Terzo giorno dei Novendiali, la Messa della Chiesa di Roma. L’omelia integrale del cardinale Reina

Di seguito l’omelia pronunciata dal cardinale vicario Baldassare Reina nella Messa della Chiesa di Roma, presieduta oggi pomeriggio, terzo giorno dei Novendiali, nella basilica di San Pietro

La mia esile voce è qui oggi a esprimere la preghiera e il dolore di una porzione di Chiesa, quella di Roma, gravida della responsabilità che la storia le ha assegnato.

In questi giorni Roma è un popolo che piange il suo vescovo, un popolo insieme ad altri popoli che si sono messi in fila, trovando uno spazio tra i luoghi della città per piangere e pregare, come pecore senza pastore.

Pecore senza pastore: una metafora che ci permette di ricomporre i sentimenti di questi giorni, e di attraversare la profondità dell’immagine che abbiamo ricevuto dal Vangelo di Giovanni, il chicco di grano che deve morire per dare frutto. Una parabola che racconta l’amore del pastore per il suo gregge.

In questo tempo, mentre il mondo brucia, e pochi hanno il coraggio di proclamare il Vangelo traducendolo in visione di futuro possibile e concreto, l’umanità appare come pecore senza pastore. Questa immagine esce dalla bocca di Gesù poggiando lo sguardo sulle folle che lo seguivano.

Attorno a Lui ci sono gli apostoli che gli riferiscono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Le parole, i gesti, le azioni apprese dal Maestro, l’annuncio del regno del Dio veniente, la necessità del cambiamento di vita, uniti a segni capaci di dare carne alle parole: una carezza, una mano tesa, discorsi disarmati, senza giudizi, liberatori, non timorosi del contatto con l’impurità. Nel compiere questo servizio, necessario a risvegliare la fede, a suscitare speranza che il male presente nel mondo non avrebbe avuto l’ultima parola, che la vita è più forte della morte, non avevano avuto neanche il tempo di mangiare.

Gesù ne avverte il peso, e questo ci conforta ora.

Gesù il vero pastore della storia che ha bisogno della sua salvezza, conosce il peso che grava su ognuno di noi nel continuare la sua missione, soprattutto mentre ci troveremo a cercare il primo dei suoi pastori sulla terra.

Come al tempo dei primi discepoli, ci sono risultati e anche fallimenti, stanchezza e timore. La portata è immensa, e si insinuano le tentazioni che velano l’unica cosa che conta: desiderare, cercare, operare in attesa di «un nuovo cielo e di una nuova terra».

E non può essere, questo, il tempo di equilibrismi, tattiche, prudenze, il tempo che asseconda l’istinto di tornare indietro, o peggio, di rivalse e di alleanze di potere, ma serve una disposizione radicale a entrare nel sogno di Dio affidato alle nostre povere mani.

Mi colpisce in questo momento quanto l’Apocalisse ci dice: «Io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo».

Un nuovo cielo, una nuova terra, una nuova Gerusalemme.

Di fronte all’annuncio di questa novità non potremmo accondiscendere a quella pigrizia mentale e spirituale che ci lega alle forme dell’esperienza di Dio e di pratiche ecclesiali conosciute nel passato e che desideriamo debbano ripetersi all’infinito, soggiogati dalla paura delle perdite connesse ai cambiamenti necessari.

Penso ai molteplici processi di riforma della vita della Chiesa avviati da papa Francesco, e che sconfinano oltre le appartenenze religiose. La gente gli ha riconosciuto di essere stato un pastore universale e la barca di Pietro ha bisogno di questa navigazione larga che sconfina e sorprende.

Questa gente porta nel cuore inquietudine e mi pare di scorgervi una domanda: che ne sarà dei processi avviati?

Nostro dovere dovrebbe essere discernere e ordinare quello che è incominciato, alla luce di quanto la nostra missione ci richiede, nella direzione di un nuovo cielo e di una nuova terra, adornando la Sposa per lo Sposo. Mentre potremmo cercare di vestire la Sposa secondo convenienze mondane, guidati da pretese ideologiche che lacerano l’unità delle vesti di Cristo.

Cercare un pastore, oggi, significa soprattutto cercare una guida che sappia gestire la paura delle perdite di fronte alle esigenze del Vangelo.

Cercare un pastore che abbia lo sguardo di Gesù, epifania dell’umanità di Dio in un mondo che ha tratti disumani.

Cercare un pastore che confermi che dobbiamo camminare insieme, componendo ministeri e carismi: siamo popolo di Dio costituito per annunciare il Vangelo.

