22 Dicembre 2025

La lettera del vicario De Donatis per l’incontro diocesano delle famiglie

 

Ai Reverendi Parroci della Diocesi di Roma

Roma, 30 aprile 2018

Carissimo,

ti scrivo per comunicarti un’iniziativa a cui tengo molto nell’ambito del rinnovamento della pastorale per la famiglia alla luce di Amoris Laetitia, nel solco del cammino che abbiamo iniziato già dallo scorso anno pastorale.

Ho pensato di invitare tutte le famiglie – e soprattutto quelle che si sono rese disponibili per porsi al servizio di un rinnovato annuncio del Vangelo della famiglia, quelle impegnate nella pastorale post battesimale e le giovani coppie – ad una giornata di festa e di preghiera che terremo al Santuario del Divino Amore il prossimo 20 maggio in occasione della Solennità di Pentecoste. Mi piacerebbe che, nel clima di gioia e di fiducia che il dono rinnovato dello Spirito ci infonde, tante famiglie della nostra Diocesi possano vivere un momento di serenità e di preghiera, riflettendo insieme sulle sfide cui fa riferimento il Papa nell’esortazione apostolica che ci ha consegnato. Sarebbe molto bello poter avere con noi anche quelle coppie che si stanno preparando al matrimonio da celebrarsi nei prossimi mesi.

Ti chiedo di estendere questo invito in modo forte a tutte le famiglie della tua comunità. Ci ritroveremo al Santuario nell’Auditorium alle ore 11.00 per un incontro-dialogo con Giovanni Ramonda, Presidente dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (fondata da don Oreste Benzi) sul tema: “Accogliersi per accogliere – La famiglia luogo di comunione nell’amore”.

Seguirà il pranzo al sacco (o – per quanti lo desiderano al ristorante della Casa del Pellegrino al prezzo di € 17 a persona). Dopo il pranzo ogni famiglia avrà un tempo a disposizione per stare insieme o per partecipare ad alcune iniziative proposte dal Centro diocesano per la Pastorale della Famiglia e alle 16.00 presiederò la solenne Eucarestia di Pentecoste nel Santuario nuovo. Dall’inizio della giornata e fino al termine della Messa sono previsti percorsi di animazione a tema con giochi per i bambini e nei pressi degli ambienti che utilizzeremo saranno allestiti fasciatoi e  “punti mamma”. Allego il modulo di partecipazione che dovrà essere restituito compilato al Centro per la Pastorale della Famiglia (famiglia@vicariatusurbis.org / 06.698.86211) entro e non oltre il 14 maggio p.v.

Con grande amicizia ti invio la mia benedizione

Angelo De Donatis

Vicario Generale del Papa

per la Diocesi di Roma

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La lettera del vescovo Ricciardi sulla cura pastorale delle persone malate

«Non esitare a visitare un malato, perché per questo sarai amato». Parte da questo versetto del Libro del Siracide la lettera che il vescovo Paolo Ricciardi, delegato per la Pastorale sanitaria nella diocesi di Roma, ha scritto ai sacerdoti sulla cura pastorale delle persone malate. Un testo che, ammette il presule, «era già pronto da tempo, almeno da Natale scorso», ma che poi ha ripreso in mano e aggiornato a seguito della pandemia.

«Come sappiamo è accaduto l’imprevedibile – ricorda –. Il coronavirus che, da febbraio 2020, ha deciso di farsi un viaggio per il mondo, scegliendo come seconda tappa dopo la Cina, il nostro Paese, ha messo tutti in grande difficoltà, compresi noi sacerdoti. Improvvisamente abbiamo fatto tutti quanti i conti con la malattia o con la paura di essere contagiati. Abbiamo ascoltato storie, visto immagini, sentito persone che ci hanno fatto riflettere, commuovere, piangere. Abbiamo appreso con tristezza della morte di tanti confratelli, alcuni dei quali hanno veramente dato la vita per gli altri».

Ma gli ammalati e i sofferenti ci sono sempre stati. «Questo periodo “straordinario” della storia – si legge infatti nella lettera – ci ha ricordato che, nell’ “ordinario” della vita, la malattia è sempre dietro l’angolo e che non c’è comunità in cui non ci siano persone malate o isolate, che meritano tutta la nostra attenzione sempre, non solo nei momenti di difficoltà per tutti». Ecco, allora, il consiglio ai sacerdoti di «conoscere bene il gregge» che viene loro affidato, avendo cura in particolare delle pecore più deboli. «Nell’arco del mio sacerdozio – racconta il vescovo nella missiva – ho fatto tesoro della testimonianza di tanti confratelli che si sono dedicati ai malati con fedeltà e tenerezza, ricordandomi che chi è padre ha un’attenzione privilegiata per i figli che sono nella debolezza fisica e spirituale».

«Andarli a trovare, in casa e, se possibile, in ospedale – elenca monsignor Ricciardi –, informarti sul loro stato di salute, telefonare per far sentire la tua vicinanza, è un aspetto primario della vita pastorale di un sacerdote, in particolare di un parroco. Oltre ad essere un’opera di misericordia, è un “restituire” un dono a chi, mentre soffre, si offre. Si sa, la vita parrocchiale ci prende in tanti aspetti quotidiani ed il tempo è sempre poco, e a volte si rischia, in particolare con i malati, di delegare questo servizio ad altri, dimenticando poi le nostre responsabilità…».

Quindi qualche consiglio pratico. «È bene riservarsi almeno una mattina a settimana per la visita dei malati. D’accordo con i ministri straordinari della comunione, si passerà nelle case con loro, o al posto loro. Nelle parrocchie dove i malati sono molti, è bene dividersi le zone a seconda del numero dei sacerdoti, fermo restando che il parroco cercherà di passare periodicamente da tutti. La visita non è importante solo per i malati, ma anche (a volte soprattutto) per i familiari, per chi si prende cura di un marito, di una moglie, dei genitori, di un figlio». Importante poi che il pensiero per i malati sia vivo nella comunità parrocchiale, ricordandoli sempre durante le celebrazioni e riservando un giorno al mese in cui celebrare, a livello parrocchiale, una giornata mensile del malato.

