21 Agosto 2025

Divino Amore, alla scuola di don Umberto Terenzi

Dimorare nell’amore di Dio vivendo quotidianamente la relazione con Lui: questo impegno a “rimanere nel Signore” è stato il cuore dell’omelia dell’arcivescovo Angelo De Donatis, vicario del Papa per la diocesi di Roma, che ieri mattina, 3 gennaio, ha celebrato l’Eucaristia nella chiesa parrocchiale Santa Famiglia, presso il santuario del Divino Amore, in occasione della quinta Giornata terenziana. «Nel giorno dell’anniversario della morte di don Umberto Terenzi, primo rettore e parroco del santuario mariano – ha spiegato don Domenico Parrotta, direttore del Centro studi terenziani -, noi  figli e figlie della Madonna del Divino Amore ci dedichiamo all’approfondimento e alla riscoperta del carisma del nostro fondatore».

Ed è anche guardando a don Terenzi che De Donatis ha commentato la Parola del giorno, in particolare la prima lettera di san Giovanni apostolo: «Don Umberto invitava ad invocare il Signore in ogni momento della vita, non solo in chiesa ma anche sulla strada, e in particolare nello sconcerto», ha detto il presule facendo riferimento a un’omelia del 1962. «Solo vivendo l’amore che il Padre ci ha donato nel Figlio – ha proseguito -, fatto di gesti concreti e parole sincere, possiamo accogliere la bellezza originaria dalla quale spesso, a motivo del peccato, ci allontaniamo». De Donatis ha sottolineato quanto risultino vani «gli sforzi che ciascuno di noi compie nel tentativo di essere perfetto, e cioè santo, senza peccato», per questo è importante accogliere le parole dell’apostolo Giovanni che «nella sua lettera indica la strada da seguire: lasciarsi generare da Dio perché santità e giustizia sono il frutto dell’amore del Padre». Quindi, l’invito a iniziare ogni giornata del nuovo anno facendo memoria «del grande dono che in Cristo, Agnello di Dio, abbiamo ricevuto» e l’auspicio che «ciascuno possa comprendere che solo in Gesù trova compimento ogni nostro desiderio».

Dopo la Messa, i sacerdoti oblati e le suore figlie della Madonna del Divino Amore hanno condiviso il pranzo comunitario alla Casa del pellegrino. Nel pomeriggio, poi, spazio alla catechesi di suor Giuseppina Di Salvatore, iconografa, che ha realizzato tre pannelli benedetti proprio nella giornata di ieri e posti nella cappella del Seminario della Madonna del Divino Amore. «Le icone carismatiche, raffiguranti l’Annunciazione, la Pentecoste e Maria e Giovanni sotto la croce – ha spiegato don Parrotta – hanno valore vocazionale e saranno preziose per guidare la preghiera e la meditazione personale». Infine, la conclusione con la recita solenne del vespro.

In mattinata era stato presentato il terzo volume di un’edizione critica dei Diari spirituali di don Terenzi relativo ai primi sei anni di attività a Castel di Leva, nucleo originario dell’attuale santuario, «anni importantissimi per le intuizioni carismatiche, semi che oggi vediamo germogliare» ha spiegato ancora don Parrotta. «Per la nostra comunità – ha concluso il religioso – questa è una giornata di interesse spirituale che ci vede riuniti intorno al nostro padre carismatico: è lui che ci ha generati all’amore verso la Madre di Dio e a suo Figlio, per essere i diffusori di questo Divino Amore fino agli estremi confini della terra».

Inizio anno

Durante questi giorni di festa ho pensato a quale sarebbe potuto essere il modo migliore di iniziare l’anno per questa rubrica. Ho appuntato diverse idee che avrò modo di condividere prossimamente, visto che di tante che mi sono ronzate in testa alla fine è stato un episodio capitatomi recentemente a convincermi di essere quello giusto per questo inizio 2018. Lo racconto brevemente.

A inizio dicembre mi invitano per una conferenza su adolescenti e mondo digitale, tema sempre più richiesto e su cui nell’ultimo anno ho avuto modo di intervenire e scrivere spesso. Arrivo sul posto con una relazione rodata e verificata in numerose formazioni con docenti, educatori, genitori e gli stessi adolescenti: parlerò dei social e dei loro processi, di Instagram e di Whatsapp, di echo chamber e drifting postmoderno, di storylling digitale e nuove sintassi mentali della Generazione Zero; lo farò in modo comprensibile e accattivante, susciterò un bel dibattito e l’incontro funzionerà alla grande.

Quando entro nella sala, una bella sala di un complesso al centro del paese che mi ospita, sistemo il pc, carico il prezi dell’intervento, scambio quattro chiacchiere con il signore che si occupa del proiettore. L’ambiente in realtà è semivuoto, probabilmente verrà poca gente, mi dico «pazienza», esco per una breve telefonata a casa prima di iniziare. Quando rientro ecco la sorpresa: la sala si è riempita in tutti i posti, addirittura vedo portare sedie aggiuntive, c’è tanta gente. Resto sorpreso non tanto per l’affluenza inaspettata, quanto per il fatto che non abbia assolutamente visto passare tutte quelle persone, nonostante mi fossi fermato a telefonare su quella che mi era sembrata essere l’unica porta di accesso. Guadagno la via per il tavolo, mi siedo, si avvicina una signora che mi saluta cordialmente, è l’organizzatrice dell’incontro: «Buonasera professore, sono Cristina, ci siamo sentiti telefonicamente, se per lei va bene attendiamo cinque minuti, la tombolata nell’altra sala del centro è appena finita».