Gesù guardando la gente che lo segue, sente vibrare dentro di sé compassione: vede donne, uomini, bambini, vecchi e giovani, poveri e malati, e nessuno che si prenda cura di loro, che possa sfamare la fame dai morsi della vita che si è fatta dura, e la fame della Parola. Lui, di fronte a quelle persone, sente di essere il loro Pane che non delude, la loro acqua che disseta senza fine, il balsamo che cura le loro ferite.

Prova la stessa compassione di Mosè che alla fine dei suoi giorni, dall’alto del monte di Abarim, di fronte alla Terra che non potrà solcare, guardando la moltitudine che aveva guidato, prega il Signore che quel popolo non si riduca a essere un gregge senza pastore, un popolo che non può trattenere con sé, un popolo che deve andare avanti.

Quella preghiera ora è la nostra preghiera, quella di tutta la Chiesa e di tutte le donne e gli uomini che domandano di essere guidati e sostenuti nella fatica della vita, tra dubbi e contraddizioni, orfani di una parola che orienti tra canti di sirene che lusingano gli istinti di autoredenzione, che spezzi le solitudini, raccolga gli scarti, che non si arrenda alla prepotenza, e abbia il coraggio di non piegare il Vangelo ai tragici compromessi della paura, alla complicità con logiche mondane, ad alleanze cieche e sorde ai segni dello Spirito Santo.

La compassione di Gesù è quella dei profeti che manifestano la sofferenza di Dio nel vedere il popolo disperso e abusato dai cattivi pastori, dai mercenari che si servono del gregge, e che fuggono quando vedono arrivare il lupo. Ai cattivi pastori non gliene importa nulla delle pecore, le abbandonano nel pericolo, e per questo saranno rapite e disperse.

Mentre il pastore buono offre la vita per le sue pecore.

Di questa disposizione radicale del pastore parla la pagina del Vangelo di Giovanni proclamato in questa liturgia eucaristica, e che ci presenta la testimonianza di come Gesù riesce a vedere oltre la morte, quando sarebbe venuta l’ora che avrebbe glorificato la sua missione. L’ora della morte in croce che manifesta l’amore incondizionato per tutti.

«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo». Il chicco di grano che ha cercato la terra con l’ incarnazione del Verbo, caduto per rialzare chi cade, venuto a cercare chi si è perduto.

La sua morte è una semina che ci lascia sospesi a quell’ora, in cui il seme non si vede più, avvolto dalla terra che lo nasconde facendoci temere che sia stato sprecato. Una sospensione che ci potrebbe angosciare, ma che può diventare soglia della speranza, fessura nel dubbio, luce nella notte, giardino di Pasqua.

La fecondità promessa appartiene alla disposizione alla morte; divenire frumento masticato, ostaggio dell’infedeltà e dell’ingratitudine a cui Gesù, il buon pastore che offre la vita per le sue pecore, risponde con il perdono richiesto al Padre, mentre muore abbandonato dai suoi amici.

Il pastore buono semina con la propria morte, perdonando i nemici, preferendo la loro salvezza, la salvezza di tutti, alla propria.

Se vogliamo essere fedeli al Signore, al chicco di grano caduto in terra, dobbiamo farlo seminando con la nostra vita.

E come non possiamo ricordare il Salmo: «chi semina nel pianto mieterà nella gioia»!

Ci sono tempi come il nostro in cui, come l’agricoltore a cui fa riferimento il salmista, seminare diventa un gesto estremo, mosso dalla radicalità di un atto di fede.

È tempo di carestia, il seme gettato sulla terra è quello sottratto all’ultima scorta senza la quale si muore. Il contadino piange perché sa che questo ultimo atto gli sta chiedendo di mettere a rischio la vita.

Ma Dio non abbandona il suo popolo, non lascia soli i suoi pastori, non permetterà come per il Figlio che Egli sia abbandonato nel sepolcro, nella tomba della terra.

La nostra fede custodisce la promessa di una mietitura gioiosa ma che dovrà passare dalla morte del seme che è la nostra vita.

Quel gesto estremo, totale, estenuante, del seminatore mi ha fatto ripensare al giorno di Pasqua di papa Francesco, a quel riversarsi senza risparmio nella benedizione e nell’abbraccio al suo popolo, il giorno prima di morire. Ultimo atto del suo seminare senza risparmio l’annuncio delle misericordie di Dio.

Grazie papa Francesco.

Maria, la Vergine santa che noi, a Roma, veneriamo Salus populi romani, che affianca e veglia ora le sue spoglie mortali, accolga la sua anima e ci protegga nel seguitare la sua missione. Amen

Baldassare Card. Reina
(Vicario Generale per la Diocesi di Roma)

28 aprile 2025