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24 luglio 2020

La lettera del vescovo Ricciardi agli infermieri di Roma

Il 14 luglio, festa di san Camillo de Lellis, patrono degli ammalati, monsignor Paolo Ricciardi, vescovo delegato del Centro per la Pastorale Sanitaria, ha diffuso una lettera rivolta agli infermieri e agli operatori socio-sanitari impegnati in ospedali e case di cura di Roma. Siate «pronti a guardare al bene dei malati, sempre – il suo appello -. Ad accostarli con amorevolezza e semplicità». Il presule ha rivolto il suo «grazie» per il loro lavoro, «per la disponibilità quotidiana, anche nella fatica dei contesti dove lavorate, tra turni, pensieri, preoccupazioni, tensioni, ansie, attese, speranze».

Girando per gli ospedali, osserva il vescovo Ricciardi, «vedo che c’è tanta gente che soffre. E tanta gente che si offre». Da qui la gratitudine a tutti coloro che si adoperano per la cura dei malati. Un servizio che lo stesso vescovo ha sperimentato quando gli è capitato di essere ricoverato. «Voi siete lì sempre, depositari della fiducia di tante persone sconosciute», sottolinea il presule. In una società in cui «dilaga l’indifferenza e la mancanza di umanità».

Agli infermieri e agli operatori
socio-sanitari il vescovo associa un’immagine tratta dal Vangelo: quella delle quattro persone che portano da Gesù un paralitico su un lettuccio in una casa e salgono addirittura sul tetto per calarlo all’interno e poterlo accostare a Gesù. «Quando vi accorgete che il malato ha bisogno di spiritualità – scrive Ricciardi facendo appello non solo ai cristiani ma a tutti coloro che sentono la necessità della riscoperta di una vita interiore – non spegnete quel desiderio ma indirizzatelo a chi in ospedale o nel luogo di cura dove state è incaricato per l’assistenza religiosa dei pazienti».


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La lettera del vescovo Gervasi per i malati cronici

In occasione della Giornata Mondiale delle Malattie Reumatologiche, che ricorre il 12 ottobre, il vescovo monsignor Dario Gervasi ha scritto, con l’Ufficio per la pastorale degli anziani e dei malati, una lettera indirizzata a coloro che sono affetti da una patologia cronica, intitolata “A te che porti nel tuo corpo la malattia”.

Carissima/o,
desidero scriverti nella speranza di farti arrivare, attraverso queste poche parole, l’affetto e la vicinanza di cui sono certo hai bisogno, soprattutto nei momenti di buio e di sconforto, che la malattia, che segna il tuo corpo, provoca.

Io non posso capire cosa si prova a vivere quello che vivi tu. La malattia che non guarisce e scandisce i ritmi del tuo tempo, la puoi spiegare solo tu. Tu che ti trovi spesso nella solitudine, e che non trovi risposte che possono dare un senso alla tua vita. Io posso solo accostarmi a te in punta di piedi e con profondo rispetto, condividendo i tuoi silenzi, i tuoi sfoghi e magari la tua rabbia insofferente. Certo, posso farlo solo se tu lo desideri. Vorrei essere per te speranza, sostegno, coraggio e forza. Ma tutte queste cose, poi, scopro che le doni tu agli altri. Sei tu che con la tua debolezza, doni forza e sei tu che con il tuo esempio perseverante infondi fiducia a chi ti sta accanto.

Sei la “meraviglia di Dio”, capace di trasformare il dolore in Amore, e diventi tu stesso Amore incarnato. Sei prezioso, e non è vero che tu “non puoi”… la tua preghiera è potente ed arriva al Cuore di Gesù che attraverso di te opera cose incredibili. Io non ho la risposta al “perché proprio a te”. Non ce l’ho e non posso avere la presunzione di averla.

Ma so con certezza che sei strumento prezioso nelle Sue mani, e che Tu sei nel Suo Cuore, condividendo e associando il tuo patire alla Sua Passione. Voglio dirti grazie per il tuo esempio e desidero che tu sappia che oltre queste mie povere parole, Tu sei nelle mie preghiere.

Sei nella Eucarestia che celebro, sei con me davanti al SS.mo durante l’Adorazione. E lo sei maggiormente quando non preghi, quando hai i tuoi momenti di ribellione o di rifiuto, quando ti chiudi. Gesù conosce il tuo cuore e non volgerà mai il Suo sguardo lontano da te. Conosce bene la tua sofferenza, la fatica di ogni giorno e notte, conosce le tue paure. Sa bene cosa significa l’incomprensione degli altri, il giudizio ed il pregiudizio. Sa bene cosa significa essere lasciato solo. Conosce la notte del dolore e del buio. Anche Lui ha vacillato più volte nel Getsemani. Forse anche tu. Ma Lui, illumina continuamente il buio con la Luce della Speranza e dell’Amore. Ecco. Io desidero farti arrivare questo: grazie che ci sei. Grazie davvero. Prega per me, per noi, come io, e la comunità prega per te.
Ti abbraccio. Ti benedico.

Leggi la lettera

 

7 ottobre 2024

La lettera del Santo Padre ai sacerdoti della diocesi di Roma

Foto DiocesiDiRoma/Gennari

Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Francesco ha inviato ai Sacerdoti della Diocesi di Roma

Cari fratelli sacerdoti,
desidero raggiungervi con un pensiero di accompagnamento e di amicizia, che spero possa sostenervi mentre portate avanti il vostro ministero, con il suo carico di gioie e di fatiche, di speranze e di delusioni. Abbiamo bisogno di scambiarci sguardi pieni di cura e compassione, imparando da Gesù che così guardava gli apostoli, senza esigere da loro una tabella di marcia dettata dal criterio dell’efficienza, ma offrendo attenzioni e ristoro. Così, quando gli apostoli tornarono dalla missione, entusiasti ma stanchi, il Maestro disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (Mc 6,31). Penso a voi, in questo momento in cui ci può essere, insieme alle attività estive, anche un po’ di riposo dopo le fatiche pastorali dei mesi scorsi. E vorrei anzitutto rinnovarvi il mio grazie: «Grazie per la vostra testimonianza, grazie per il vostro servizio; grazie per tanto bene nascosto che fate, grazie per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio […]; grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche, incomprensioni e pochi riconoscimenti» (Omelia per la Messa del Crisma, 6 aprile 2023).