Volgo lo sguardo verso l’assemblea con in testa quella parola, «tombolata», inizio a notare ovunque persone anziane, alcune davvero molto anziane. «Ah, avete giocato a tombola?» dico sorridendo alla signora Cristina. «Sì, qui al centro anziani a dicembre lo facciamo ogni venerdì» mi risponde. «Centro anziani» ripeto io meccanicamente, «e quanti anziani ci sono qui al centro anziani?» aggiungo sorridendo, ma in realtà nella mia mente rimbomba questo pensiero: «Sono in un centro anziani? Ma mica me l’avevano detto! E adesso che gli dico? Ma che capiscono della relazione che ho preparato? Questi a malapena hanno utilizzato il telefono della Sip, come glielo spiego come funziona la viralizzazione di un post?!».

«Sì certo, ci sono molti anziani, abbiamo anche diversi novantenni! Sa professore, durante la riunione del gruppo che organizza gli eventi è venuta fuori l’idea di farne uno per capire come funzionano questi impiastri a cui stanno sempre appiccicati i nipoti, così abbiamo chiesto e ci hanno consigliato il suo nome». «Benissimo – rispondo solare -, proveremo a dire qualcosa sugli smartphone (gli impiastri) che sia comprensibile a tutti» ma in realtà sprofondo nella certezza che di quello che ho preparato nessuno realisticamente capirà una virgola. «Pazienza – mi ridico -, provo a dire le cose semplicemente, se poi non capiranno non sarà colpa mia ma di chi ha organizzato».

Inizia la conferenza, mi sforzo di essere semplice, spiego ogni passaggio che potrebbe essere ostico, a tratti sento alcune espressioni davvero troppo lontane, a tratti sento comunque un’attenzione partecipe, fatto sta che riesco a parlare per circa un’ora con la sensazione di non essere stato proprio un marziano. «Ringraziamo il professore per l’interessantissima lezione – dice soddisfatta la signora Cristina -. Se qualcuno volesse chiedere qualcosa o chiarire qualche dubbio ora può, del resto le informazioni sono state tante e certo anche un po’ lontane dalla nostra esperienza».

Intervengono un paio di persone. Una signora fa una prevedibile tirata apocalittica all’insegna del tutto è perduto. Ci sta. Un altro fa i complimenti ma mi rimprovera di avere parlato troppo velocemente. Quando la signora Cristina sta per sciogliere l’assemblea nei saluti finali alza la mano un signore distinto (e davvero molto anziano) che per tutto il tempo mi ha osservato dalla prima fila. Mi dice queste parole, che riporto qui a memoria:

«Caro professore, io la ringrazio tanto per la sua conferenza. Come lei immaginerà noi tutti abbiamo nipoti che usano questi telefoni e certo noi non ci capiamo proprio niente di questi arnesi. Io comunque qualche messaggino lo mando, sono uno che si aggiorna, ecco il mio cellulare. Io professore non potrò imparare mai tutte le cose che ci ha spiegato e forse nemmeno mio figlio e la mia nuora possono farlo per tenere a bada il mio caro nipote. Questi figli saranno sempre più avanti, sa professore, ci sono nati con gli arnesi in mano! Ma una cosa io la posso e la devo fare professore: io a mio nipote so insegnare la speranza. E lo faccio ogni volta che lo vedo. Ci parlo e gli insegno la speranza. Io vengo dalla guerra sa professore? E glielo dico sempre a mio figlio quando si lamenta di continuo di mio nipote che certo che lo deve riprendere, che certe cose non stanno bene, ma che non deve togliergli la speranza. Guai! Hanno una vita davanti, pensi che bellezza! Perché sa professore, a volte questi ragazzi mi sembrano tristi ma io non penso perché ci sono tutti questi pericoli tecnologici. Io penso invece che il vero pericolo per loro sono quelli che non gli insegnano più la speranza. Questi genitori mica la insegnano la speranza, e nemmeno la scuola! Lei la insegna la speranza? E la speranza caro professore serve anche per questo mondo digitale che lei tanto gentilmente ci ha spiegato. La speranza è come il pane professore, e per i figli il pane è ancora più necessario. La speranza professore! Non se la scordi mai!».

Resto in silenzio, non riesco a dire che un «grazie», partecipo a un applauso per niente retorico ma carico di senso. Un applauso nitido nell’indicare una direzione seria e precisa a chiunque, genitore o educatore che sia, abbia anche quest’anno il privilegio di accompagnare i nostri ragazzi nel mistero sorprendente della vita. A tra quindici giorni.

Lutto in diocesi: morto don Antonio Nicolai

Un sacerdote sempre sorridente, impegnato a largo raggio tanto nella pastorale familiare quanto nell’assistenza ai poveri e agli ammalati, capace di coinvolgere e ascoltare tutti con grande pazienza. Questo era don Antonio Nicolai, parroco per 36 anni a Santa Lucia e giudice esterno del Tribunale di appello, morto la mattina di Natale a 79 anni. Una folla immensa ha partecipato ai funerali che si sono svolti nella “sua” parrocchia il 26 dicembre, celebrati dal vicario del Papa per la diocesi di Roma, l’arcivescovo Angelo De Donatis.

