Il cammino sinodale nelle carceri romane

Foto di Cristian Gennari

Il cammino sinodale tocca e coinvolge anche le carceri, dove gli operatori della pastorale penitenziaria hanno svolto in questi mesi un percorso di particolare ascolto della realtà in cui operano.

«Conviene sottolineare che l’attività dei cappellani, delle suore e dei volontari che vivono le strutture carcerarie, dove è visibilmente presente la sofferenza quanto meno per la mancanza della libertà e della possibilità di contatto con i familiari e le figure del mondo esterno, è sempre primariamente un’attività di ascolto da fare con il cuore perché le persone hanno bisogno di esprimersi – spiega don Marco Fibbi, coordinatore dei 7 cappellani del carcere di Rebibbia –. Tuttavia il cammino sinodale ha motivato i diversi operatori pastorali ad una sollecitazione specifica di quelle persone che potevano risultare più disponibili al dialogo e allo scambio sui temi proposti dal Sinodo».

Da qui il coinvolgimento «di quanti partecipano settimanalmente agli incontri di catechesi che si svolgono nei diversi reparti della struttura di detenzione – spiega ancora il sacerdote, che opera nel nuovo complesso della casa circondariale –. Si tratta di piccoli gruppi se riferiti alla totalità del carcere e di quanti partecipano con una certa assiduità alla celebrazione eucaristica, ma si è scelto di coinvolgerli per garantire una continuità e una sistematicità all’attività di ascolto». Don Fibbi riscontra come durante gli incontri settimanali «i partecipanti si sono mostrati disponibili e aperti nel rispondere alla domanda relativa alla loro esperienza di Chiesa, testimoniando vissuti diversi ma allo stesso tempo ricchi». Un primo elemento comune emerso è «un’esperienza di Chiesa e di fede tramandata da figure parentali – sono ancora le parole del cappellano –, che riguardano soprattutto l’età dell’infanzia e dell’adolescenza, cui ha fatto seguito un periodo di graduale allontanamento dalla pratica religiosa». Nonostante la frequentazione giovanile, «è emersa una sostanziale difficoltà a comprendere le espressioni tipiche della pratica religiosa – continua Fibbi – tanto da chiedere un cambiamento di linguaggio perché sia i battezzati possano riscoprire il valore di essere cristiani, che i non battezzati possano accedere con acceso desiderio al nuovo cammino offerto». Ad emergere è stata poi la constatazione che «la sofferenza vissuta nel carcere permette loro di fare esperienza di Dio e di sperimentare una solidarietà nella difficoltà – aggiunge il sacerdote –. Ancora, il valore del sacramento della riconciliazione che permette di avviare il processo per cambiare lo sguardo su se stessi e vedersi con gli occhi di Dio e non con quelli della condanna».

Anche don Andrea Carosella, da luglio cappellano al carcere femminile di Rebibbia, constata come il cammino sinodale avviato negli incontri di catechesi con le detenute «è stato accolto con piacere per il fatto di essere state coinvolte in questo processo e perché è stata data importanza dalla Chiesa». Il sacerdote riflette su come «per noi che ci chiediamo come lo Spirito Santo in questo tempo in particolare ci parla è evidente la gioia di chi sente che può leggere la propria vita alla luce della misericordia di Dio» e che «la Parola è detta e letta anche per loro, per offrire una prospettiva di vita fatta di nuova fiducia».

Chiara D’Onofrio, membro dell’équipe sinodale e volontaria nella sezione femminile del carcere di Rebibbia dal 2018, auspica che «il processo che è stato avviato con il Sinodo possa diventare uno stile di ascolto mirato dei detenuti», constatando anche che «l’input fornito dalle attività del cammino sinodale ha permesso a noi che operiamo nelle carceri di focalizzarci sul camminare insieme». La volontaria, consacrata dell’Ordo Virginum, racconta che «in questo tempo particolare abbiamo svolto con le ragazze un percorso sulle Beatitudini, che loro hanno affrontato con grande serietà». Quello che maggiormente è emerso, «sia in chiave positiva che negativa – sono ancora le parole di D’Onofrio –, è il bisogno manifestato di fare esperienza di relazioni autentiche e di prossimità da parte della Chiesa, talvolta percepita soltanto come un’istituzione separata e lontana». Ecco allora che «c’è forte il bisogno e il desiderio di capire cosa sia davvero la Chiesa, anche rispetto al rapporto personale che è possibile instaurare con Dio – continua la volontaria –, che molte delle detenute riscoprono in carcere nel fermarsi a riflettere con loro stesse e perché messe di fronte alle proprie difficoltà, quando si riaccende quella luce che ci abita». Infine D’Onofrio riflette su come «ascoltare la voce delle detenute è stato per noi mettersi in ascolto anche della società», perché «ad interpellarci è il dopo e quello che vivranno e incontreranno una volta uscite».

di Michela Altoviti da Roma Sette

9 maggio 2022