D’altronde, il nostro ministero sacerdotale non si misura sui successi pastorali (il Signore stesso ne ha avuti, col passare del tempo, sempre di meno!). Al cuore della nostra vita non c’è nemmeno la frenesia delle attività, ma il rimanere nel Signore per portare frutto (cfr Gv 15). È Lui il nostro ristoro (cfr Mt 11,28-29). E la tenerezza che ci consola scaturisce dalla sua misericordia, dall’accogliere il “magis” della sua grazia, che ci permette di andare avanti nel lavoro apostolico, di sopportare gli insuccessi e i fallimenti, di gioire con semplicità di cuore, di essere miti e pazienti, di ripartire e ricominciare sempre, di tendere la mano agli altri. Infatti, i nostri necessari “momenti di ricarica” non avvengono solo quando ci riposiamo fisicamente o spiritualmente, ma anche quando ci apriamo all’incontro fraterno tra di noi: la fraternità conforta, offre spazi di libertà interiore e non ci fa sentire soli davanti alle sfide del ministero.

È con questo spirito che vi scrivo. Mi sento in cammino con voi e vorrei farvi sentire che vi sono vicino nelle gioie e nelle sofferenze, nei progetti e nelle fatiche, nelle amarezze e nelle consolazioni pastorali. Soprattutto condivido con voi il desiderio di comunione, affettiva ed effettiva, mentre offro la mia preghiera quotidiana perché questa nostra madre Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella carità, coltivi il prezioso dono della comunione anzitutto in sé stessa, facendolo germogliare nelle diverse realtà e sensibilità che la compongono. La Chiesa di Roma sia per tutti esempio di compassione e di speranza, con i suoi pastori sempre, proprio sempre, pronti e disponibili a elargire il perdono di Dio, come canali di misericordia che dissetano le aridità dell’uomo d’oggi. E ora, cari fratelli, mi domando: in questo nostro tempo che cosa ci chiede il Signore, dove ci orienta lo Spirito che ci ha unti e inviati come apostoli del Vangelo? Nella preghiera mi ritorna questo: che Dio ci chiede di andare a fondo nella lotta contro la mondanità spirituale. Il Padre Henri de Lubac, in alcune pagine di un testo che vi invito a leggere, ha definito la mondanità spirituale come «il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché le altre sono vinte». E ha aggiunto parole che mi sembrano colpire nel segno: «Se questa mondanità spirituale dovesse invadere la Chiesa e lavorare a corromperla intaccando il suo principio stesso, sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale» (Meditazione sulla Chiesa, Milano 1965, 470).

Sono cose che ho ricordato altre volte, ma mi permetto di ribadirle, ritenendole prioritarie: la mondanità spirituale, infatti, è pericolosa perché è un modo di vivere che riduce la spiritualità ad apparenza: ci porta a essere “mestieranti dello spirito”, uomini rivestiti di forme sacrali che in realtà continuano a pensare e agire secondo le mode del mondo. Ciò accade quando ci lasciamo affascinare dalle seduzioni dell’effimero, dalla mediocrità e dall’abitudinarietà, dalle tentazioni del potere e dell’influenza sociale. E, ancora, da vanagloria e narcisismo, da intransigenze dottrinali ed estetismi liturgici, forme e modi in cui la mondanità «si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa», ma in realtà «consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale» (Evangelii gaudium, 93).

Come non riconoscere in tutto ciò la versione aggiornata di quel formalismo ipocrita, che Gesù vedeva in certe autorità religiose del tempo e che nel corso della sua vita pubblica lo fece soffrire forse più di ogni altra cosa? La mondanità spirituale è una tentazione “gentile” e per questo ancora più insidiosa. Si insinua infatti sapendosi nascondere bene dietro buone apparenze, addirittura dentro motivazioni “religiose”. E, anche se la riconosciamo e la allontaniamo da noi, prima o poi si ripresenta travestita in qualche altro modo. Come dice Gesù nel Vangelo: «Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima» (Lc 11,24-26). Abbiamo bisogno di vigilanza interiore, di custodire la mente e il cuore, di alimentare in noi il fuoco purificatore dello Spirito, perché le tentazioni mondane ritornano e “bussano” in modo garbato, «sono i “demoni educati”: entrano con educazione, senza che io me ne accorga» (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2022).

Vorrei soffermarmi, però, su un aspetto di questa mondanità. Essa, quando entra nel cuore dei pastori, assume una forma specifica, quella del clericalismo. Scusate se lo ribadisco, ma da sacerdoti penso che mi capiate, perché anche voi condividete ciò in cui credete in modo accorato, secondo quel bel tratto tipicamente romano (romanesco!) per cui la sincerità delle labbra proviene dal cuore, e sa di cuore! E io, da anziano e dal cuore, sento di dirvi che mi preoccupa quando ricadiamo nelle forme del clericalismo; quando, magari senza accorgercene, diamo a vedere alla gente di essere superiori, privilegiati, collocati “in alto” e quindi separati dal resto del Popolo santo di Dio.