Don Pablo Walter Castiglia, attuale segretario particolare del vicario, è stato per dieci anni vice parroco di don Antonio e ricorda la sua grande capacità di accogliere chiunque si trovasse ad affrontare un momento di difficoltà, la sua attenzione verso gli ammalati e le loro famiglie. «Quando moriva qualcuno – racconta – per lungo tempo rimaneva accanto alla famiglia per portare una parola di conforto». Era una persona «molto positiva, di grande intelligenza e al passo con i tempi nonostante l’età» e da lui don Pablo ha imparato a «non arrendersi mai e a lottare sempre in quello in cui si crede, cercando sempre un modo per risolvere i problemi. Per me – aggiunge – era un punto di riferimento importante e mi dava tanta sicurezza».

Monsignor Giorgio Corbellini, vescovo titolare di Abula, lo ha conosciuto nel novembre 1981 quando era un sacerdote studente e fu accolto da don Antonio in qualità di collaboratore parrocchiale. Ricorda la sua particolare attenzione verso gli sposi. «Non concludeva mai una messa senza includere nella benedizione anche le famiglie – afferma -. Aveva per loro un’attenzione particolare e ha sempre lavorato molto per favorire una pastorale nelle modalità più varie come per esempio con le equipe Notre-Dame, movimento laicale di spiritualità coniugale». Non solo. Don Antonio era sempre pronto ad accogliere nuovi collaboratori e si circondava di giovani sacerdoti; in modo particolare, ha ospitato per anni i preti della diocesi di Gozo (Malta) perché «aveva bisogno di cooperatori per portare avanti le tante attività che avviava», aggiunge Corbellini, che a distanza di quasi 40 anni è rimasto particolarmente legato alla parrocchia di Santa Lucia e la domenica spesso offre il suo aiuto per le confessioni.

Per i poveri del quartiere Monte Mario monsignor Nicolai ha avviato nel 1989 una mensa, attiva tutt’ora, nella quale vengono serviti ogni settimana due pranzi, il lunedì e il mercoledì, e una cena, il venerdì. I suoi modi semplici e familiari hanno convinto tanti commercianti della zona a fornire alimenti per la mensa e coinvolto medici e avvocati a prestare assistenza sanitaria e legale a favore delle persone meno agiate. «Era ben voluto da tutti – riferisce ancora don Giorgio -. Era aperto e gioviale, con un innato desiderio di avvicinare la gente e seminare gli insegnamenti del Vangelo. Da lui ho imparato l’attenzione concreta verso le persone».

Francesco: «Il peccato taglia, separa, divide»

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Riprendendo le catechesi sulla celebrazione eucaristica, consideriamo oggi, nel contesto dei riti di introduzione, l’atto penitenziale. Nella sua sobrietà, esso favorisce l’atteggiamento con cui disporsi a celebrare degnamente i santi misteri, ossia riconoscendo davanti a Dio e ai fratelli i nostri peccati, riconoscendo che siamo peccatori. L’invito del sacerdote infatti è rivolto a tutta la comunità in preghiera, perché tutti siamo peccatori. Che cosa può donare il Signore a chi ha già il cuore pieno di sé, del proprio successo? Nulla, perché il presuntuoso è incapace di ricevere perdono, sazio com’è della sua presunta giustizia. Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano, dove soltanto il secondo – il pubblicano – torna a casa giustificato, cioè perdonato (cfr Lc 18,9-14). Chi è consapevole delle proprie miserie e abbassa gli occhi con umiltà, sente posarsi su di sé lo sguardo misericordioso di Dio. Sappiamo per esperienza che solo chi sa riconoscere gli sbagli e chiedere scusa riceve la comprensione e il perdono degli altri.

Ascoltare in silenzio la voce della coscienza permette di riconoscere che i nostri pensieri sono distanti dai pensieri divini, che le nostre parole e le nostre azioni sono spesso mondane, guidate cioè da scelte contrarie al Vangelo. Perciò, all’inizio della Messa, compiamo comunitariamente l’atto penitenziale mediante una formula di confessione generale, pronunciata alla prima persona singolare. Ciascuno confessa a Dio e ai fratelli «di avere molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni». Sì, anche in omissioni, ossia di aver tralasciato di fare il bene che avrei potuto fare. Spesso ci sentiamo bravi perché – diciamo – “non ho fatto male a nessuno”. In realtà non basta non fare del male al prossimo, occorre scegliere di fare il bene cogliendo le occasioni per dare buona testimonianza che siamo discepoli di Gesù. È bene sottolineare che confessiamo sia a Dio che ai fratelli di essere peccatori: questo ci aiuta a comprendere la dimensione del peccato che, mentre ci separa da Dio, ci divide anche dai nostri fratelli, e viceversa. Il peccato taglia: taglia il rapporto con Dio e taglia il rapporto con i fratelli, il rapporto nella famiglia, nella società, nella comunità. Il peccato taglia sempre, separa, divide.

Le parole che diciamo con la bocca sono accompagnate dal gesto di battersi il petto, riconoscendo che ho peccato proprio per colpa mia, e non di altri. Capita spesso infatti che, per paura o vergogna, puntiamo il dito per accusare altri. Costa ammettere di essere colpevoli ma ci fa bene confessarlo con sincerità. Confessare i propri peccati. Io ricordo un aneddoto, che raccontava un vecchio missionario, di una donna che è andata a confessarsi e incominciò a dire gli sbagli del marito; poi è passata a raccontare gli sbagli della suocera e poi i peccati dei vicini. A un certo punto, il confessore le ha detto: “Ma, signora, mi dica: ha finito? Benissimo: lei ha finito con i peccati degli altri. Adesso incominci a dire i suoi”. Dire i propri peccati!

