GIOVEDI’ DELLA IV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – II
Omelia in occasione della Visita al Campus Biomedico
Cappella del Campus – Roma
Giovedì 8 febbraio 2018
È con grande gioia che, in questo giorno, celebro qui al Campus, ringraziando di cuore i cappellani e tutti voi, per questa occasione di ritrovo in preparazione alla Giornata mondiale del Malato, il prossimo 11 febbraio.
Il vangelo di oggi ci presenta una donna, disperata, come lo può essere una madre angosciata per una figlia o un figlio malato. È immagine di tante donne e di tanti uomini che, allora come ora, non cede all’ingiustizia di vedere un figlio ammalarsi o morire. I genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai figli. Proprio nella mia parrocchia, ieri mattina, ho celebrato un funerale di una giovane donna, di 51 anni. La madre, anziana, disperata, tanto più perché aveva già perso un altro figlio. Non ci sono parole per consolare. Immagino che anche qui, in un ospedale come questo, è all’ordine del giorno essere a contatto con persone che non vogliono rassegnarsi, quando la malattia colpisce una persona cara. Tante volte l’attenzione maggiore che siamo chiamati ad avere non è solo con il malato, ma con chi gli sta attorno.
Eppure Gesù sembra non darci un esempio di attenzione, in questa pagina di vangelo. Piuttosto sembra evidenziare un rifiuto, dovuto al fatto che quella madre non fosse ebrea. L’atteggiamento di Gesù è in realtà pedagogico per i suoi discepoli. Secondo la concezione del tempo si riteneva che la salvezza fosse proprietà solo del popolo giudaico. Fuori dei confini di Israele non c’era possibilità di redenzione. Gesù conosce questa chiusura del cuore – che purtroppo oggi conosciamo bene anche noi, pensando a tanti confini che mettiamo gli uni contro gli altri, per cultura, per razza, anche per religione – ed il suo rifiuto di fronte al grido di una madre è tale per far aprire il cuore dei discepoli. Perché siano loro – e noi con loro – a capire che di fronte all’umanità malata nel corpo e nello spirito non possiamo chiuderci. La malattia – lo sapete bene – non conosce età, stato sociale, cultura, religione. In un ospedale come questo passano tutti. E a tutti noi siamo chiamati ad aprire il cuore, riconoscendo al di là delle malattie, i malati, o meglio, le persone.
Gesù è colpito dalla fede di quella donna pagana – i pagani venivano soprannominati “cani” – che chiede anche solo le briciole del Pane che offre Gesù.
Se riuscissimo un po’ più, anche noi, a dare e ricevere anche una briciola di “umanità”, di servizio alla vita, di tempo, di disponibilità, di accoglienza, allora potremo fare un passo in avanti. In un momento storico in cui, come ci ricorda spesso il Papa, alcune persone sono considerati “scarti umani”, perché poveri, deboli, anziani, stranieri, e in cui anche alcune strutture sanitarie religiose rischiano di trasformarsi in aziende, noi siamo chiamati a “sbriciolare Amore”, ricordando che il medico è sempre a servizio della vita, o che qualsiasi operatore sanitario, o volontario, collabora affinché il malato possa gustare la vita, anche in mezzo alla prova.
Il demonio, che esce da quella bambina, è segno non tanto della malattia, ma di un male più grande che condiziona la vita: la mancanza di amore, di relazione, di umanità. È ciò che era successo a Salomone, re famoso per la sua sapienza e la sua capacità di governo, che ad un certo punto si perde, in preda al suo orgoglio, credendosi Dio, pensando di fare a meno di Dio. È quello che può succedere a noi, quando facciamo girare le cose intorno a noi, non curandoci degli altri, ma cercando il nostro prestigio, la nostra affermazione.
Contro questo pericolo dell’autodeterminazione, il vangelo ci invita a prenderci cura dell’altro. Noi sappiamo bene che alcune malattie, soprattutto se riconosciute in fase avanzata, non sono guaribili. Ma sappiamo che tutti i malati sono curabili. Non possiamo guarire sempre, ma sempre siamo chiamati a curare, o meglio, a prenderci cura della vita di tutti e di tutta la vita, dal concepimento alla fine naturale. Nel messaggio per la prossima giornata del malato il Papa dice: “Ovunque la chiesa cerca di curare, anche quando non è in grado di guarire. L’immagine della Chiesa come “ospedale da campo”, accogliente per tutti quanti sono feriti dalla vita, è una realtà molto concreta, perché in alcune parti del mondo sono solo gli ospedali dei missionari e delle diocesi a fornire le cure necessarie”.
Voi avete qui il grande esempio di don Alvaro del Portillo, la cui esistenza è stata sempre orientata verso l’altro, verso il povero da amare, da accogliere. Si ricorda – se non sbaglio – che una volta da giovane camminando per le strade di Madrid, trovando in una baracca quattro bambini abbandonati, li portò tre per mano e uno piccolo in spalla finché non trovò un’associazione benefica che li ospitasse.
E un giorno, parlando della necessità della collaborazione tra laici e sacerdoti, usò proprio l’immagine dell’ospedale in cui la chiesa è presente non solo con il cappellano, ma anche attraverso i medici, gli infermieri, per il bene dei pazienti. Così, questo prendersi cura dell’umanità, ha bisogno di tutti, sacerdoti, religiosi e laici. Questi ultimi, come i discepoli intorno al maestro, sono chiamati alla santità nella vita quotidiana, santificando il lavoro. Questo ospedale può e deve essere un santuario in cui la santità risplende nell’attenzione reciproca, nelle piccole cose, come nei grandi interventi a favore della salute.
A Maria, Salute degli Infermi, noi affidiamo la nostra vita, questa vostra comunità, quanti qui lavorano o studiano, e in particolare tutti i malati e le loro famiglie.
Chiediamo attraverso di lei anche una briciola dell’Amore di Dio. Ci basta questo, ci basta poco, per essere più disponibili, più attenti, più pronti a servire la vita.