Come mi ha scritto una volta un bravo sacerdote, “il clericalismo è sintomo di una vita sacerdotale e laicale tentata di vivere nel ruolo e non nel vincolo reale con Dio e i fratelli”. Denota insomma una malattia che ci fa perdere la memoria del Battesimo ricevuto, lasciando sullo sfondo la nostra appartenenza al medesimo Popolo santo e portandoci a vivere l’autorità nelle varie forme del potere, senza più accorgerci delle doppiezze, senza umiltà ma con atteggiamenti distaccati e altezzosi. Per scuoterci da questa tentazione, ci fa bene metterci in ascolto di ciò che il profeta Ezechiele dice ai pastori: «Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (34,3-4). Si parla di “latte” e di “lana”, ciò che nutre e che riscalda; il rischio che la Parola ci pone davanti è dunque quello di nutrire noi stessi e i nostri interessi, rivestendoci di una vita comoda e confortevole. Certamente – come afferma Sant’Agostino – il pastore deve vivere anche grazie al sostegno offerto dal latte del suo gregge; ma commenta il Vescovo di Ippona: «Prendano pure il latte dalle pecore e vi si mantengano nella loro penuria. Tuttavia, non trascurino la debolezza delle pecore, cioè nella loro attività non cerchino, per dir così, il loro tornaconto dando l’impressione d’annunziare il Vangelo per sbarcare il lunario loro personalmente, ma dispensino agli altri la luce della parola di verità che li illumini» (Discorso sui pastori, 46,5). Allo stesso modo, Agostino parla della lana associandola agli onori: essa, che riveste la pecora, può far pensare a tutto ciò di cui possiamo adornarci esteriormente, ricercando la lode degli uomini, il prestigio, la fama, la ricchezza. Il grande padre latino scrive: «Chi offre la lana rende l’onore. Questi sono i due vantaggi che cercano dalla gente quei pastori che pascono se stessi e non le pecore: risorse per sopperire alle proprie necessità e riguardi particolari consistenti in onorificenze e lodi» (ibid., 46,6). Quando siamo preoccupati solo del latte, pensiamo al nostro tornaconto personale; quando cerchiamo in modo ossessivo la lana, pensiamo a curare la nostra immagine e ad aumentare il successo. E così si perde lo spirito sacerdotale, lo zelo per il servizio, l’anelito per la cura del popolo, finendo per ragionare secondo la stoltezza mondana: «Che me ne importa? Ciascuno faccia ciò che gli piace; il mio sostentamento è assicurato, e così pure il mio onore. Ho latte e lana a sufficienza. Vada pure ciascuno dove gli pare» (ibid., 46,7).

La preoccupazione, allora, si concentra sull’“io”: il proprio sostentamento, i propri bisogni, la lode ricevuta per sé stessi invece che per la gloria di Dio. Questo accade nella vita di chi scivola nel clericalismo: perde lo spirito della lode perché ha smarrito il senso della grazia, lo stupore per la gratuità con cui Dio lo ama, quella fiduciosa semplicità del cuore che fa tendere le mani al Signore, aspettando da Lui il cibo a tempo opportuno (cfr Sal 104,27), nella consapevolezza che senza di Lui non possiamo far nulla (cfr Gv 15,5). Solo quando viviamo in questa gratuità, possiamo vivere il ministero e le relazioni pastorali nello spirito del servizio, secondo le parole di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Abbiamo bisogno di guardare proprio a Gesù, alla compassione con cui Egli vede la nostra umanità ferita, alla gratuità con cui ha offerto la sua vita per noi sulla croce.

Ecco l’antidoto quotidiano alla mondanità e al clericalismo: guardare Gesù crocifisso, fissare gli occhi ogni giorno su di Lui che ha svuotato sé stesso e si è umiliato per noi fino alla morte (cfr Fil 2,7-8). Egli ha accettato l’umiliazione per rialzarci dalle nostre cadute e liberarci dal potere del male. Così, guardando le piaghe di Gesù, guardando Lui umiliato, impariamo che siamo chiamati a offrire noi stessi, a farci pane spezzato per chi ha fame, a condividere il cammino di chi è affaticato e oppresso. Questo è lo spirito sacerdotale: farci servi del Popolo di Dio e non padroni, lavare i piedi ai fratelli e non schiacciarli sotto i nostri piedi. Restiamo dunque vigilanti verso il clericalismo. Ci aiuti a starne lontano l’Apostolo Pietro che, come ci ricorda la tradizione, anche nel momento della morte si è umiliato a testa in giù pur di non essere all’altezza del suo Signore. Ce ne preservi l’Apostolo Paolo, che a motivo di Cristo Signore ha considerato tutti i guadagni della vita e del mondo come spazzatura (cfr Fil 3,8).

Il clericalismo, lo sappiamo, può riguardare tutti, anche i laici e gli operatori pastorali: si può assumere infatti “uno spirito clericale” nel portare avanti i ministeri e i carismi, vivendo la propria chiamata in modo elitario, chiudendosi nel proprio gruppo ed erigendo muri verso l’esterno, sviluppando legami possessivi nei confronti dei ruoli nella comunità, coltivando atteggiamenti boriosi e arroganti verso gli altri. E i sintomi sono proprio la perdita dello spirito della lode e della gratuità gioiosa, mentre il diavolo s’insinua alimentando la lamentela, la negatività e l’insoddisfazione cronica per ciò che non va, l’ironia che diventa cinismo. Ma così ci si fa assorbire dal clima di critica e di rabbia che si respira in giro, anziché essere coloro che, con semplicità e mitezza evangeliche, con gentilezza e rispetto, aiutano i fratelli e le sorelle a uscire dalle sabbie mobili dell’insofferenza.

In tutto ciò, nelle nostre fragilità e nelle nostre inadeguatezze, così come nella crisi odierna della fede, non scoraggiamoci! De Lubac concludeva affermando che la Chiesa, «anche oggi, nonostante tutte le nostre opacità […] è, come la Vergine, il Sacramento di Gesù Cristo. Nessuna nostra infedeltà può impedirle di essere “la Chiesa di Dio”, “l’ancella del Signore”» (Meditazione sulla Chiesa, cit., 472). Fratelli, questa è la speranza che sostiene i nostri passi, alleggerisce i nostri pesi, ridà slancio al nostro ministero. Rimbocchiamoci le maniche e pieghiamo le ginocchia (voi che potete!): preghiamo lo Spirito gli uni per gli altri, chiediamogli di aiutarci a non cadere, nella vita personale come nell’azione pastorale, in quell’apparenza religiosa piena di tante cose ma vuota di Dio, per non essere funzionari del sacro, ma appassionati annunciatori del Vangelo, non “chierici di Stato”, ma pastori del popolo.

Abbiamo bisogno di conversione personale e pastorale. Come affermava il Padre Congar, non si tratta di ricondurre a una buona osservanza o fare una riforma di cerimonie esteriori, bensì di ritornare alle sorgenti evangeliche, di scoprire energie fresche per superare le abitudini, di immettere uno spirito nuovo nelle vecchie istituzioni ecclesiali, perché non ci succeda di essere una Chiesa «ricca nella sua autorità e nella sua sicurezza, ma poco apostolica e mediocremente evangelica» (Vera e falsa riforma della Chiesa, Milano 1972, 146).