Dopo la confessione del peccato, supplichiamo la Beata Vergine Maria, gli Angeli e i Santi di pregare il Signore per noi. Anche in questo è preziosa la comunione dei Santi: cioè, l’intercessione di questi «amici e modelli di vita» (Prefazio del 1° novembre) ci sostiene nel cammino verso la piena comunione con Dio, quando il peccato sarà definitivamente annientato.

Oltre al “Confesso”, si può fare l’atto penitenziale con altre formule, ad esempio: «Pietà di noi, Signore / Contro di te abbiamo peccato. / Mostraci, Signore, la tua misericordia. / E donaci la tua salvezza» (cfr Sal 123,3; 85,8; Ger 14,20). Specialmente la domenica si può compiere la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del Battesimo (cfr OGMR, 51), che cancella tutti i peccati. È anche possibile, come parte dell’atto penitenziale, cantare il Kyrie eléison: con antica espressione greca, acclamiamo il Signore – Kyrios – e imploriamo la sua misericordia (ibid., 52).

La Sacra Scrittura ci offre luminosi esempi di figure “penitenti” che, rientrando in sé stessi dopo aver commesso il peccato, trovano il coraggio di togliere la maschera e aprirsi alla grazia che rinnova il cuore. Pensiamo al re Davide e alle parole a lui attribuite nel Salmo: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità» (51,3). Pensiamo al figlio prodigo che ritorna dal padre; o all’invocazione del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13). Pensiamo anche a san Pietro, a Zaccheo, alla donna samaritana. Misurarsi con la fragilità dell’argilla di cui siamo impastati è un’esperienza che ci fortifica: mentre ci fa fare i conti con la nostra debolezza, ci apre il cuore a invocare la misericordia divina che trasforma e converte. E questo è quello che facciamo nell’atto penitenziale all’inizio della Messa.

Dalla Congregazione per il clero arriva “Clerus App”

È destinata a sacerdoti, parroci ma anche a quanti vogliano avere a disposizione un commento alla Parola della liturgia domenicale “Clerus App”, la nuova applicazione dedicata alle omelie proposta dalla Congregazione per il clero, in collaborazione con la Segreteria per la comunicazione. Ogni settimana, il giovedì, vengono proposti suggerimenti, meditazioni e commenti utili per la domenica successiva, curati dal teologo gesuita padre Marko Ivan Rupnik. L’applicazione include la possibilità di ascoltare la lettura vocale del testo, di inserire note, archiviare i commenti e scaricare i contenuti in modalità off-line e condividerli sui social. Sul testo delle omelie di Rupnik è possibile scegliere la grandezza del carattere, optare fra due colori di sfondo e regolare la luminosità. Disponibile per i sistemi IoS e Android, si può scaricare da Google Play Store e nell’App Store della Apple.

Morto don Mayer, il prete del cinema

Aveva 99 anni don Emilio Mayer, il “prete del cinema” di Bergamo morto ieri, martedì 2 gennaio. Storico direttore del Servizio assistenza sale del capoluogo lombardo dal 1965 al 2008, nonché presidente Acec dal 1981 al 1999, è stato «un “prete di frontiera” sul versante della comunicazione», dichiara il presidente dell’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec) don Adriano Bianchi. «Don Emilio – ricorda – ci teneva molto che anche i giovani preti fossero introdotti all’arte cinematografica, che riteneva fondamentale per il loro cammino di formazione».

Fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale, don Mayer aveva scoperto il cinema come spazio di incontro e dialogo. «Se in chiesa parla solo il sacerdote – era solito sottolineare – nelle sale dei nostri oratori parla anche la gente. C’è dialogo e questa è un’occasione preziosa per pre-evangelizzare. Molto spesso ho visto partecipare ai cineforum, anche attivamente, persone che non avevano mai messo piede in chiesa». Proprio per questo era stato promotore dei cineforum nella Sale della comunità lombarde, organizzando numerosi incontri alla settimana sul territorio. E parlando della sua storia personale, raccontava: «Come prete sono partito da un cinema considerato ricreazione e divertimento per scoprirne poi la componente culturale e pastorale. A Gandino, dove ero curato nel ’45, ho cominciato con il cineforum in una sala senza vetri per via di uno scontro tra partigiani e repubblichini e la gente veniva al cinema portandosi un mattone riscaldato per non gelare».

Il segretario generale dell’Acec Francesco Giraldo ricorda la sua «umanità sensibile» e la sua «fede inquieta, di chi è sempre alla ricerca di risposte mai consolatorie, come era del resto per i film che don Emilio prediligeva». Anche per don Ivan Maffeis, direttore dell’Ufficio Cei per le comunicazioni sociali oltre che sottosegretario della Conferenza dei vescovi, «la Chiesa cattolica italiana non può che ricordare con attenzione e partecipazione la scomparsa di questo pastore, che ha usato il cinema per stare accanto al suo gregge, per sfiorare l’animo delle persone attraverso l’arte cinematografica».

Un «grazie» al sacerdote scomparso arriva anche da Masismo Giraldi, presidente della Commissione nazionale valutazione film della Cei. «Se il cinema è riuscito ad animare la vita del territorio prima lombardo poi italiano – dichiara Giraldi – lo si deve anche a don Emilio Mayer, che ha saputo comprendere la portata socioculturale, pastorale ed educativa della settima arte, del grande schermo. Don Emilio si è messo in gioco per il territorio – continua -, rendendo accessibile a tutti lo sguardo di tanti importanti autori del cinema. La Commissione nazionale valutazione film ha lavorato in piena sinergia con lui nei molti anni di attività».

