di pochi istanti fa davanti al timore del trionfo dei suoi nemici… tutto lascia spazio alla tranquillità in Dio, posseduto ineffabilmente nel punto più spirituale della mia anima.

Dio: la roccia immobile contro la quale si rompono invano tutte le onde. Dio, il perfetto bagliore che nessuna macchia offusca; Dio, il vincitore definitivo è in me. Io lo raggiungo con pienezza al termine del mio amore. Tutta la mia anima è in lui, e poi, dolcemente, sicuramente, come se i combattimenti della vita e le insicurezze e incertezze mi avessero completamente abbandonato. Sono immerso nella sua luce. Mi penetra con la sua forza. Mi ama.

(S. Alberto Hurtado S.J. (1901-1952), apostolo del Cile, in

Scritti spirituali “Siempre en contacto con Dios”)

 

[1] “La pastorale della salute trova il fondamento nella contemplazione del volto dolente e glorioso di Gesù Cristo, in cui il credente riconosce umilmente il suo Signore. La Chiesa, contemplando il mistero della sua passione, morte e risurrezione, apprezza la specifica valenza evangelizzatrice della pastorale della salute e la sua necessaria integrazione nella pastorale d’insieme della comunità cristiana. Gesù, infatti, ha annunciato il regno di Dio come dono di salute e di salvezza per tutti gli uomini soprattutto attraverso l’incontro con i poveri, i malati e i sofferenti. Egli si presenta come promotore di salute e agisce come Buon Samaritano. Manifestando l’amore misericordioso del Padre, si fa vicino e si prende cura delle persone malate e sofferenti, le guarisce, le restituisce alla speranza e al senso pieno della vita” (Commissione Episcopale per il servizio della carità e della salute, Nota pastorale, Predicate il Vangelo e curate i malati, La comunità cristiana e la pastorale della salute, 20)