Grazie per l’accoglienza che vorrete riservare a queste mie parole, meditandole nella preghiera e di fronte a Gesù nell’adorazione quotidiana; posso dirvi che mi sono venute dal cuore e dall’affetto che ho per voi. Andiamo avanti con entusiasmo e coraggio: lavoriamo insieme, tra preti e con i fratelli e le sorelle laici, avviando forme e percorsi sinodali, che ci aiutino a spogliarci delle nostre sicurezze mondane e “clericali” per cercare, con umiltà, vie pastorali ispirate dallo Spirito, perché la consolazione del Signore arrivi davvero a tutti. Davanti all’immagine della Salus Populi Romani ho pregato per voi. Ho chiesto alla Madonna di custodirvi e di proteggervi, di asciugare le vostre lacrime segrete, di ravvivare in voi la gioia del ministero e di rendervi ogni giorno pastori innamorati di Gesù, pronti a dare la vita senza misura per amore suo. Grazie per quello che fate e per quello che siete. Vi benedico e vi accompagno con la preghiera. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente, Lisbona, 5 agosto 2023, Memoria della Dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore.
Francesco

La lettera del Consiglio episcopale per i nuovi catechisti

Foto Diocesi di Roma / Gennari

Carissimi,
siamo ormai giunti alle soglie della prima Istituzione dei Catechisti nella nostra Diocesi. Il Santo Padre ha già istituito presso la Basilica di San Pietro alcuni catechisti e celebrerà di nuovo il rito in questa Domenica della Parola.

Gli istituendi che riceveranno la benedizione domenica sono 284 e provengono da 150 parrocchie della Diocesi, si sono preparati per più di un anno con incontri dal vivo e online, un campo-ritiro ad Assisi ed infine hanno sostenuto un colloquio finale nel quale hanno fatto sintesi del cammino compiuto e focalizzato il compito che li aspetta in parrocchia.

Il loro ministero si colloca a pieno titolo nel cammino sinodale che il nostro Vescovo, papa Francesco, ha promosso e sostenuto per tutta la Chiesa: con i catechisti istituiti infatti il “carisma laicale” dell’educare alla vita cristiana a partire dalla sua iniziazione, viene riconosciuto come ministero di cui la Chiesa, così come tutti coloro che chiedono di farne parte, ha bisogno.

Essi potranno coadiuvare i parroci nel coordinare il gruppo dei catechisti, saranno un “ponte” fra Ufficio Catechistico Diocesano e parrocchia e questo non solo permetterà una più agevole comunicazione ma anche favorirà certamente la diffusione di tutte le iniziative di formazione che l’Ufficio vorrà promuovere per i catechisti della Diocesi.

Il servizio dei catechisti istituiti – in sintesi – non solo renderà ancora più ricca la missione della Chiesa ma favorirà lo sviluppo di una più intensa comunione fra quelle componenti che si occupano dell’annuncio e della crescita nella fede.

Accogliamoli dunque come un vero dono che il Signore fa alla Sua Chiesa e come un segno della sua vitalità. A tutti voi giunga la nostra benedizione. Buon Cammino!

Il Consiglio Episcopale della Diocesi di Roma

La lettera del cardinale vicario per la Giornata di Avvenire e Roma Sette

Domenica 8 novembre ricorre la Giornata diocesana di Avvenire e Roma Sette, «occasione privilegiata per sensibilizzare la comunità sul ruolo del quotidiano e su quello del settimanale». L’auspicio è del cardinale vicario Angelo De Donatis, che per l’occasione ha inviato una lettera ai parroci della diocesi.

«In questi mesi di pandemia – scrive il cardinale De Donatis – il quotidiano dei cattolici ci ha accompagnato lungo il sentiero della crisi che attraversa l’Italia e lungo le vie della testimonianza aperte da sacerdoti, operatori pastorali, cittadini, a cominciare da medici e insegnanti, in prima linea in questo tempo difficile. C’è stato un “racconto del bene” che ha mostrato come sia possibile e sia apprezzata un’altra informazione rispetto a quella a cui siamo abituati, più incentrata su una narrazione incline a mettere in pagina i frutti del male e i toni “urlati”. Questo “racconto del bene” ha mostrato l’Italia della speranza e del buon vivere, volti e voci di donne e uomini “in uscita” – per usare un’espressione cara a Papa Francesco – dagli steccati dell’indifferenza. E sappiamo quanto ci sia davvero bisogno di questo tipo di informazione».

«A dare voce a questo racconto, per la nostra Chiesa di Roma – si legge ancora –, ha contribuito e contribuisce certamente il settimanale diocesano Roma Sette che, ogni domenica in edicola e nelle parrocchie con Avvenire (oltre che nell’edizione digitale del quotidiano), ha dato e dà conto del dinamismo della pastorale e della carità con cui le nostre comunità hanno affrontato e affrontano la prova della pandemia».

Leggi la lettera del cardinale

30 ottobre 2020

La lettera del cardinale De Donatis per la solennità di Pentecoste

Foto DiocesiDiRoma/Gennari

Di seguito la lettera del cardinale vicario Angelo De Donatis in occasione della solennità della Pentecoste

Carissimi fratelli e sorelle,
nella Solennità della Pentecoste che ci apprestiamo a vivere siamo tutti a domandare il dono dello Spirito Santo. È lo Spirito che ci fa Chiesa e dove non c’è lo Spirito non c’è la Chiesa. Ci ricorda Sant’Ireneo: chi non ha lo Spirito non si nutre alle mammelle della Madre, non può attingere alla fonte d’acqua viva che zampilla dal Corpo di Cristo, ma si scava cisterne screpolate e beve l’acqua fetida di un pantano (cfr. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 15).

Mi colpisce sempre quando nella liturgia preghiamo quel noi non sappiamo che cosa sia conveniente che risuona nella lettera di Paolo ai Romani, cui fa eco nella lettera ai Corinzi: “l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2,14). Quante cose noi non sappiamo!