Letture teologiche 2018 dedicate ai padri dell’Europa

Tre serate dedicate a tre uomini che hanno fatto l’Europa. Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman saranno al centro delle Letture teologiche organizzate a gennaio dalla diocesi. Il primo appuntamento, come gli altri due presieduto e moderato dal presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, sarà dedicato a De Gasperi, primo presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica. Giovedì 11 gennaio alle 20, nell’Aula della Conciliazione del Palazzo Lateranense (piazza di San Giovanni in Laterano 6) su “Le basi morali della democrazia” interverranno monsignor Mario Toso, vescovo di Faenza–Modigliana; Giuseppe Tognon, docente alla Lumsa e presidente della Fondazione trentina Alcide De Gasperi, e Alessandro Pajno, presidente del Consiglio di Stato.

Il secondo incontro, dedicato a “L’economia al servizio dello sviluppo umano e sociale”, sul Cancelliere federale tedesco che traghettò la Germania dal nazismo alla democrazia. Giovedì 18 (stesso orario) parleranno di Konrad Adenauer monsignor Lorenzo Leuzzi, vescovo di Teramo; Mario De Caro, docente a Roma Tre, e Bianca Maria Farina, presidente di Poste Italiane. Ultimo appuntamento, giovedì 25 gennaio, “Identità e integrazione: la prospettiva europea”, dedicato al presidente del Consiglio francese Robert Schuman. Ne parleranno padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di scienze storiche; Maria Chiara Malaguti, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed Elisabetta Belloni, segretario generale del ministero degli Affari Esteri.

Tutti e tre gli incontri, animati musicalmente dal sistema Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica) del ministero dell’Istruzione, saranno conclusi dal vicario Angelo De Donatis. Per l’accesso è necessario confermare la presenza alla segreteria organizzativa: tel. 06.69886584, ufficiopastoraleuniversitaria@vicariatusurbis.org.

La “Via Pulchritudinis”, quattro giornate sull’arte sacra

«Molte volte c’è una sciatteria nelle nostre celebrazioni che mette paura». A lanciare il grido d’allarme, a proposito degli abiti e degli arredi liturgici, è stato l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, presentando prima di Natale, nella Sala Marconi della Radio Vaticana, “Via Pulchritudinis”: quattro giorni, dal 3 al 6 febbraio 2018, per «riflettere su quello che è oggi l’arte religiosa» nelle sue varie forme – dalla pittura alla musica, dalla scultura all’architettura – grazie alla prima Expo internazionale dedicata all’arte sacra, organizzata da Fiera Roma e Fivit in collaborazione con il dicastero vaticano.

Di “Via Pulchritudinis”, ha ricordato Fisichella a proposito di una delle competenze del suo dicastero, «parla Papa Francesco in uno dei suoi primi documenti, la Evangelii gaudium, da lui stesso definita il documento programmatico del pontificato». Per il Papa, l’annuncio cristiano «non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella», e la “Via Pulchritudinis” aiuta la trasmissione della fede, compito che implica anche «il coraggio di trovare nuovi segni, nuovi simboli e nuove espressioni».

Quattro i temi principali della rassegna, uno per ogni giornata: musica sacra; architettura e spazio liturgico; arredi liturgici; scultura, mosaico, vetrate. Il primo giorno, 3 febbraio, è in programma una tavola rotonda sulla musica sacra, e si concluderà alle ore 19 con un concerto nella Cappella Sistina per tutti i partecipanti. Il 4 febbraio è dedicato all’architettura e allo spazio liturgico e prevede una tavola rotonda, alle 15.30, cui parteciperanno l’architetto Andrea Longhi, docente di storia dell’architettura al Politecnico di Torino, il liturgista Crispino Valenziano e monsignor Stefano Russo, vescovo di Fabriano–Matelica e già direttore dell’Ufficio Cei per i beni culturali. Tra le domande della tavola rotonda, due quelle anticipate da Fisichella: «Come si costruisce una chiesa, e chi costruisce una chiesa, un architetto credente o un architetto famoso non credente? Si devono copiare gli stili antichi, come il romanico o il gotico, oppure ogni volta che si entra in una chiesa moderna ci si deve imbattere in una chiesa brutta?».

Il 5 febbraio si parlerà di arredi liturgici con una tavola rotonda, alle 15.30, cui parteciperanno monsignor Corrado Maggioni, sottosegretario della Congregazione per il Culto divino e i sacramenti, il liturgista Giorgio Bonaccorso e Sara Piccolo Paci, docente di storia dell’arte e di storia del costume, della moda e di antropologia culturale. La tavola rotonda conclusiva, il 6 febbraio alle 15.30, è infine dedicata “al ruolo dei musei nell’arte sacra di oggi”, con la partecipazione di padre Marko Rupnik, uno dei massimi esperti al mondo nell’arte dei mosaici, Antonio Paolucci, direttore emerito dei Musei Vaticani, e Carla Benelli, consulente e storica dell’arte al Mosaic Center di Gerico, in Palestina.

Per ogni giornata verrà dato spazio all’esposizione di un’opera d’arte legata al tema del giorno: il 4 febbraio il bozzetto della Scala Regia di Gian Lorenzo Bernini; il 5 febbraio il piviale e la mitra delle aperture degli Anni Santi 1975, 1983, 2000, 2016; martello e cazzuole usati nell’Anno Santo 1975 e una copia della tiara di Pio XII. Il 6 febbraio i convegnisti potranno ammirare la statua di Gesù Buon Pastore realizzata tra la fine del III secolo l’inizio del IV, uno dei pezzi di maggior pregio dei Musei Vaticani.

A Sant’Igino il presepe napoletano di Agostino

In un giorno di ottobre dello scorso anno un signore napoletano di novant’anni, Agostino Gragnaniello, si decise a fare la telefonata a cui aveva pensato tanto. Chiamò un amico, don Giuseppe Petrioli, che aveva conosciuto perché in precedenza vice parroco della comunità della sua zona, e parlò: per decenni aveva lavorato con dedizione a un presepe che teneva nel suo magazzino, un’opera enorme e rifinita nel più piccolo dettaglio, e che ora era pronto a donare. Don Giuseppe, che abbiamo incontrato nella sua nuova parrocchia di Sant’Igino Papa, nel quartiere Collatino, ricorda bene quella telefonata, e ci racconta tutto proprio davanti allo sbalorditivo lavoro del signor Agostino. Che, già molto anziano, non ebbe modo di vederlo allestito, perché, ammalato, fu costretto poco prima dell’inaugurazione alle cure in ospedale. Morì nel marzo seguente.

«Ci siamo conosciuti circa dieci anni fa durante la benedizione della casa – spiega don Giuseppe – e subito mi disse che voleva mostrarmi una cosa. Mi accompagnò nello scantinato e lì rimasi a bocca aperta: c’erano trentasei metri quadrati di presepe, composti da pezzi diversi e incastrati gli uni agli altri. Un capolavoro». Questo capolavoro si mostra ai fedeli di questa parrocchia dall’8 dicembre al 2 febbraio; seguendo la tradizione che vuole il presepe esposto dal giorno dell’Immacolata a quello della Presentazione di Gesù al Tempio (la “Candelora”). Il momento dell’inaugurazione, racconta il parroco, è sempre un momento toccante: «Anche per questa edizione erano presenti i familiari di Agostino. C’è stata molta commozione da parte della gente. Un anno fa, durante l’assemblea, ci fu un lungo applauso e una donna spontaneamente gridò una benedizione ad Agostino». Il quale aveva iniziato ad esercitare la sua arte da ragazzino a Napoli, nel Vomero, dove faceva il garzone e contemporaneamente si prestava a realizzare i presepi “dei signori”, cioè delle famiglie più abbienti. E non smise più.

Giunto a Roma da adulto, proseguì con passione e discrezione. «Aveva pensato ogni edificio come un pezzo serrato, stretto agli altri – spiega don Giuseppe mostrandoci l’allestimento attuale, per il quale sono stati necessari due mesi di lavoro e una decina di persone -, insomma una specie di borgo. Per motivi di spazio lo abbiamo ridotto di oltre la metà, scegliendo tra la grande varietà di strutture». La scena proposta per questo Natale colloca intorno alla grotta molti spazi verdi ricreati con piante vere, e concede qualcosa alla curiosità dei bambini per la presenza di elementi meccanici e luci. «Questo presepe era il cuore del suo cuore – dice don Giuseppe -. Ricordo ancora che quando portammo via i pezzi, con un camioncino, Agostino stava in finestra a guardare, in silenzio. Osservava la sua vita andare via. Noi tutti gli dobbiamo qualcosa». (Alessio Nannini)

L’appello del Papa per migranti e rifugiati

Nel primo Angelus del 2018, Giornata mondiale della pace dedicata quest’anno al tema “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”, Papa Francesco ha rinnovato il suo appello alla comunità internazionale. «È importante che da parte di tutti, istituzioni civili, realtà educative, assistenziali ed ecclesiali – ha ribadito -, ci sia l’impegno per assicurare ai rifugiati, ai migranti, a tutti un avvenire di pace». L’esempio additato da Francesco è quello di Maria,  che, «come madre, svolge una funzione molto speciale: si pone tra suo Figlio Gesù e gli uomini nella realtà delle loro privazioni, indigenze e sofferenze. Intercede, consapevole che in quanto madre può, anzi, deve far presente al Figlio i bisogni degli uomini, specialmente i più deboli e disagiati».

Proprio a loro, ai più deboli è disagiati, era dedicata la giornata di ieri, 1° gennaio. «Desidero, ancora una volta, farmi voce di questi nostri fratelli e sorelle che invocano per il loro futuro un orizzonte di pace – le parole del pontefice -. Per questa pace, che è diritto di tutti, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, ad affrontare fatiche e sofferenze». Di qui l’esortazione: «Non spegniamo la speranza nel loro cuore; non soffochiamo le loro aspettative di pace! Ci conceda il Signore di operare in questo nuovo anno con generosità per realizzare un mondo più solidale e accogliente», l’auspicio per l’anno nuovo. L’invito è a «pregare per questo», affidando a Maria il 2018 appena iniziato. «I vecchi monaci russi mistici – ha aggiunto Francesco parlando a braccio – dicevano che in tempo di turbolenze spirituali era necessario raccogliersi sotto il manto della Santa Madre di Dio. Pensando a tante turbolenze di oggi, e soprattutto ai migranti e rifugiati, preghiamo come loro ci hanno insegnato a pregare: Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta».