Quanto è vero che sperimentiamo spesso, anche nel nostro cammino ecclesiale, lo smarrimento, lo sconcerto, il fallimento dei nostri progetti, la divisione, l’apparente insignificanza della nostra presenza. Anche noi ci sentiamo come le ossa aride di cui parla Ezechiele, come una Babele divisa, nella confusione delle lingue che non si comprendono. Come un monito, il Signore sembra volerci ricordare che l’unità si infrange quando è solo una costruzione umana, che cadono i disegni delle nazioni e i progetti dei popoli sono resi vani. Quando siamo noi, con le nostre forze, a costruire, Dio distrugge, quando vogliamo farci un nome, Lui ci disperde, quando diamo inizio alla “nostra opera” Lui scende, ci confonde, perché non ci comprendiamo più. Se Lui ci toglie il respiro, cioè il soffio del Suo Spirito, noi moriamo e ritorniamo nella nostra polvere, tutto si deforma e viene come disintegrato.

Il Signore ci rende umili in ciò che non sappiamo, ci fa sperimentare la sete perché possiamo gustare l’acqua viva, permette che ci sentiamo bloccati e inariditi per liberarci e donarci la sua novità. Egli vuole sostituire i nostri desideri con i suoi, i nostri stessi gemiti con i suoi, perché il suo disegno e i progetti del suo cuore sussistono per sempre.

In questa solennità siamo chiamati a riscoprire anzitutto la necessità di essere assetati supplici, deboli che non sanno, confusi bisognosi di salvezza. Siamo chiamati a gridare allo Spirito: noi abbiamo bisogno di te, vieni! Vieni ad intercedere per noi, vieni a dirci i desideri di Dio, vieni a darci la tua sapienza, non quella di questo mondo, e dei dominatori di questo mondo, ma quella sapienza “divina, misteriosa” che tu prepari per quelli che ti amano. Il Signore ci promette che dal suo cuore squarciato sgorgheranno per noi e per tutti fiumi d’acqua viva e ci esorta ad avere sete e a bere da questo cuore. Solo là possiamo abbeverarci di una vita che dura per sempre, la Vita nello Spirito del Padre e del Figlio, quella vita che ci immette nel circolo del loro stesso Amore. Se beviamo e viviamo di ciò che beviamo, riceviamo lo Spirito e diventiamo uomini spirituali. Doniamo ciò che possediamo, diventiamo anche noi fonte. Dunque ognuno di noi si domandi: di che bevo io? Di che beve la mia comunità? Di cosa abbiamo sete e di che ci dissetiamo? Di che cosa viviamo davvero?

Senza lo Spirito noi siamo come un grembo vuoto e una fonte disseccata: non c’è la Chiesa, né il cammino sinodale. Ma lo Spirito è un Dono. Il Signore desidera rinnovarci questo Dono di se stesso, che rimarrà però inoperoso senza la nostra accoglienza. Lo Spirito si adatta con pazienza alla misura della nostra recezione, è Amore umile, che si abbassa, ci ispira secondo la misura del nostro consenso e ci è concesso solo come risposta alla nostra ricerca.

Vi invito dunque, come comunità diocesana, a entrare e rimanere nel Cenacolo. Come Maria con gli apostoli accogliamo lo Spirito per vivere dello Spirito e nello Spirito e così divenire veri evangelizzatori. Inondati dalla luce dello Spirito per manifestare Cristo come la Vita che vive in noi.

Rimaniamo sotto l’azione dello Spirito, come in una Pentecoste perenne, rinnovando come popolo sacerdotale, con un cuor solo e un’anima sola, l’offerta di noi stessi al Padre nel Figlio.

Questa è l’Opera che Dio vuole fare in noi effondendo il Suo Spirito. Il nostro primo compito è custodire l’Alleanza, rimanere la “proprietà” che il Signore si è scelto. Solo così potremo realizzare quello di cui Papa Francesco parlava nella Evangelii gaudium: divenire una “fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono”.

Interceda per noi la Vergine Maria, vaso perfetto dello Spirito Santo e sua Sposa, tutta trasparente di Lui.

“Veni Sancte Spiritus! Veni per Mariam”.

Angelo Card. De Donatis
Vicario Generale di Sua Santità
per la Diocesi di Roma

La lettera del cardinale De Donatis in occasione dell’inizio dell’anno pastorale

Foto DiocesiDiRoma/Gennari

«Dopo i mesi estivi, forse anche tu ti senti ricco di tanti incontri, di tante esperienze vissute, eppure allo stesso tempo ti senti più povero, riconoscendo che tutto è riposto in Dio. Essere poveri per il cristiano significa infatti essere persone di speranza: solo il povero spera. Chi ha risolto tutto si aspetta solo che le cose non cambino, per non dover mettere in discussione le conquiste». Esordisce così il cardinale vicario Angelo De Donatis nella lettera che oggi, festa degli Angeli Custodi, indirizza ai sacerdoti e ai diaconi permanenti. Un’occasione per ricordare anche gli incontri di inizio anno con i vescovi ausiliari nei diversi settori.

«Da povero – scrive il cardinale vicario – attendo con fiducia l’avvento di Dio e del suo Regno, certo che come Lui è presente nell’oggi della mia esistenza, lo sarà anche domani. Noi non speriamo che Dio ci aiuti, ma speriamo in Dio che ci aiuta. La differenza non è da poco. La speranza è la fede proiettata nel futuro. (…) Ma cosa ‘trasforma’ la fede in speranza? Proprio la povertà».

Per i sacerdoti, spiega il porporato, «la povertà tocca certamente la gestione delle risorse, la condivisione con i bisognosi, ma soprattutto – a un livello più profondo – interpella il nostro essere uomini: più andiamo avanti con l’età, infatti, e più vediamo che ci vengono meno alcuni affetti o le cose a cui teniamo maggiormente, forse anche a livello pastorale». Talvolta, sottolinea, «i trasferimenti da un incarico all’altro sono per noi una verifica di ciò che è veramente essenziale, di ciò che si può lasciare e ciò che va portato. Arriverà infine anche per noi l’ora in cui saremo costretti alla più assoluta povertà, quando moriremo».

Ma la speranza non viene mai meno, dice il vicario: «Siamo pochi, a volte stanchi, posti davanti all’incertezza e a problemi che non potevamo prevedere fino a qualche anno fa, e a cui forse non siamo stati nemmeno formati; ma siamo sempre il dono che Dio gradisce. Siamo coloro che Cristo ha scelto per condurre il suo gregge verso la Vita in questo momento, in questa nostra diocesi. Il sacerdozio ci ha inseriti indegnamente nell’ordine dei presbiteri, di questi presbiteri. Cristo ci rende degni pur sapendo di non esserlo, anche se insufficienti, limitati, poveri per confidare solo in Dio, fratelli tra fratelli chiamati a vivere solo per Lui e per la gente».