Parlando alla folla che riempiva la piazza, il Papa a rivolto a tutti, «sulla soglia del 2018», il suo augurio di «ogni bene per il nuovo anno», ringraziando anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per le parole a lui rivolte nel discorso di fine anno. Per tutto il popolo italiano Francesco ha auspicato «un anno di serenità e di pace, illuminato dalla costante benedizione di Dio». Da ultimo l’apprezzamento e la gratitudine «per le molteplici iniziative di preghiera e di azione per la pace, organizzate in ogni parte del mondo in occasione dell’odierna Giornata mondiale della pace». A cominciare dalla Marcia nazionale che si è svolta la sera dell’ultimo dell’anno a Sotto il Monte, promossa da Cei, Caritas Italiana, Pax Christi e Azione Cattolica. Il saluto del Papa poi è andato anche ai partecipanti alla manifestazione “Pace in tutte le terre”, promossa a Roma e in molti Paesi dalla Comunità di Sant’Egidio: «Cari amici – ha detto -, vi incoraggio a portare avanti con gioia il vostro impegno di solidarietà, specialmente nelle periferie delle città, per favorire la convivenza pacifica».

Il Papa: «Dio è vicino all’umanità come un bimbo alla madre»

Il nuovo anno si apre «nel nome della Madre di Dio». Lo ha sottolineato Francesco introducendo ieri, 1° gennaio, l’omelia della Messa della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, nell’ottava di Natale e nella ricorrenza della 51ª Giornata mondiale della pace, dedicata ai migranti e ai rifugiati. Riflettendo sul «titolo più importante della Madonna», vale a dire “Madre di Dio”, il Papa ha osservato che «in queste parole è racchiusa una verità splendida su Dio e su di noi e cioè che, da quando il Signore si è incarnato in Maria, da allora e per sempre, porta la nostra umanità attaccata addosso. Non c’è più Dio senza uomo – ha affermato -. La carne che Gesù ha preso dalla Madre è sua anche ora e lo sarà per sempre». L’espressione “Madre di Dio”, secondo Francesco, «ci ricorda questo: Dio è vicino all’umanità come un bimbo alla madre che lo porta in grembo».

Nella parola “madre” – in latino “mater” -, però, c’è anche il rimando alla parola “materia”: «Nella sua Madre, il Dio del cielo, il Dio infinito si è fatto piccolo, si è fatto materia, per essere non solo con noi ma anche come noi», le parole di Francesco. Ecco allora «il miracolo, la novità: l’uomo non è più solo; mai più orfano, è per sempre figlio. L’anno si apre con questa novità. E noi la proclamiamo così, dicendo: Madre di Dio!. È la gioia di sapere che la nostra solitudine è vinta – ha proseguito il Papa -. È la bellezza di saperci figli amati, di sapere che questa nostra infanzia non ci potrà mai essere tolta. È specchiarci nel Dio fragile e bambino in braccio alla Madre e vedere che l’umanità è cara e sacra al Signore». Per questo allora «servire la vita umana è servire Dio e ogni vita, da quella nel grembo della madre a quella anziana, sofferente e malata, a quella scomoda e persino ripugnante», che pure «va accolta, amata e aiutata».

Francesco ha indicato anche un antidoto alle «banalità corrosive del consumo» e agli «stordimenti della pubblicità», così come al «dilagare di parole vuote» e alle «onde travolgenti delle chiacchiere e del clamore»: l’impegno a «ritagliare ogni giorno un momento di silenzio con Dio». Per il pontefice passa di qui la strada per «custodire la nostra anima e la nostra libertà». L’invito allora è a «rimanere in silenzio guardando il presepe, perché davanti al presepe ci riscopriamo amati, assaporiamo il senso genuino della vita. E guardando in silenzio, lasciamo che Gesù parli al nostro cuore: che la sua piccolezza smonti la nostra superbia, che la sua povertà disturbi le nostre fastosità, che la sua tenerezza smuova il nostro cuore insensibile».

Ancora una volta, il modello indicato è Maria, che, riferisce il Vangelo, «custodiva. Semplicemente custodiva. Maria – ha osservato Francesco – non parla: il Vangelo non riporta neanche una sua parola in tutto il racconto del Natale. Anche in questo la Madre è unita al Figlio: Gesù è infante, cioè senza parola, è muto. Il Dio davanti a cui si tace è un bimbo che non parla. La sua maestà è senza parole, il suo mistero di amore si svela nella piccolezza. Questa piccolezza silenziosa è il linguaggio della sua regalità. La Madre si associa al Figlio e custodisce nel silenzio». E il silenzio «ci dice che anche noi, se vogliamo custodirci, abbiamo bisogno di silenzio».

Il Papa ha indicato i due «segreti» della Madre di Dio: «Custodire nel silenzio e portare a Dio». Maria, ha rilevato, custodiva gioie ma anche dolori: «Da una parte la nascita di Gesù, l’amore di Giuseppe, la visita dei pastori, quella notte di luce. Ma dall’altra un futuro incerto, la mancanza di una casa, perché per loro non c’era posto nell’alloggio; la desolazione del rifiuto; la delusione di aver dovuto far nascere Gesù in una stalla. Speranze e angosce, luce e tenebra: tutte queste cose popolavano il cuore di Maria». Davanti a tutto questo, lei «non ha tenuto niente per sé, niente ha rinchiuso nella solitudine o affogato nell’amarezza, tutto ha portato a Dio. Così ha custodito. Affidando si custodisce – ha garantito il Papa -. Non lasciando la vita in preda alla paura, allo sconforto o alla superstizione, non chiudendosi o cercando di dimenticare, ma facendo di tutto un dialogo con Dio. E Dio che ci ha a cuore, viene ad abitare le nostre vite».