L’invito è allora a «rimeditare» la lettera che il Papa Francesco ha inviato nel mese di agosto e a partecipare alle «assemblee di avvio dell’anno pastorale».

Il testo integrale della lettera del cardinale

2 ottobre 2023

La lettera del cardinale ai monasteri di clausura: «La vostra preghiera incessante per il cammino sinodale»

«L’intercessione è come “lievito” nel seno della Trinità. È un addentrarci nel Padre e scoprire nuove dimensioni che illuminano le situazioni concrete e le cambiano. Possiamo dire che il cuore di Dio si commuove per l’intercessione, ma in realtà Egli sempre ci anticipa, e quello che possiamo fare con la nostra intercessione è che la sua potenza, il suo amore e la sua lealtà si manifestino con maggiore chiarezza nel popolo». Parte da questa citazione di Evangelii gaudium la lettera che il cardinale vicario Angelo De Donatis ha inviato ai monasteri di clausura. Al centro il tema del cammino sinodale, e della «preghiera incessante» che deve accompagnarlo.

«La richiesta di pregare per il cammino sinodale – scrive il vicario del Papa per la diocesi di Roma – è rivolta in particolare alle vostre realtà claustrali, che vivono già il servizio dell’orazione e dell’intercessione come missione principale, affinché costituiscano “il respiro della città”. Vi chiedo, anche a nome della équipe sinodale, di inserire tra le intenzioni di preghiera, quella per il cammino della diocesi, affinché l’ascolto dei lontani e dei vicini possa avvenire sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi chiedo inoltre, di organizzare, ove possibile, momenti comunitari di preghiera e di riflessione dedicati al tema del cammino sinodale e, se le condizioni lo consentono, di coinvolgere anche i fedeli».

Ai consacrate e alle consacrati delle comunità claustrali, «chiamati per vocazione a costituire con la vostra stessa vita incenso che arde e sale al cielo», il cardinale De Donatis riconosce «un mandato speciale ad intercedere affinché, attraverso la vostra preghiera, la Misericordia di Dio abbracci Roma e lo Spirito apra il cuore di chi è invitato ad ascoltare».

Il testo integrale della lettera del cardinale vicario

La lettera dei vescovi ai fedeli di Roma sulla costituzione apostolica “In ecclesiarum communione”

Carissimi,
il 6 gennaio il nostro Vescovo, Papa Francesco, ha emanato una nuova Costituzione Apostolica – In ecclesiarum communione – circa l’ordinamento del Vicariato di Roma.
Avvertiamo questo gesto come un provvidente segno di attenzione e fiducia, che riceviamo con senso di responsabilità. Il Santo Padre affidandoci il compito di “esemplarità”, nella comunione di tutte le Chiese desidera che quello che riusciremo a realizzare sotto la sua guida possa servire, nella umile consapevolezza dei nostri limiti, come esempio per tutti.

In qualità di Vescovo di Roma, – nello spirito del processo di riforma avviato da tempo nella Curia romana – egli indica alla sua Diocesi una nuova prospettiva per le modalità e l’attività di governo finalizzate all’evangelizzazione, secondo lo stile effettivamente sinodale, ricordando la particolare vocazione della nostra Chiesa nella quale si riflette, con una singolare luce, il volto della Chiesa universale.

Il Papa, quindi, guarda a Roma, ma vede la Chiesa universale, chiamata – in un cambiamento d’epoca – a fidarsi sempre più dello Spirito che guida i diversi cammini, che apre nuove vie e distoglie dalla rigidità di formule e di strutture.

Come Consiglio Episcopale già da alcune settimane abbiamo avviato un approfondimento del testo perché pensiamo che da questo nuovo impulso possa dipendere uno slancio di riforma per tutta la nostra Chiesa. Il Prof. Vincenzo Buonomo, Rettore della Pontificia Università Lateranense, ci ha offerto qualche chiave di lettura che desideriamo condividere con voi e che mettiamo in allegato a questa lettera (è possibile scaricare il testo dal sito della Diocesi di Roma).

Con la presente desideriamo invitare tutti e ciascuno ad entrare nello spirito del testo, a partire dal Proemio che indica la prospettiva teologica e spirituale della Costituzione, a coglierne la portata di novità e di freschezza, a scommettere sulle vie che apre. Anche questo documento è in linea con quanto Papa Francesco ci ha donato nel suo magistero; non si tratta di un testo “chiuso” dove tutto è stabilito; piuttosto è un documento che avvia un processo di riforma. Sta a noi accoglierlo e portarlo a maturazione, credendoci e operando con la consueta generosità creativa con cui abbiamo sempre lavorato.

I principi che il Santo Padre sottolinea compongono l’impianto del nostro essere Chiesa: comunità in cammino (sinodalità) che avverte il bisogno di una profonda conversione missionaria e solidale nella carità, in grado di coinvolgere tutti i suoi membri nell’opera evangelizzatrice, che sa dialogare con il mondo in cui è immersa e che esprime pienamente la collegialità tra i pastori che la guidano e tra loro con il Vescovo di Roma. Il cambiamento di mentalità precede e consegue la riforma delle strutture che il testo suggerisce ed è quanto con insistenza dobbiamo chiedere allo Spirito di contribuire con un cuore rinnovato a quella che potrà diventare una nuova stagione ecclesiale.

Grati e convinti della responsabilità che ci viene assegnata, accogliamo il nuovo Documento, che dà una sorta di armonica accelerazione ai diversi processi avviati in questi anni. L’esigenza di comunione, comunicazione e carità attraversa tutte le forme di servizio e di partecipazione, a cominciare dal modo in cui noi vescovi ausiliari del Papa sapremo interpretare il nostro comune servizio. Allo stesso modo i direttori di ufficio e quanti lavorano in Vicariato saranno incoraggiati a dare priorità, nel lavorare insieme, all’attenzione da rivolgere alle persone prima che alle strutture. Così tutta la realtà diocesana, articolata nelle parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali, potrà procedere con uno spirito di maggiore partecipazione e corresponsabilità.

Si tratta, ora, di ripartire da qui, animati dal desiderio di serena condivisione, dalla gratitudine per quanto abbiamo e che ci unisce, piuttosto che vedere ciò che manca e ci divide. Rendiamo grazie per i numerosi presbiteri, religiosi e laici che ogni giorno, con semplicità e fedeltà, continuano a dare la vita per il Signore, nella Chiesa di Roma.

La Vergine Santissima, Salus Populi Romani, ci prenda per mano e ci custodisca perché come popolo di credenti abbiamo il gusto di camminare insieme.
Uniti nella preghiera.

Il Consiglio Episcopale

In Ecclesiarum Communione
Scarica la lettera dei vescovi
Scarica il contributo del professor Buonomo

27 gennaio 2023

La lettera da Floresta di don Paolo Boumis

Pubblichiamo una recente lettera di don Paolo Boumis, missionario fidei donum romano in Brasile, inviata al Centro missionario diocesano.

Carissimi e carissime,

siamo tutti ancora pieni delle gioie pasquali che ci rinnovano nella speranza e torno a raccontarvi un po’ di me e della missione di Itacuruba. Abbiamo vissuto la Quaresima insieme a tutta la Chiesa brasiliana nella tradizionale Campagna della Fraternità, che ha avuto per tema: “Fraternità e superamento della violenza”. Come ogni anno abbiamo pregato, riflettuto sulla Parola di Dio, discusso e celebrato la Via Crucis con l’occhio, la mente ed il cuore rivolti alla realtà drammatica del nostro povero Brasile. Ogni giorno, come sapete, registriamo omicidi in tutte le città della Diocesi. Ad Itacuruba questo succede un po’ meno, ma le conseguenze sono drammatiche lo stesso: le famiglie coinvolte in un omicidio di alcuni anni fa, carnefici e vittime, sono condannate a vivere separate, con i parenti sparpagliati a centinaia di chilometri perché, pur non essendoci una responsabilità diretta, il semplice incontro per strada di parenti può provocare incidenti anche molto gravi. Sradicare la cultura della vendetta e della morte è terribilmente difficile. Sotto sotto, sto scoprendo che molte famiglie della parrocchia sono in realtà legatissime a questo problema, tanto che anche una semplice attività parrocchiale è fallita perché io, inconsapevolmente, avevo messo insieme a lavorare persone di fronti opposti. Il miracolo di poter collaborare tra persone di diverse opinioni politiche mi è quasi riuscito del tutto. Per queste situazioni, invece, devo imparare pregare di più per capire di più…

Il mercoledì delle Ceneri ho lanciato una provocazione in chiesa, annunciando la campagna “Arma Zero”, dicendo che la notte del Giovedì Santo, durante l’Adorazione, la chiesa sarebbe rimasta aperta tutta la notte e che una cesta sotto l’altare avrebbe accolto le armi deposte anonimamente da chi, toccato dalla parola di Gesù Cristo crocifisso, avesse deciso di cambiare vita. Nella profonda convinzione che molte famiglie, anche di persone fedeli alla Chiesa, abbiano armi in casa, ho parlato apertamente del problema, durante tutta la Quaresima. La cosa che mi ha fatto pensare di più è stata la reazione della gente. Quando dicevo: “So che in molte case della nostra parrocchia ci sono armi”, le persone non si sono ribellate, come se stessi dicendo un’eresia offensiva. Al contrario: è calato il gelo, come se avessi pizzicato un bambino con le dita nel barattolo della marmellata. Silenzio. Nessun commento. E, purtroppo, nessuna arma consegnata. Io non credo di aver sbagliato nel denunciare questa cultura, né di aver esagerato in un ottimismo ingenuo, sperando chissà cosa. A Natale farò lo stesso discorso e lancerò la stessa sfida. La cosa preoccupante e frustrante è che nessuno, dico nessuno, dei miei parrocchiani è venuto a dirmi di condividere questa mia angoscia. L’abitudine alla cultura della violenza è così radicata che sembra impossibile anche lontanamente pensare di liberare la propria famiglia da uno strumento di morte. Ma siamo qui anche per questo, senza perdere la speranza che qualcuno cominci a capire che c’è un’altra strada per vivere meglio.

Come saprete dalle notizie del Telegiornale, abbiamo assistito impotenti alla truffa giuridica che ha portato il presidente Lula in carcere. È un momento molto brutto per il Brasile: i ricchissimi potentati economici hanno ripreso in pieno il controllo del paese e hanno spento in meno di un anno le speranze di milioni di persone che avevano cominciato a vivere una condizione migliore. Torneremo a pagare tutto, medicine e cure, scuole e università, e il paese ripiomberà ancora più violentemente nell’incredibile divario tra la grande massa di persone impoverite e maltrattate e la piccolissima élite di chi detiene le redini di tutto. La candidatura presidenziale di Bolsonaro (il Trump brasiliano) rischia di essere vincente. Questo ex militare, violento con le parole e con le armi, a differenza di Trump non spara solo stupidaggini e volgarità. Spara pallottole.

Ma insieme a questo quadro fosco e triste, ci sono le belle notizie: da gennaio a tutt’oggi la pioggia sta facendo rivivere la terra e la gente. Piove spesso e abbondantemente, riempiendo gli invasi e traboccando dagli argini, invadendo le campagne e riappropriandosi di spazi che aveva sempre avuto ma che negli ultimi sette anni avevano visto solo pietre e spine. Una grande festa per tutti e per la natura che ora è bellissima, verde e rigogliosa. Si chiama “risurrezione della Caatinga”, che è il bioma tutto brasiliano del sertão. Caatinga significa “pianta bianca”, perché quando ci sono gli anni di secca le piante assumono tutte un colore grigio chiaro e aspettano con una incredibile resistenza la prima acqua per esplodere di germogli. È uno spettacolo meno famoso dei ciliegi (o peschi?) del Giappone, ma molto più emozionante, sapendo quanto essere un “albero bianco” significhi per chi quotidianamente rischia di morire di sete. La vita, ancora una volta, ha trionfato sulla morte. Su tutti noi, “alberi bianchi” in attesa dell’acqua della vita, scenda la gioia della Resurrezione!

Un grande abbraccio.

Don Paolo

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