L’invito finale allora è a «ricominciare dal presepe, dalla Madre che tiene in braccio Dio». La devozione a Maria, ancora le parole di Francesco, «non è galateo spirituale, è un’esigenza della vita cristiana. Guardando alla Madre – ha spiegato – siamo incoraggiati a lasciare tante zavorre inutili e a ritrovare ciò che conta. Il dono della Madre, il dono di ogni madre e di ogni donna è tanto prezioso per la Chiesa, che è madre e donna», l’omaggio del Papa. Mentre l’uomo spesso astrae, afferma e impone idee, ha proseguito, «la donna, la madre, sa custodire, collegare nel cuore, vivificare. Perché la fede non si riduca solo a idea o dottrina, abbiamo bisogno, tutti, di un cuore di madre, che sappia custodire la tenerezza di Dio e ascoltare i palpiti dell’uomo».

L’augurio per il nuovo anno è che «la Madre, firma d’autore di Dio sull’umanità, porti la pace di suo Figlio nei cuori e nel mondo». Se è vero infatti che «il cuore invita a guardare al centro della persona, degli affetti, della vita», anche «noi, cristiani in cammino, all’inizio dell’anno sentiamo il bisogno di ripartire dal centro, di lasciare alle spalle i fardelli del passato e di ricominciare da ciò che conta». Il Papa ha indicato allora il «punto di partenza»: la Madre di dio. «Maria – ha evidenziato – è esattamente come Dio ci vuole, come vuole la sua Chiesa: Madre tenera, umile, povera di cose e ricca di amore, libera dal peccato, unita a Gesù, che custodisce Dio nel cuore e il prossimo nella vita. Per ripartire, guardiamo alla Madre. Nel suo cuore batte il cuore della Chiesa. Come figli – è la conclusione -, vi invito a salutarla con le parole dei cristiani di Efeso: santa madre di Dio».

Francesco: «Il grazie a Dio riflette la sua Grazia»

Maria, la prima ad avere sperimentato la «pienezza del tempo». È lei che, nel tradizionale Te Deum di fine anno, Papa Francesco ha indicato come modello di una «gratitudine struggente» che «non viene dall’io ma da Dio e coinvolge l’io e il noi». A conclusione dell’anno civile, guidando la preghiera dei primi vespri nella basilica di San Pietro, ha spiegato che la celebrazione del Te Deum respira quella stessa atmosfera della pienezza del tempo. «Non perché siamo all’ultima sera dell’anno solare, tutt’altro, ma perché la fede ci fa contemplare e sentire che Gesù Cristo, Verbo fatto carne, ha dato pienezza al tempo del mondo e alla storia umana».

La prima a farne esperienza è stata appunto la «Madre del Figlio incarnato. Attraverso di lei – ha continuato il pontefice – è sgorgata la pienezza del tempo: attraverso il suo cuore umile e pieno di fede, attraverso la sua carne tutta impregnata di Spirito Santo. Da lei la Chiesa ha ereditato e continuamente eredita questa percezione interiore della pienezza, che alimenta un senso di gratitudine, come unica risposta umana degna del dono immenso di Dio». Si tratta, per Francesco, di «una gratitudine struggente, che, partendo dalla contemplazione di quel bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, si estende a tutto e a tutti, al mondo intero». Ancora, «è un grazie che riflette la Grazia – ha puntualizzato -: non viene da noi ma da lui; non viene dall’io ma da Dio, e coinvolge l’io e il noi».

Invitando a rendere grazie al Padre «per l’anno che volge al termine, riconoscendo che tutto il bene è dono suo», il Papa ha ricordato anche le «opere di morte», le «menzogne» e le «ingiustizie che hanno «sciupato e ferito» il 2017. Le guerre, ha detto, «sono il segno flagrante di questo orgoglio recidivo e assurdo. Ma lo sono anche tutte le piccole e grandi offese alla vita, alla verità, alla fraternità, che causano molteplici forme di degrado umano, sociale e ambientale. Di tutto vogliamo e dobbiamo assumerci, davanti a Dio, ai fratelli e al creato, la nostra responsabilità», l’appello del Papa. Ma «questa sera – ha continuato – prevale la grazia di Gesù e il suo riflesso in Maria. E prevale perciò la gratitudine, che, come vescovo di Roma, sento nell’animo pensando alla gente che vive con cuore aperto in questa città».

Francesco li ha chiamati «artigiani del bene comune»: quanti «amano la loro città non a parole ma con i fatti». Per queste persone che «ogni giorno contribuiscono con piccoli ma preziosi gesti concreti al bene di Roma», ha detto, «provo un senso di simpatia e di gratitudine». Un omaggio, quello del Papa, alla parte sana della città di cui è vescovo: a quelli che «cercano di compiere al meglio il loro dovere, si muovono nel traffico con criterio e prudenza, rispettano i luoghi pubblici e segnalano le cose che non vanno, stanno attenti alle persone anziane o in difficoltà, e così via. Questi e mille altri comportamenti esprimono concretamente l’amore per la città. Senza discorsi, senza pubblicità, ma con uno stile di educazione civica praticata nel quotidiano».

Nelle parole del pontefice anche la «grande stima per i genitori, gli insegnanti e tutti gli educatori che, con questo medesimo stile, cercano di formare i bambini e i ragazzi al senso civico, a un’etica della responsabilità, educandoli a sentirsi parte, a prendersi cura, a interessarsi della realtà che li circonda». Secondo Francesco queste persone, «anche se non fanno notizia, sono la maggior parte della gente che vive a Roma. E tra di loro – ha affermato – non poche si trovano in condizioni di ristrettezze economiche; eppure non si piangono addosso, né covano risentimenti e rancori ma si sforzano di fare ogni giorno la loro parte per migliorare un po’ le cose».

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